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ESISTE ANCORA UN DIRITTO ALLA PRIVACY? di Alessandra Di Giovambattista

ESISTE ANCORA UN DIRITTO ALLA PRIVACY?

di Alessandra Di Giovambattista

 30-09-2023

Le recenti tecnologie hanno contribuito ad assottigliare i limiti individuati dal diritto alla riservatezza, alla tutela della propria sfera personale; basti pensare alla funzione di geolocalizzazione contenuta nei cellulari o alla facilità con cui è possibile reperire gli indirizzi di posta elettronica: è alla portata di tutti il fenomeno della pubblicità indesiderata a causa della quale si ricevono telefonate e messaggi pubblicitari in qualunque ora del giorno sia sulle mail sia sui cellulari.

Ma c’è di più; basti pensare al fatto che qualora si parli con altre persone che sono fisicamente vicine, e quindi non al telefono, dopo poco arriva sul cellulare pubblicità che ha a che fare con beni o servizi attinenti all’argomento che si stava affrontando. La conclusione è: il telefono ci ascolta! Vi sono varie app (ma anche Facebook ed Instagram) caricate sui nostri cellulari che hanno come obiettivo quello di monitorare costantemente i comportamenti ed i discorsi delle persone; purtroppo però la causa di ciò è anche da ricercare nella leggerezza con cui noi stessi autorizziamo l’accesso al microfono o alla videocamera per utilizzare una qualsiasi app. Stesso discorso si può fare per le c.d. smart TV, o per strumenti di intelligenza artificiale (come ad esempio Alexa) che sono in grado di riprendere immagini ed ascoltare dialoghi che si svolgono nella stanza dove è posizionato il dispositivo. Secondo una compagnia israeliana di cybersecurity - la Check Point Software – la causa di queste ingerenze è da ricercare proprio nelle autorizzazioni che noi stessi diamo nel momento di installazione di app senza controllarne la provenienza e senza leggere le condizioni che si stanno accettando.

Molte aziende di marketing monitorano gli utenti nelle abitudini di consumo e gusti personali attraverso alcune tecniche di pubblicità che raccolgono informazioni personali, per poi proporre beni o servizi specifici; si consideri che raccolte di dati sulla tipologia dei consumi vengono svolte anche dalle banche ed istituti di credito attraverso il controllo della tipologia di prodotti che si acquistano con moneta elettronica.

La digitalizzazione delle immagini contribuisce poi ad una costante perdita della riservatezza e del controllo di azioni ed immagini rendendo così sempre più difficile la tutela della privacy. Condividere video o foto tramite internet significa perdere il controllo del materiale condiviso e permettere che tutti, indiscriminatamente, vengano a conoscenza del contenuto; la gravità della situazione è sottolineata quando le vittime sono i minori, spesso ignari delle conseguenze di quelle che potrebbero sembrare banali azioni.

Quindi oggi i problemi della privacy non sono più legati solo alla riservatezza e al controllo della divulgazione dei dati ed informazioni personali, ma si sono estesi verso un modo di esercizio del potere. Si assiste ad un cambiamento della struttura della società che sempre più si basa sull’accumulazione e la circolazione delle informazioni, come se fossero beni di primaria necessità, creando situazioni spesso tra loro paradossali dove se da un lato si incentiva la comunicazione, la conoscenza, la libertà di espressione ed il dialogo, dall’altro si compromette il confine tra quanto è riservato, personale e privato e quanto può essere di dominio pubblico. Pertanto con l’avvento degli strumenti informatici, primo tra tutti il personal computer (PC), e lo sviluppo della rete del web, la circolazione di informazioni personali diviene una regola del sistema della nuova società della comunicazione ed i dati assumono la natura di veri e propri beni con caratteristiche merceologiche ben definite. Non più informazioni interessanti per la cronaca o per la situazione contingente, riguardanti determinati soggetti perlopiù esposti pubblicamente, bensì tutte le micro informazioni che riguardano ognuno di noi e che divengono beni di scambio tra società di raccolta dati e società che ne gestiscono l’utilizzo.

Con l’espressione web 2.0 ci si riferisce alla rete digitale al cui interno troviamo i c.d. social networks dove gli utenti possono entrare, esprimere le proprie opinioni, costruire la propria immagine pubblica - cioè il c.d. profilo social - dar vita a dibattiti di varia natura; l’avvento di questa modalità di interconnessione tra utenti ha modificato la socializzazione ed i rapporti interpersonali e però ha anche contribuito in modo esponenziale alla raccolta di informazioni. I dati che percorrono il web riguardano foto, immagini, registrazioni vocali, ed informazioni di qualsiasi tipo, contenenti anche dati sensibili sulla propria vita sociale e personale che originariamente si condividono solo con soggetti che si autorizzano ma che successivamente, a cascata, possono essere visti ed ascoltati da utenti che il soggetto iniziale non conosce e che pertanto non ha autorizzato. Inoltre i dati avranno la caratteristica di permanere definitivamente sul web e questa loro persistenza diventa in realtà uno strumento di potere da parte di soggetti che potrebbero avere obiettivi non sempre meritori. Alcuni studi hanno evidenziato che spesso gli utenti sono del tutto ignari delle modalità di uso e divulgazione dei dati che gli stessi caricano sui social networks; in particolare si è arrivati a definire il paradosso (c.d. privacy paradox) per il quale gli utenti hanno a cuore la tutela della propria privacy ma di fatto non fanno molto perché ciò avvenga. In particolare una ricerca della PricewaterhouseCoopers ha evidenziato il timore, da parte degli utenti, dell’uso indiscriminato delle proprie informazioni da parte delle società di gestione dati e la conseguente possibilità di essere soggetti a rischio di attacco informatico, ma ciò nonostante gli stessi utenti fanno scelte senza ragionare sulle possibili conseguenze di queste ultime in termini di tutela della riservatezza. E’ stato notato che sembra esserci uno scollamento tra quanto si vorrebbe fare per tutelarsi e quanto realmente si fa attraverso atti pratici a tutela della propria privacy (come ad esempio concedere autorizzazioni o condividere foto, video e audio). Di fatto la leggerezza con cui si danno autorizzazioni attraverso gli strumenti informatici, apre il varco alla vulnerabilità della libertà di ciascuno che viene insidiata da forme sottili e pervasive di controllo che noi stessi alimentiamo per il gusto della costante condivisione, anche delle circostanze più banali.

La gestione di tutte le informazioni così recepite avviene attraverso l’analisi c.d. dei big data che gestisce la mole di dati di cui si dispone mediante le modalità di elaborazione dei computer; così si ha la possibilità di analizzare qualsiasi fenomeno non più in modo parziale, con l’aiuto ad esempio della inferenza statistica che analizza un campione rappresentativo e ne descrive l’andamento complessivo, bensì totalmente in quanto riesce a considerare tutti i dati relativi al fenomeno osservato.

Si consideri che in passato le informazioni erano raccolte in formato analogico, quindi allo stato grezzo e per essere analizzate dovevano essere prima trattate; oggi questo passaggio è del tutto inutile in quanto tutte le informazioni sono già prodotte in formato digitale che ne permette l’immediata analisi, aggregazione, organizzazione e comprensione. Ma c’è di più: oggi non sono più solo le persone che forniscono dati, ma già nel 2013 una ricerca ha evidenziato che viaggiando all’interno di un aereo Boeing 777 i sensori di bordo carpiscono un terabyte di dati (un terabyte è composto da 1.099.511.627.776 byte) durante un volo di tre ore, e dopo 20 di questi voli possono rilevare più dati di quelli che attualmente si trovano nella più grande biblioteca del mondo; con il miglioramento della tecnologia l'aereo sarà in grado di catturare per ogni volo, fino a 30 terabyte dai suoi sensori.

Inoltre il flusso dei dati raccolti, estremamente vari nella loro natura, è un fluire senza soluzione di continuità, in maniera dinamica sotto forma di informazioni raccolte e rilasciate ad una determinata velocità, ed estremamente variabili nei loro contenuti.

Altro aspetto fondamentale è poi la veridicità del dato, caratteristica che esprime la qualità dell’informazione. In tale ambito la tutela della privacy gioca un ruolo fondamentale per assicurare che le informazioni raccolte siano veritiere e reali. In un contesto in cui mancano regole a tutela della riservatezza, gli utenti più inclini a difendere la propria sfera privata saranno indotti a rinunciare ai servizi offerti dalla società dell’informazione o a disseminare dei dati falsi, al fine di indurre conoscenze distorte rispetto alla realtà. Invece fornire una regolamentazione sulla protezione dei dati personali e sulla tutela della riservatezza aiuterebbe gli utenti a discernere il tipo di dati da fornire, in ragione della finalità e aiuterebbe i titolari del trattamento dei dati a comprendere le informazione e ad isolare dati veritieri.  

In tale contesto diviene importante monitorare anche il trattamento dei big data che viene finalizzato alla combinazione dei dati per produrre algoritmi che consentano un’analisi predittiva; il rapporto tra big data e raccolta di informazioni personali, induce a riflessioni sul necessario bilanciamento tra rischi per la protezione dei dati personali e utilità e vantaggio derivanti dalla gestione di queste informazioni. L’analisi dei dati personali attraverso la metodologia dei big data, fa spostare il problema in un ambito molto delicato poiché l’esame dei big data, essendo di natura predittiva, può creare informazioni nuove ed anche false, costruite a partire da dati effettivi e reali. Questo si verifica perché le informazioni, essendo gestite attraverso algoritmi, possono produrre indicazioni distorte e non veritiere che possono tuttavia ricadere sulle persone e produrre danni diretti o indiretti irreparabili.

Di fronte a tutte queste metodologie che privano della libertà di riservatezza e di vita propria, ci si interroga se di fatto sia ancora valido ed efficace parlare di tutela della privacy: siamo costantemente seguiti, nostro malgrado, attraverso chip, orologi smart, televisioni, sensori installati nei luoghi più disparati, e tutto questo spesso anche dietro autorizzazione di leggi specifiche o per espresso volere di istituzioni sociali e politiche. Da alcune parti si è paventata l’idea che affermare che la tutela della privacy sia un problema superato e ormai del tutto inesistente potrebbe di fatto rappresentare un alibi per permettere a coloro che sono espressione di interessi economici e di potere internazionale di poter gestire in tutta libertà i dati di natura personale. Si consideri che secondo una ricerca condotta da una società americana, la IDC, le informazioni relative all’anno 2020 sui cittadini degli Stati membri dell’UE potrebbero valere complessivamente un trilione di euro: circa l’8% del PIL di tutti i Paesi membri della UE. La presenza di sensori e chip ormai quasi ovunque (prestiamo attenzione anche alle c.d. smart city), anche nel proprio corpo, consente di dare un prezzo a tutto ed in particolare a tutte le informazioni che ci riguardano. Tuttavia si sta assistendo, finalmente, ad una presa di coscienza da parte degli utenti circa i danni derivanti dalla poca attenzione alla riservatezza; non si deve rinunciare ai vantaggi derivanti dalla tecnologia solo perché ci sono alcuni attori economici che raccogliendo dati personali ne fanno poi uno strumento di potere (soffermiamoci anche sul fenomeno dei c.d. influenzer che ormai hanno plagiato le menti di tanti giovani). La tutela della privacy rappresenta un diritto che non solo deve schermare la curiosità di altri soggetti, ma deve essere posto a scudo dell’assetto democratico delle nostre società in difesa dei valori di libertà, dignità ed uguaglianza. Sarebbe bene che il mondo politico e giuridico si facesse carico di questa tutela al fine di trovare il giusto equilibrio tra sviluppo della scienza e della tecnologia e rispetto dei diritti dei singoli individui. La violazione della propria sfera personale provoca danni psichici e fisici, perdita di identità, furti, perdite finanziarie, discriminazione, sottrazione di dati protetti dal segreto professionale.

Quindi il problema della privacy sconfina verso il controllo della collettività mediante la raccolta di dati e la possibilità, attraverso l’intelligenza artificiale di far muovere tutti verso determinati obiettivi che il sistema politico potrebbe porsi, con intenti di controllo e di dominio autoritario sulle comunità. Tali finalità potrebbero essere raggiunte mediante le raccolte di dati sulle scelte politiche (che si controllerebbero attraverso il voto elettronico), sulle scelte di tipo religioso, sociale, sulle abitudini, i gusti ed i consumi dei singoli che se  manipolate e gestite da soggetti con mire autoritarie potrebbero sconfinare in controllo e perdita delle libertà costituzionali di pensiero, movimento ed opinione. Senza voler essere catastrofici si intravede all’orizzonte una possibile dittatura dell’informazione…

 

 

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30 Settembre 2023

Dalla privacy alla protezione dei dati personali: il diritto alla rettifica e all’oblio di Alessandra Di Giovambattista

Dalla privacy alla protezione dei dati personali: il diritto alla rettifica e all’oblio.

di Alessandra Di Giovambattista

 06-10-2023

L’evoluzione delle tecnologie dell’informazione e dei c.d. social network, richiede necessariamente che si adegui la nozione di privacy alle più attuali esigenze di tutela della sfera privata.

Vediamo prima, però, cosa si intende per social network e come forse bisognerebbe parlare più appropriatamente di siti di social network, ossia piattaforme che abilitano forme di socialità attraverso il mondo informatico, cioè online. In particolare l’espressione social network ha il significato di rete sociale, ossia di un legame di tipo sociale tra individui connessi tra loro in ragione di specifici interessi. Per dare una immagine del concetto si può pensare ai nodi della rete come ai singoli soggetti che vi partecipano e alle corde tra un nodo ed un altro come ai legami, agli interessi, che collegano i diversi individui. Sui social network l’informazione viaggia velocissima e la condivisione di essa ne determina la credibilità. Successivamente si è elaborato il concetto di siti di social network dove si hanno piattaforme online nate per agevolare e abilitare reti di relazioni sociali. Attualmente i due termini possono sovrapporsi in quanto con social network si intendono le piattaforme che abilitano pratiche sociali e relazionali (facebook, instagram, twitter). In particolare i siti di social network consentono agli interessati di creare un profilo, avere una lista di utenti con cui connettersi, ampliare le proprie conoscenze, condividere fatti, situazioni, foto, esperienze e tutto ciò che interessa. Dai social network, il passaggio ai social media è rapido: questi ultimi attivano relazioni comunicative e sociali che si basano sulla pubblicazione, ma soprattutto sullo scambio e condivisione di contenuti; è infatti la condivisione di scritti, immagini e video che alimenta i flussi di conversazioni nei social media (per approfondimenti: Vittadini, 2018, Social media studies. I social media alla soglia della maturità storia, teorie e temi).

A ben vedere, parlando di privacy, oggi non è più tanto importante andare a considerare come i social network si interessino della vita privata dei singoli, a cui si contrappone il diritto al riserbo del fatto oggetto della notizia, quanto piuttosto andare a verificare come vengono utilizzate le informazioni da parte dei gestori dei dati, per garantire e tutelare il diritto che ha ogni singolo di conoscerne l’uso. Si assiste così ad un cambiamento del modello a cui far riferimento per la tutela del diritto alla propria immagine: si passa dal diritto alla riservatezza al “diritto alla protezione dei dati personali” che si basa sulla relazione tra chi fornisce e chi utilizza i dati personali al fine di garantire il bilanciamento degli interessi tra le parti del rapporto stesso. In sostanza le informazioni raccolte e poi diffuse per formare la notizia, in alcune circostanze possono contrapporsi  ai dati che il soggetto, più o meno consapevolmente, fornisce attraverso i social network e che divengono oggetto di elaborazione attraverso metodologie informatiche (come l’analisi c.d. dei big data) che restituiscono informazioni anche distorte e molto lontane dalla realtà.

Di fatto si è passati da una protezione del diritto alla propria autonomia e alla tutela della propria sfera personale, alla necessità di tutelare un diritto di tipo dinamico legato alla velocità con cui circolano i dati personali nel palcoscenico della comunicazione affidata alle strumentazioni informatiche che ormai sono alla base della moderna economia di massa e del conseguente modello sociale. Quindi si è giunti a determinare che il concetto di privacy non può essere più considerato in termini di difesa di uno spazio fisico del soggetto, bensì è da ricondurre alla nozione di protezione dei dati, al fine di controllarne l’uso e la circolazione: più che alla sfera personale occorre soffermarsi sulle attuali regole di circolazione delle informazioni. Si delinea così la fattispecie del diritto alla protezione dei dati personali: le informazioni su una persona fisica individuata o individuabile devono essere raccolte e trattate in modo lecito. Pertanto il soggetto chiamato in causa deve avere la possibilità di esercitare il controllo, anche attivo, sui dati che vengono divulgati sulla propria persona, diritto che si estende anche alla rettifica dell’informazione. Quindi, il diritto alla protezione dei dati personali si basa non già sulla riservatezza, ma sul controllo del flusso di informazioni che si riferisce al soggetto. Dal punto di vista giuridico il diritto alla protezione dei dati personali è inteso come il diritto all’autodeterminazione informativa, cioè alla scelta di ogni soggetto di autodefinirsi e determinarsi.

Il recente regolamento europeo in materia di protezione dei dati personali, ha definito la disciplina del “diritto di accesso”; con esso si definisce uno strumento che il singolo può utilizzare per ottenere la correzione, il completamento o l’eliminazione di dati raccolti attraverso i social network. Questo diritto nasce come conseguenza della violazione dei diritti di esattezza, veridicità, correttezza delle informazioni condivise sui social; in tal modo si sottolinea la dinamicità del diritto alla protezione dei dati personali in quanto derivato dalla violazione di altri diritti fondamentali. Ma c’è di più: per esercitare questo diritto non occorre adire le vie giudiziarie ordinarie, bensì esercitare un potere di controllo diretto e continuo sulle piattaforme web, anche indipendentemente dalla lesione di un diritto. Pertanto la possibilità di eliminare notizie e dati condivisi su un social network diviene una tecnica di modifica delle regole sulla circolazione delle informazioni, costantemente monitorata dai diretti interessati e finalizzata alla tutela della riservatezza e della vita privata. Peraltro il diritto alla protezione dei dati personali, mediante il diritto di accesso, va anche oltre la tutela della propria vita privata in quanto non è necessario dimostrare una violazione del diritto alla propria riservatezza affinché siano applicabili le norme sulla protezione dei dati personali e del loro trattamento. La richiesta di accesso è rivolta al titolare del trattamento - società private, professionisti, pubblica amministrazione -  e il contenuto è relativo ai propri dati personali, alla conoscenza delle finalità del trattamento, alle categorie di dati, ai soggetti destinatari, al periodo di conservazione delle informazioni, all’origine dei dati, al loro trattamento mediante modalità informatiche di analisi e gestione, al trasferimento dei dati anche fuori dall’Unione europea.

In materia di tutela della riservatezza e del diritto alla privacy, la giurisprudenza ha coniato anche il “diritto alla rettifica”, già noto in ambito giornalistico; in particolare l’interessato ha il diritto di vedere rettificati i dati personali inesatti, e integrati i dati incompleti da parte del titolare del trattamento dei dati, senza ritardo. Pertanto qualora si riscontrino atti o fatti non rispondenti alla realtà o alla veridicità, il soggetto ha il diritto di modificare, dietro preventiva richiesta, i dati personali che lo riguardano.  

Con la condivisione sul web di dati ed informazioni di natura strettamente personale si è venuto delineando anche il “diritto all’oblio”, nell’ambito del diritto alla protezione dei dati personali, ossia il diritto a non essere più ricordato per fatti ed atti che nel passato furono oggetto di cronaca. Tale diritto trova un bilanciamento con il diritto di cronaca: quest’ultimo deve garantire la conoscenza di un fatto ritenuto rilevante per l’interesse pubblico, ma al tempo stesso deve essere circoscritto nel tempo, in ragione dell’effettivo valore che nel momento corrente può avere l’informazione per la collettività. In termini normativi bisogna sottolineare che il regolamento UE sulla protezione dei dati personali non fornisce una chiara rappresentazione del diritto all’oblio presentando piuttosto un serie di criteri di non facile applicazione. Tra le varie motivazioni si evidenzia l’interesse del soggetto a chiedere la cancellazione delle notizie personali qualora queste non siano più indispensabili rispetto agli scopi per i quali esse erano state raccolte e trattate, così come qualora abbia revocato il consenso alla gestione dei dati o questi siano stati utilizzati in modo non opportuno fino ad arrivare a configurare la fattispecie dell’illecito. Per contro non viene riconosciuto il diritto alla cancellazione qualora la gestione dei dati sia necessaria per garantire l’esercizio di altri diritti quali ad esempio la libertà di espressione e di informazione, oppure per finalità  meritorie come la ricerca storica, scientifica o culturale. È evidente che tali principi calati poi nella realtà, generano difficoltà interpretative; diviene infatti davvero difficile stabilire quando di fatto risulti necessario mantenere nel web informazioni personali che in tempi precedenti sarebbero per forza di cose cadute nell’oblio! Tuttavia spetta all’autorità garante della privacy o al giudice ordinario, decidere sulla richiesta portata all’esame dal diretto interessato affinché i dati a lui riferibili non restino visibili in modo permanente sui social network e più in generale nel web.

Tuttavia, ai fini della comprensione del contrasto tra diritto all’oblio e diritto di informazione pubblica, sono venute in soccorso alcune decisione della Corte europea dei diritti dell’uomo, della Corte di giustizia dell’Unione europea e della Corte di Cassazione in Italia; in particolare il bilanciamento tra questi due diritti influisce direttamente sul modo di concepire la democrazia. Infatti la pluralità di informazioni provenienti da diverse fonti e la loro trattazione in forma critica, sono a garanzia della libertà di informazione e di conoscenza; in tale contesto la giurisprudenza ha evidenziato che il diritto di cronaca è riconosciuto in presenza di tre condizioni: l’effettiva utilità dell’informazione per la società, la veridicità dei fatti rappresentati, la modalità corretta di esposizione della notizia al fine di escludere modalità eccessive o non civili di espressione. 

La Corte di giustizia europea, con la sentenza del 13 maggio 2014 relativa al caso Google Spain, ha affermato che il motore di ricerca su Internet è il responsabile del trattamento dei dati personali anche se le notizie sono pubblicate da terze persone. In tal modo qualora effettuando una ricerca si rinvengano dati e notizie sulla propria persona che si vogliono eliminare, occorre prima di tutto rivolgersi al gestore del motore di ricerca (Google) e qualora questo non dia seguito alla domanda si potranno adire le autorità competenti per ottenere la soppressione, in presenza dei dovuti presupposti, delle notizie non più interessanti per la collettività e che confliggono con il diritto alla protezione dei dati personali.

A ridosso di tale sentenza, il gruppo di lavoro “Articolo 29” – organismo oggi sostituito dal Comitato europeo per la protezione dei dati – pubblicò delle linee guida nelle quali erano definiti dei criteri orientativi che le autorità garanti nazionali, chiamate a decidere circa le controversie in materia di protezione dei dati personali, possono utilizzare. Tra i vari criteri se ne sottolineano alcuni che: servono a specificare se il richiedente è un personaggio pubblico, se è un minorenne, a determinare la tipologia di vita professionale o personale e a prevedere la verifica di eventuali collegamenti mediante link che possono nuocere alla persona ed alla sua immagine.

In via generale, attraverso la sentenza delle sezioni Unite della Corte di Cassazione del luglio 2019 (n. 19681 del 22.07.2019) si è consolidata l’impostazione per cui la rievocazione ed il ricordo di fatti imputabili ad un soggetto sono leciti solo qualora ci si trovi di fronte ad un personaggio che susciti nel presente un’attenzione da parte del pubblico; può trattarsi di un personaggio noto, o di un soggetto pubblicamente esposto. In caso contrario prevale il diritto alla riservatezza rispetto a fatti ed eventi passati che possono nuocere alla dignità ed all’onore e per i quali la collettività non mostra più interesse.

Questi criteri guida, oltre al fattore “tempo trascorso”, sono presi a base delle decisioni che vengono sottoposte all’attenzione del Garante della privacy a cui ci si rivolge per esercitare il diritto all’oblio, dopo mancata risposta o diniego alla richiesta presentata direttamente al gestore del motore di ricerca.  

 

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06 Ottobre 2023

COME SI FA GREENWASHING E COME LO SI CONTRASTA: I C.D. SETTE PECCATI CAPITALI di Alessandra Di Giovambattista

COME SI FA GREENWASHING E COME LO SI CONTRASTA: I C.D. SETTE PECCATI CAPITALI
di Alessandra Di Giovambattista

 

13-11-2023
 
Il fenomeno del grennwashing, traducibile in italiano con il termine di “ecologismo di facciata”, fa riferimento ad una strategia di comunicazione che ha lo scopo di costruire un’immagine tanto positiva quanto falsa di un’azienda rispetto al suo reale impatto ambientale. Diviene pertanto importante, al fine di contrastare tale pratica ingannevole, cercare di capire come le aziende inducano in errore i consumatori; secondo una ricerca condotta da “Terrachoice Environmental Marketing inc.” (società canadese di marketing ambientale) vi sono sette elementi da considerare (definiti “sette peccati capitali”):
1) omessa informazione: la strategia si basa sull’omissione di informazioni che bisognerebbe conoscere al fine di poter ben valutare l’impatto ambientale dei prodotti/servizi commercializzati; in tal modo le aziende non dicono il falso, si limitano (semplicemente !!!) ad omettere l’informazione. Così non viene dichiarata la provenienza delle  materie prime, le modalità con cui sono lavorate, il rispetto delle normative degli Stati dalle quali provengono, la politica di trasporto e di distribuzione, le modalità di imballaggio, le strategie di riciclo delle materie prime, quanta CO2 viene immessa nell’ambiente attraverso la filiera produttiva. Queste informazioni sarebbero importanti per un consumatore consapevole e con la volontà di premiare le aziende più meritorie. L’omissione delle informazioni genera così l’inganno del consumatore al quale, forse, viene sottolineato solo qualche aspetto marginale del problema ambientale. Il fenomeno lo si può riscontrare anche quando alcune aziende delocalizzano la propria produzione trasferendosi in Stati in cui è meno stringente il controllo normativo, potendo così dichiarare che non sono state violate disposizioni ambientaliste, ma ciò in realtà è vero solo perché non hanno prodotto in Italia o nel proprio paese d’origine! Questa pratica ingannevole è stata riscontrata per il 73% dei casi negli USA e per il 98% dei casi nel Regno Unito.
2) Mancanza di prove: in definitiva le aziende dichiarano delle caratteristiche green del prodotto senza che queste vengano supportate da chiare e riconosciute certificazioni da parte di enti terzi a ciò preposti. Ovviamente fanno forza sul fatto che il consumatore, ingannato anche dal nome dell’azienda, spesso multinazionale, non riesce a verificare quanto viene dichiarato. Questo aspetto coinvolge circa il 59% delle aziende statunitensi.
3) Vaghezza: questo aspetto riconduce ad indefinite e imprecisate informazioni sui prodotti che non consentono assolutamente di fare chiarezza circa gli ingredienti utilizzati, la loro provenienza, il processo produttivo impiegato, ma piuttosto usano affermazioni come: “prodotto con ingredienti naturali”, “fatto come da tradizione”, ecc. Anche in tal caso circa il 56% delle aziende statunitensi utilizza questi metodi per abbagliare il consumatore e indurlo a credere che stia acquistando un prodotto rispettoso dell’ambiente.
4) False etichette: le aziende in tal caso utilizzano etichette per i loro prodotti che riportano certificazioni e autorizzazioni che in realtà non hanno acquisito o che sono totalmente false (in un ambito diverso si vuol ricordare il caso, di qualche tempo fa,  del marchio CE che si pensava fosse riferito alla provenienza Comunitaria dei beni, ma che in realtà significava “China Export”, cioè prodotto di esportazione cinese!). L’inganno per il consumatore consiste nel considerare le etichette apposte sul prodotto come veritiere e garantiste di un bene prodotto secondo pratiche ecologiche; in realtà si rischia di utilizzare un prodotto che potrebbe essere assolutamente non rispettoso dell’ambiente ed anzi in alcuni casi anche nocivo. Circa il 24% delle aziende statunitensi approfitta della disattenzione e dell’ignoranza dei consumatori in questo ambito.
5) Irrilevanza: questa tecnica si basa sul fornire informazioni che potrebbero sembrare a favore e a tutela dell’ambiente ma che in realtà esulano del tutto dall’argomento e non sono assolutamente rilevanti per capire se un prodotto è davvero ecologico o meno. In particolare le aziende cercano, ad esempio, di sottolineare la mancanza di alcuni componenti nel prodotto inducendo a pensare che sia una propria scelta strategica di natura ecologica, quando invece per disposizioni di legge non possono usare determinati elementi e sostanze chimiche. La realtà è che il consumatore percepisce come una buona pratica quello che l’azienda di fatto non potrebbe assolutamente fare, pena incorrere nell’illegalità.
6) Basarsi sul male minore: le aziende cercano di celare una produzione nociva indicandola come meno dannosa rispetto ad un’altra; pertanto la questione si gioca su un confronto di filiere di produzione che sono comunque inquinanti, solo che una lo è più di un’altra, e ciò si verifica quando ad esempio su di una di esse ci sono studi consolidati circa la sua nocività, rispetto all’altra. Una dimostrazione è data dalle sigarette elettroniche pubblicizzate come amiche dell’ambiente perché consentono di diminuire le coltivazioni di tabacco che inquinano i terreni e nuocciono alla salute. In realtà anche i liquidi usati per le sigarette elettroniche sono chimici ed altamente tossici e quando si fumano emettono sostanze nocive per l’ambiente e per le persone. Quindi non ci troviamo di fronte ad un prodotto ecologico, bensì di fronte ad un bene che forse è solo meno inquinante rispetto ad un altro, ma questo è tutto da dimostrare!
7) Mentire: questa tecnica è la meno seguita dalle aziende essendo comunque una pratica perseguibile giudiziariamente; in ogni caso alcune affermazioni potrebbero non essere vere e comunque difficili da verificare da parte del consumatore. In tal senso pensiamo a quando viene pubblicizzato un allevamento che non usa antibiotici o che utilizza mangimi ecosostenibili, oppure quando si indicano le emissioni di CO2 della filiera dei prodotti; per il consumatore è davvero difficile, se non impossibile, verificare il grado di verità dell’affermazione fatta dall’azienda. Questa ha tutto l’interesse a far sì che il consumatore venga indotto a credere che stia effettuando un acquisto rispettoso dell’ambiente, quando in realtà per valutare un bene/servizio o una categoria di prodotti, occorre una valutazione circa l’impatto ambientale della filiera nella sua totalità e complessità. Una modalità per valutare l’attendibilità delle dichiarazioni è cercare di approfondirne la veridicità magari informandosi anche su siti di tutela dei consumatori.
Una volta chiariti gli aspetti più caratterizzanti di tale pratica ci si chiede come sia possibile verificare di fatto quando ci si trovi di fronte ad una pratica di greenwashing al fine di contrastarla e di effettuare la scelta più consona ai propri obiettivi di consumi a tutela dell’ambiente; in ambito internazionale ci si può basare sulle raccomandazioni della commissione statunitense “Federal Trade Commission” che ha individuato alcuni metodi abbastanza efficaci per evitare di incorrere in errori di valutazione e quindi per tentare di sfuggire alla possibilità di essere ingannati.
Occorre verificare che le etichette che spiegano l’impatto positivo del prodotto sull’ambiente usino un linguaggio immediato e diretto, di facile comprensione senza grandi proclami e frasi ad effetto. Il messaggio pubblicitario contenuto nella dichiarazione di marketing deve essere semplice con indicazioni esatte circa le effettive strategie utilizzate dall’azienda per raggiungere obiettivi di produzione rispettosi dell’ambiente; in particolare è bene che le singole parti del processo produttivo siano ben chiare e specifiche nella parte innovativa, consentendo di comprendere se il prodotto abbia davvero un impatto di emissioni parzialmente o totalmente compensate (quindi nel migliore dei casi pari a zero). Il linguaggio usato nelle etichette non deve essere eccessivo quindi non deve essere esageratamente enfatico, ponendo un’attenzione ad un beneficio ambientale che difficilmente, salvo prova contraria, sarebbe raggiungibile. Occorre avere delle prove abbastanza inconfutabili circa il miglioramento della linea produttiva di un’azienda rispetto ad un altro marchio concorrenziale; in questo caso si rilevano importanti i processi di ricerca e sviluppo che le grandi aziende dovrebbero incentivare e finanziare e la pubblicizzazione dei risultati e dei loro effetti sui prodotti. Preferire l’acquisto di prodotti con certificazioni effettuate da enti terzi riconosciuti ed affidabili, come ad esempio il Carbon Trust Standard; questa è un’azienda che supporta le imprese nella misurazione delle emissioni di gas ad effetto serra provenienti dalle proprie linee produttive e fornisce un logo per l’identificazione dei prodotti che sono sottoposti alla sua valutazione. La misurazione delle emissioni di CO2 permette di identificare i miglioramenti durante il processo produttivo, di approvvigionamento e di distribuzione; la verifica circa la riduzione dell’impatto ambientale avviene ogni due anni e consente di esporre i miglioramenti compiuti dall’azienda in modo trasparente ed oggettivo.
Per quanto riguarda il nostro Paese il Forum per la Finanza sostenibile, svoltosi a novembre del 2022 a Milano e a Roma, ha esposto delle linee guida per contrastare il greenwashing anche in ambito di finanza sostenibile, allargando il campo di osservazione sia ai consumatori che ai potenziali investitori; nel documento si legge infatti che aziende, consumatori ed investitori possono evitare di incorrere in tale pratica ingannevole seguendo delle raccomandazioni generali relative a determinati comportamenti. In particolare le raccomandazioni per sviluppare politiche di sostenibilità efficaci e contestualmente per fornire una comunicazione esente da pratiche ingannevoli dovrebbe: identificare concreti obiettivi di sostenibilità e comunicarne in modo trasparente sia le motivazioni che hanno portato a scegliere un determinato obiettivo piuttosto che un altro, sia i principi generali a cui fanno riferimento al fine di poterne effettuare una verifica a posteriori. Cercare di dettagliare il percorso produttivo di rispetto climatico intrapreso dall’azienda esplicitando modalità, tempi e obiettivi intermedi che la stessa si pone al fine di consentire a chi legge di verificare se ciò che l’azienda ha fatto o che intende fare sia davvero sostenibile e ragionevolmente raggiungibile. Occorrerebbe cercare di dettagliare le metodologie di misurazione degli esiti ottenuti (c.d. percormance) e fornirne una chiave di lettura chiara ed univoca, al fine di rendere trasparenti i processi di sostenibilità ed i risultati conseguiti dall’azienda e permettere ai consumatori ed agli investitori di fare scelte consapevoli. Un ulteriore aspetto da curare e da approfondire si trova nel cercare di dettagliare le fonti, la tipologia dei dati e le metodologie di raccolta delle informazioni che l’azienda segue per permetterne la verifica circa il grado di affidabilità. È bene poi che la verifica degli obiettivi conseguiti sia assegnata a enti terzi certificatori che abbiano i requisititi e le autorizzazioni necessarie per svolgere tali attività in modo professionalmente trasparente e autonomo e possano così trasferire ai consumatori degli apprezzamenti indipendenti circa le politiche strategiche intraprese delle aziende produttrici. In tal modo le aziende potranno comunicare in maniera accurata le informazioni necessarie per rendere consapevoli i propri consumatori, aiutandoli nel compiere una scelta verso i prodotti più meritori e rispettosi dell’ambiente, e gli investitori, indirizzandone i finanziamenti verso le filiere più attente al rispetto climatico. La necessità di ottenere certificazioni da terze parti indipendenti rappresenta un aspetto che le aziende non dovrebbero sottovalutare e che consumatori e investitori dovrebbero potenziare; è infatti la pressione che i vari portatori di interessi hanno che consente alle imprese di comprendere l’importanza delle valutazioni esterne nella catena del valore. Esse permettono di spingere vero percorsi di sostenibilità per garantire una trasparente e veritiera aspettativa di vantaggi in ragione del potenziamento della reputazione, competitività ed efficientamento dei costi aziendali in favore di attività green ed acquisti ed investimenti consapevoli verso i beni/servizi più meritori.  
Cerchiamo, ognuno di noi, nel nostro piccolo di non cedere a false ed illusorie promesse propinateci da sbrigative ed effimere campagne pubblicitarie. Non ci fermiamo alla superficie dei problemi, cerchiamo di diventare attenti ed informati analisti delle situazioni che ci circondano!

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13 Novembre 2023

IL GREENWASHING: UN’ANALISI GENERALE di Alessandra Di Giovambattista

IL GREENWASHING: UN’ANALISI GENERALE

di Alessandra Di Giovambattista

 09-11-2023 

Da anni ormai, il mondo scientifico ci avvisa del repentino cambiamento climatico che coinvolge il pianeta: ciò in parte è da imputare all’azione dell’uomo, che mai come in questi ultimi decenni ha utilizzato in modo sempre più massiccio ed anche in modo poco attento le risorse del pianeta, in parte al sistema climatico stesso che sempre si è modificato, ad ondate più o meno regolari, per cercare di ritrovare un equilibrio rispetto ai fattori di cambiamento ambientale ed in risposta alle sollecitazioni indotte dalle attività umane. Indubbiamente molto del problema è nell’uso massiccio dei combustibili fossili, ma molto è da imputare anche a sprechi per alimentare spesso beni e servizi di poca utilità (si pensi al costo per energia per mantenere città come Las Vegas il cui fine è legato al solo e puro divertimento) oppure per foraggiare la sete di potere di determinate Nazioni (nessuno ha mai voluto fare un calcolo in temini di impatto ambientale, al di là del danno umano che è incalcolabile, ingiustificabile e insanabile, delle guerre oggi presenti in più parti della terra. Ci sarò un perché? Nessuno però se lo chiede), o ancora per puro interesse economico, legato alla massimizzazione del profitto, di pochi soggetti (si pensi al costante disboscamento della foresta Amazzonica; possibile che non si riesca ad arginare il grande potere delle multinazionali che manovrano ormai tutti i settori economici?).

A fronte di questa drammatica situazione assistiamo ai tentativi di molte aziende di mostrarsi al mercato dei consumatori nella veste di soggetti sensibili ed impegnati nelle questioni ambientali. Questi comportamenti trovano terreno fertile soprattutto nel mercato italiano in cui il numero dei consumatori attenti all’ambiente tende sempre più a crescere. In una ricerca del 2022 condotta dalla rivista Altroconsumo si legge che su 13 Nazioni analizzate, l’Italia si posiziona al sesto posto per quanto riguarda l’indice di stile di vita sostenibile. Risulta che noi italiani, probabilmente anche per un fatto culturale, adottiamo comportamenti sostenibili soprattutto nel rapporto con il cibo, preferendo frutta e verdura di stagione e alimenti a c.d. chilometro zero con la finalità di evitare sprechi alimentari. Anche nel settore non alimentare cerchiamo di preferire l’acquisto di prodotti di qualità che siano utilizzabili più volte e che siano riparabili e riadattabili.

Diversi analisti hanno evidenziato che i cambiamenti climatici hanno ed avranno un impatto sulla domanda di beni e servizi e che modificheranno i comportamenti dei consumatori che rivolgeranno la propria domanda a favore di acquisti rispettosi degli obiettivi ecologici. E’ evidente quindi come le aziende abbiano a cuore che i consumatori percepiscano la loro politica eco compatibile; ma come si può essere sicuri che i prodotti acquistati siano effettivamente rispettosi dell’ambiente? In altre parole le aziende stanno attuando strategie che implichino un serio ed effettivo impegno in tal senso? Ecco che da un po’ di tempo ci troviamo in realtà di fronte a pratiche che la dottrina ha definito con il c.d. termine “greenwashing”, che si sostanzia in un ambientalismo di pura forma, di pura facciata.

Vediamo meglio: molti dei prodotti che oggi acquistiamo sono accompagnati da frasi che riconducono ad aspetti ecologici e che inducono a credere che quella specifica azienda utilizzi processi e prodotti rispettosi dell’ambiente e che cerchi di contrastare i cambiamenti climatici. Il più delle volte, tuttavia, ci si trova di fronte a enunciazioni esclusivamente pubblicitarie, senza che in sostanza vi siano delle vere scelte strategiche da parte delle aziende, a favore dell’ambiente: si parla quindi del c.d. greenwashing. Questo termine nasce come crasi di due parole inglesi: green, cioè verde - aggettivo usato per indicare situazioni e questioni legate all’ecologia - e washing, letteralmente pulire che però, applicato alle strategie aziendali, si può tradurre in nascondere, coprire. Più in generale quindi un’azienda, un marchio o un c.d. brand che fa greenwashing in realtà sta utilizzando una tecnica di marketing e di comunicazione che induce i consumatori a credere che le proprie attività ed i propri prodotti siano totalmente rispettosi dell’ambiente e che l’azienda stessa sia attivamente impegnata in campagne pro ambiente; il più delle volte, invece, la realtà è che sta solo coprendo (washing) l’impatto ambientale negativo che la propria filiera produce.

Quindi siamo di fronte a situazioni che ci presentano aziende, nei più disparati settori, che cercano di costruire ad arte un’immagine della propria attività rispettosa dell’ambiente in considerazione della maggiore propensione dei consumatori all’acquisto di beni e servizi rispettosi della natura. A dirla tutta, in realtà il fenomeno non è nuovo, il primo a definirlo fu l’americano Jay Westerveld, ambientalista; egli nel 1986 evidenziò che la pratica delle catene alberghiere di chiedere ai propri clienti di riutilizzare più volte gli asciugamani per motivazioni di impatto ambientale, aveva in realtà come unico scopo quello di ridurre i costi di gestione. Infatti nessuno ha effettivamente approfondito il problema, di come di fatto poi fosse attuato il processo generale e complessivo di lavaggio della biancheria: con quali prodotti, se biodegradabili o meno, con l’utilizzo di macchinari ad alto o basso assorbimento di energia ed acqua, con prodotti dannosi ed allergizzanti per le persone, con il rispetto dell’equa distribuzione dei vantaggi connessi all’attività economica svolta. Ecco questo è un classico caso di messaggio di forte impatto etico sul consumatore che però non è stato assoggettato ad una rigorosa verifica del fine palesato, cioè quello di attuare una strategia produttiva effettivamente green.

Successivamente nel 2008 si utilizzò un termine forse ancora più rappresentativo del problema qui individuato, il c.d. green sheen, cioè letteralmente: abbaglio, quindi un vero e proprio malinteso del consumatore che lo induce allo sbaglio, all’errore nel considerare ecologico un bene/servizio presente sul mercato. A volerla dire con Valentina Furlanetto, nel suo libro “L’industria della carità” il significato di greenwashing può essere così rappresentato “appropriazione indebita di virtù e di qualità ecosensibili per conquistare il favore dei consumatori o, peggio, per far dimenticare la propria cattiva reputazione di azienda le cui attività compromettono l’ambiente»

In via generale si può evidenziare che nella comunicazione greenwashing si possono individuare le seguenti caratteristiche: - non ci sono informazioni approfondite che supportino quanto indicato nelle etichette e nei messaggi pubblicitari; - i dati sono dichiarati come certificati, tuttavia l’ente certificatore non è riconosciuto come organo autorizzato e quindi non garantisce le c.d. “procedure autorizzative ambientali”, cioè quelle che assicurano che l’attività aziendale sia compatibile con le condizioni per uno sviluppo sostenibile (come enunciato nel Decreto legislativo 152 del 2006); - enfatizzazione di singole e marginali caratteristiche del prodotto con affermazioni ambientali anche false; - le informazioni sono generiche e spesso fuorvianti per il consumatore; - utilizzo di etichette false o contraffatte.  

Con uno sguardo verso gli acquisti delle generazioni più giovani si riscontra che spesso il criterio economico non è l’unico utilizzato e spesso la condivisione dei valori espressi dai vari marchi può fare la differenza. Si è visto infatti che ci sono giovani consumatori che comprano le firme che ad esempio sostengono i rifugiati, oppure che hanno gli imballaggi privi di plastica, o anche che svolgono campagne a favore dell’eliminazione del divario lavorativo tra maschi e femmine, o a favore della salute femminile, o ancora che sostengono l’aborto ed i diritti delle comunità il cui orientamento sessuale non rientra nella classica suddivisione maschio/femmina (c.d. comunità LGBTQ+). Si assiste quindi alla pratica seguita da alcune aziende dei vari settori che per attirare consumatori, specialmente giovani, costruiscono un’immagine di sé stesse attivamente coinvolta nella difesa o prevenzione delle citate situazioni sociali, per cui si sono coniate anche altre parole, come ad esempio quelle c.d. di pinkwashing (a favore del genere femminile in termini di rispetto ed inclusione), genderwashing (a tutela delle pari opportunità) o anche di rainbowwashing (a favore delle comunità LGBTQ+).

Certamente se è possibile riscontrare simili situazioni è perché le normative in vigore non sono stringenti, siamo di fronte alla mancanza di regole certe e applicabili in ambito sia nazionale sia internazionale. Di fronte ad un mercato globale anche le norme dovrebbero coinvolgere più paesi ed essere armonizzate; invece la poca chiarezza e trasparenza rende le tecniche di abbaglio ed induzione all’errore dei consumatori ancora più forti e spesso irriconoscibili. In particolare il messaggio pro natura è spesso poco chiaro e si basa sull’uso di un linguaggio vago ed approssimativo, o all’opposto molto tecnico tanto da risultare quasi incomprensibile, o anche su immagini suggestive con soggetti ed ambienti che richiamano la natura ed inducono a pensare che il prodotto/servizio proposto rispetti davvero i parametri ecologici.

Quindi siamo di fronte ad un’oggettiva difficoltà a riconoscere e capire quanto un’azienda prenda sul serio il problema ambientale e quanti dei suoi proclami siano veramente credibili e fondati su oggettive strategie produttive rispettose dell’ambiente. Oggi capire se si è di fronte ad una pratica di greenwashing è sempre più complicato, soprattutto a causa della facilità e superficialità con cui vengono proposte delle politiche pro ambiente spesso non verificabili a priori, proprio in mancanza di normativa di settore nazionale ed internazionale. Il New Climate Institute ha analizzato gli obiettivi ecologici di 25 multinazionali; secondo quanto comunicato da queste aziende nel 2019 esse hanno contribuito alle emissioni di gas serra per una percentuale pari al 5% delle emissioni a livello mondiale. Tuttavia solo 13 delle 25 aziende spigano nel dettaglio i piani strategici per ridurre le emissioni del 40% circa, laddove il termine “emissioni zero” - che è poi l’obiettivo che ci si è posti per il 2050 - implicherebbe la riduzione del 100% (con l’espressione emissioni zero si intendono le emissioni inquinanti nette, cioè si arriva alla neutralità carbonica quando i gas serra immessi nell’ambiente sono di pari quantità rispetto a quelli che si riescono ad eliminare). Nello studio si evidenzia che solo 3 (Maersk, Vodafone e Deutsche telekom) delle 25 aziende multinazionali hanno obiettivi seri di decarbonizzazione dei processi, in quanto puntano ad un taglio del 90% delle emissioni nei tempi indicati. In definitiva le altre si impegnano a ridurre del solo 20% le emissioni e non accompagnano le loro affermazioni con piani strutturati e con una tavola delle modifiche nel tempo. Si può quindi concludere che, almeno queste aziende prese a base dell’analisi, non sono assolutamente allineate agli obiettivi climatici dell’agenda internazionale; solo alcuni pochi soggetti si stanno realmente impegnando.

Tornando al problema legislativo si evidenzia che nel marzo del 2023 la Commissione europea ha proposto nuovi criteri comuni per arginare il fenomeno del greenwashing e delle asserzioni ecologiste ingannevoli. Il Parlamento europeo li ha poi approvati a maggio 2023. L’obiettivo della Commissione è quello di arginare il problema in quanto, da uno studio condotto dalla stessa Commissione, è risultato che il 53,3% delle affermazioni ambientali da parte delle aziende sono vaghe, fuorvianti o infondate e che il 40% è del tutto infondato e falso. La proposta contiene norme più stringenti sull’uso e sul controllo della veridicità di affermazioni ambientaliste nonché il divieto generale di pubblicità ingannevole. Al fine di valutare se un comportamento è ingannevole, e come tale se può indurre i consumatori nell’errore, è stato formulato un concetto di greenwashing molto stretto e che per valutarne l’effettività occorre individuare due aspetti: l’intenzionalità di fuorviare o indurre in errore il destinatario della dichiarazione di sostenibilità mediante pratiche o enunciazioni ingannevoli e la grave negligenza da parte degli operatori che affermano pratiche o strategie sostenibili in maniera non approfondita e poco chiara, anche qualora non sia ravvisabile l’intenzionalità di fuorviare il consumatore. Altri paesi come l’Australia, Singapore e gli Stati Uniti d’America hanno predisposto delle guide anti-greenwashing che aiutano i consumatori ad essere più consapevoli delle proprie scelte.

L’auspicio è che si riesca a far chiarezza sui veri responsabili dei repentini cambiamenti climatici e che le aziende siano maggiormente controllate nei loro effettivi obiettivi e strategie intraprese perché la posta in gioco è molto alta e occorre porre rimedio nell’immediato senza lasciare spazio ad enunciati ipocriti e falsi; forse sarebbe importante iniziare ad agire anche con il cuore, soprattutto per tutelare le generazioni future!

 

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09 Novembre 2023

LA CULTURA COME VALORE PER L’UMANITA’: UNA RIFLESSIONE di Alessandra Di Giovambattista

LA CULTURA COME VALORE PER L’UMANITA’: UNA RIFLESSIONE
di Alessandra Di Giovambattista

06-12-2023
 
Italia: la nazione che più fa pensare al trionfo della cultura. Il suo passato basato sulle tradizioni, sul pensiero e sulle conoscenze degli etruschi, dei greci, dei latini, è testimoniato in ogni angolo del territorio italico, nei suoi splendidi musei ricchi di inestimabili bellezze e nelle chiese che oltre al patrimonio interno sono veri e propri gioielli di architetture di diverse epoche storiche.
Ma nel nostro sentire quotidiano, cosa vuol dire cultura? È una parola complessa e piena di sinergie: deriva dal latino, “colere” participio passato di cultus, cioè coltivare. Ed effettivamente una persona colta è una persona ricca di esperienze di studio e di vita, capace di elaborare le nozioni, comprenderne fino in fondo il significato, essere critico ed applicare le esperienze acquisite in tutte le situazioni: praticamente coltivare il proprio terreno esistenziale, nutrirlo con la spiritualità, le arti, il gusto per il bello, il luminoso, il trasparente, per far fiorire una vita ricca di saggezza, educazione, morale, etica, pazienza, attenzione ed accoglienza verso l’altro. Si può quindi dire che la cultura riesce a plasmare l’uomo con tutto il suo bagaglio di esperienze rendendolo anima sensibile e superiore rispetto a tutto le forme di vita del Creato.
Quindi sarebbe importante esplorare il concetto di cultura come approfondimento della vita degli esseri umani nello scambio antropologico di esperienze, nei modi di pensare, comportarsi ed esprimersi nella società e nei singoli rapporti interpersonali. Il processo culturale nasce con gli esseri umani ed è un concetto costantemente mutevole. I latini, come già visto, fanno derivare il termine dalla parola “coltivare” in una sorta di rapporto imprescindibile e sinergico tra uomo e natura, dove l’uomo è visto come terreno fertile su cui far crescere qualunque tipo di esperienza e conoscenza che possa far sviluppare anima, mente e corpo, mediante una serie di processi di apprendimento tra loro interconnessi. L’anima va nutrita e coltivata come il terreno affinché l’essere umano impari a convivere in società organizzate; quindi il concetto richiama anche l’attenzione affinché tutto si presenti curato, ordinato, ben lavorato e gestito, escludendo quindi situazioni di caos, disordine e mancanza di cura. Proprio per gli svariati ambiti in cui può esprimersi il valore della cultura riconosciamo nella terminologia comune la cultura letteraria, quella scientifica, religiosa, artistica, musicale, gastronomica, e via dicendo.
Nei tempi più recenti il termine cultura è stato associato al processo di formazione della personalità umana e della sua capacità di sviluppo, quindi ben al di là dal semplice procedimento di acquisizione e accumulo di dati, informazioni e notizie. Quest’ultimo forse lo si può riferire più appropriatamente ad una macchina capace di incamerare infiniti files in memorie sterili e meccaniche senza possibilità di elaborazione, critica, etica, morale, compassione e umanità (la c.c. intelligenza artificiale). Ecco perché è estremamente fuorviante pensare che più si è eruditi e più si è colti; la cultura non è solo conoscenza di nozioni e teorie, ma è in più, e maggiormente, conoscenza di vita, capacità di osservazione critica ed esperienziale. Dire che oggi il livello di scolarizzazione rende più colti i giovani contemporanei rispetto a quelli del passato è un’affermazione sviante se non errata. Piuttosto l’umanità si è retta ed evoluta attraverso processi sperimentali dettati da curiosità antropologica e scientifica indotti dalla necessità di miglioramento delle proprie condizioni di vita in un processo in cui le scelte sono state fatte in modo ponderato, cercando di non sbagliare, ma dove anche l’errore e le capacità di saperlo accettare e correggere rappresentano un valore aggiunto ed un ottimo indicatore del livello culturale acquisito.  
Un altro significato di cultura è quello che si riferisce non solo alla cultura umana in generale, ma alle differenti culture presenti nelle diverse zone geografiche – che per l’appunto si sono sviluppate anche in ragione del territorio sul quale le popolazioni si trovavano a dover convivere (appunto il terreno) - che possono ricondursi alle regole che sorreggono una società e ne presiedono il comportamento concreto, nonché alla previsione di sanzioni in caso di comportamento divergente. In tal modo la cultura diviene un elemento che plasma la personalità degli individui, entra nel loro modo di vivere e di rapportarsi così che, a seconda delle culture in cui l’uomo è cresciuto, si sviluppa una differente personalità specifica dell’ambiente, definita “personalità fondamentale” rispetto alla quale i singoli rappresentano delle variazioni, dei sottoinsiemi. In tale accezione va ricercata la difficoltà con cui persone di etnia differente non riescono a ben comprendersi sulle modalità di vita e di reazione a determinate situazioni.
Sembrerà paradossale ma il problema dei conflitti culturali a mio avviso è da ricondurre a problematiche di scarsa cultura; infatti l’aspetto più importante che aiuta a comprendere lo spessore culturale di una persona e di una collettività è quello dell’accoglienza dell’altro perché tale caratteristica implica la capacità di comprensione e di dialogo che parte prima di tutto dal rispetto, ma al tempo stesso richiede reciprocità in un atteggiamento di libera espressione di pensiero. In una situazione di globalizzazione gli scontri tra culture sono inevitabili, ma il problema fondamentale è spesso rappresentato dalla non valorizzazione di un proficuo e pacifico scambio di relazioni di crescita e di miglioramento sinergico finalizzato al rispetto dell’altro. È indubbio poi che la popolazione che accoglie persone di culture diverse deve fare di tutto per integrarle offrendo lavoro e dignità, aspetti che aiutano a comprendere e a sviluppare un processo di considerazione del substrato culturale presente nel paese ospitante. La persona ospite abbandonata a sé stessa, non aiutata a comprende i valori fondanti di una società ospitante che vive in modo differente a ragione della diversa evoluzione territoriale, rimarrà isolata e maturerà un senso di ostilità verso una collettività non compresa e non inclusiva.
In tal senso sarebbe auspicabile che la persona che emigra in un territorio culturalmente distante dalle proprie abitudini di vita e di pensiero trovi strutture che l’aiutino a conoscere e a capire: andrebbero organizzati corsi di formazione di lingua, religione, educazione civica e didattica che supportino l’individuo a comprendere le differenze, senza pretendere la passiva ed immediata accettazione per obbligo o necessità. Se l’uomo si rende cosciente delle proprie scelte è ben disposto a cambiamenti ed integrazione; se non integrato consapevolmente diventa violento, con un atteggiamento di ostilità verso una collettività distante e sconosciuta. Per contro il dannoso rovescio della medaglia si trova nella società ospitante che si trova disorientata di fronte a persone che, non integrate, cercano di sovvertire il consolidato schema culturale che si è formato nel tempo, in una sorta di rivoluzione di pensiero che, come tutte le rivoluzioni, lascia sempre sul campo delle vittime: l’ospite viene percepito come un alieno che attenta ad un equilibrio culturale consolidatosi nel processo evolutivo! E in tale situazione le vittime sono i più giovani che non hanno avuto il tempo di irrobustire il proprio sentire e non hanno avuto modo di poter scegliere in maniera consapevole e si sa, dove c’è violenza la prima reazione è usare il metodo “occhio per occhio, dente per dente” innescando una spirale senza fine di rabbia e di odio interculturale.
La realtà è che oggi si assiste ad un delirio di onnipotenza, dove le uniche variabili in gioco sono il denaro ed il potere, dove la cultura - che aiuta a comprendere e ad affrontare meglio le differenze, il dolore, la sofferenza, le sconfitte - non ha più valore, o ne ha sempre molto meno, in un lento e continuo processo di marginalizzazione che conduce a società povere e fragili sotto diversi profili, non solo economici. Laddove invece si ritrovano Paesi dove la cultura e le proprie radici rappresentano un elemento fondante di costruzione della società civile si assiste a comunità ricche di valori e con livelli di qualità della vita, quindi non solo economici, elevati.
Pertanto bisogna porre l’attenzione ad un’accezione di cultura che non guardi solo alla formazione della personalità umana, ma generi ricchezza e prosperità in tutta la comunità. Ad esempio la nostra nazione che ha una posizione primaria nel mondo in termini di patrimonio culturale, può usufruire di notevoli risorse, forse inesauribili, che noi, generazioni attuali, abbiamo acquisito a costo zero. Per questo andrebbe valorizzata la cultura, soprattutto attraverso adeguate politiche di formazione e di riscoperta del suo valore intrinseco che genera benessere nella società; sarebbero opportune delle misure atte a far maturare e rinascere, soprattutto nei giovani, la voglia di essere individuai curiosi, proiettati verso il futuro, etici, rispettosi, amanti della bellezza e soprattutto consapevoli delle proprie radici. Questo potrebbe forse essere il modo per cercare di recuperare una società fin troppo svilita, superficiale e buia dove non viene attribuito alcun peso alla cultura anzi, in alcuni contesti, essa sembra rappresentare sempre più un disvalore e questo in Italia come nella maggioranza dei paesi.
I nostri media, soprattutto televisivi, non programmano nei palinsesti rappresentazioni teatrali, concerti, letture di opere letterarie, pubblicità di eventi artistici, scientifici e formativi, bensì programmi in cui si vuol far vivere la vita di altri (peraltro con rappresentazioni false e costruite) fomentando giudizi e distaccando i singoli dalle responsabilità della propria esistenza, rendendoli partecipi e cooprotagonisti di vite parallele e virtuali.
Per quanto attiene all’ambito politico l’obiettivo dovrebbe essere rappresentato da politiche di potenziamento della cultura vista come un possibile fattore di investimento, prima di tutto nei giovani, ricchi di tanta forza di innovazione, fantasia e cambiamento. Occorre sostenere finanziariamente il settore culturale affinché diventi un elemento fondante della società e del processo di produzione del valore economico: la cultura stessa deve essere ripensata come vero e proprio valore, come elemento a cui tutta la popolazione, ed ognuno singolarmente, deve aspirare, perché dove c’è cultura si vive meglio nel rispetto reciproco e nella certezza del diritto. Riconosciuta come valore allora sarà più facile identificarla come guida e fattore orientante delle scelte dei singoli e della collettività e garantirà la vera libertà dell’uomo nel rispetto delle differenze.
 
 

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06 Dicembre 2023

IL VALORE DELLA CULTURA: UNO DEI MOTORI DELL’ECONOMIA ITALIANA di Alessandra Di Giovambattista

IL VALORE DELLA CULTURA: UNO DEI MOTORI DELL’ECONOMIA ITALIANA
di Alessandra Di Giovambattista
09-12-2023
La cultura, concetto pieno di significato e riconducibile alle conoscenze, esperienze, storia, vissuto di una collettività, propulsore dello sviluppo umano, è fisicamente rappresentata e quindi resa fruibile e concreta, anche in ambito economico, dai beni culturali singoli (ogni opera d’arte) o collettivi (musei, biblioteche, pinacoteche, siti archeologici, e via dicendo) che hanno un altissimo valore, non solamente monetario. Tuttavia spesso riesce impossibile fare una stima delle opere d’arte; comunemente si usa la locuzione “non ha valore” per sottolineare l’unicità di ognuna di esse nel patrimonio dell’umanità. Ecco quindi di frequente la difficoltà di attribuire un valore ai beni che formano il patrimonio collettivo di una comunità.
Ma come viviamo oggi le nostre radici culturali? Secondo un’indagine dell’Istituto Superiore di statistica (ISTAT) gli italiani per una quota del 45,3% sono fruitori di spettacoli cinematografici, ma non tutti si recano al cinema; infatti aumenta il numero dei soggetti che vedono film via web o in TV e questa è una tendenza che si osserva da diverso tempo. Successivamente si registra una discreta propensione per la lettura, per una percentuale poco più del 41,4%, che implica però che più della metà dei soggetti, nel tempo libero, non legge neanche un libro l’anno. Seguono poi le visite presso i musei e le mostre e successivamente le visite a siti archeologici e monumenti. Il confronto con i popoli dell’Europa ci pone in netta minoranza circa le presenze a teatro, concerti e balletti classici: a fronte della nostra percentuale del 25,3% abbiamo una quota europea media del 42%, con valori pari al 32,7% in Spagna ed al 54,8% in Francia. Medesime differenze si registrano per le visite ai musei, siti archeologici e monumenti.
Ma per comprende meglio il valore della cultura possiamo essere aiutati dai contenuti di un’altra indagine individuata nel rapporto “Io sono cultura 2023”, relativo ai dati di settore registrati nel 2022, promosso dalla fondazione Symbola e da Unioncamere, in collaborazione con l’Istituto per il Credito sportivo ed il Ministero della Cultura, con il Centro studi Tagliacarne a Roma (fondazione della stessa Unioncamere) e la Fondazione Fitzcarraldo di Torino. Da tale indagine è emerso che cultura e bellezza sono aspetti ormai radicati nella società e nell’economia italiana; la forte relazione con la manifattura ha permesso di creare un robusto sodalizio produttivo: il made in Italy. Il settore culturale ha sofferto più degli altri negli anni della pandemia, ma sembra che stia rinascendo più solido anche perché ha sviluppato nuove forme di fruizione dei servizi; quindi si assiste ad una forte ripresa economica e sociale del comparto che sta creando ricchezza e posti di lavoro, confermando così il suo ruolo economico centrale.
Nell’ambito produttivo la cultura si coniuga bene con l’innovazione e la creatività che immesse nei processi produttivi manifatturieri rappresentano dei fattori che hanno contribuito al successo di molti prodotti italiani, anche ecosostenibili. In più la cultura potenzia il settore turistico e quello enogastronomico. Il rapporto viene redatto ogni anno e quantifica il peso della cultura e della creatività nell’economia nazionale. Il sistema produttivo culturale e creativo si compone di tutti gli operatori economici che producono beni e servizi di natura culturale ma anche tutto l’indotto che utilizza la cultura come fattore produttivo per accrescere il valore dei prodotti e quindi la competitività sul mercato. Nel settore riconosciamo le attività di conservazione e valorizzazione del patrimonio storico-artistico (biblioteche, emeroteche, archivi, musei) di arti visive e prestazioni artistiche (teatri, concerti, balletti) e tutto ciò che vi ruota intorno dai video giochi alla stampa, ai media radio televisivi, alla critica, all’architettura al design, alla moda.
Nel 2022 la filiera ha prodotto complessivamente un valore aggiunto pari a 95,5 miliardi di euro, in aumento del 6,8% rispetto all’anno 2021 e del 4,4% rispetto al 2019, recuperando anche i posti di lavoro che si erano persi durante il periodo della pandemia e facendo registrare un aumento del 3% rispetto ad una media nazionale dell’1,7%.
Molto interessante notare che contribuisce, in modo sostanzioso, all’incremento del valore aggiunto del settore della cultura e del suo indotto, anche il comparto dei videogiochi e dei software che rappresenta il mercato digitale delle prestazioni artistiche c.d. performing arts e delle arti visive con il quale si è creato un sodalizio con le attività di valorizzazione del patrimonio storico e artistico. A mero titolo di esempio si pensi alla realtà aumentata (AR) che permette di riprodurre attraverso appositi strumenti definiti di “realtà virtuale” - VR (virtual reality) situazioni, spettacoli ed eventi che avvenivano nell’antichità; un esempio è fornito a Roma dall’esperienza di realtà aumentata presso il Circo Massimo dove attraverso sofisticati software è possibile rivisitare il sito in tutte le sue fasi storiche e sentirsi immersi nelle varie realtà del passato.
In termini territoriali la ricerca ha evidenziato che le regioni maggiormente specializzate in beni e servizi culturali e creativi sono la Lombardia ed il Lazio; la prima genera, nel comparto, un valore aggiunto che da solo rappresenta il 27,6% dell’intera filiera, mentre la seconda, quale principale centro turistico – culturale, partecipa per il 15% all’intera produzione del settore. Ambedue le regioni mostrano, rispetto al resto d’Italia una maggiore specializzazione culturale e creativa che genera valore ed influisce positivamente sullo sviluppo del territorio, sia in termini di ricchezza sia in termini occupazionali. Subito dopo troviamo la regione Piemonte, il Friuli-Venezia Giulia, il Veneto e la Toscana. Tuttavia i migliori risultati in termini di aumento del valore aggiunto rispetto ai periodi precedenti (tra il 2019 ed il 2022) si riscontrano in Liguria, in Basilicata, in Lombardia ed in Campania. Per quanto attiene invece l’aumento di occupazione le migliori performances (per lo stesso triennio di osservazione) sono date dalla Liguria, dalla Campania e dalla Puglia; mentre le regioni Trentino-Alto Adige, Umbria e Sicilia, registrano un calo occupazionale.
È utile sottolineare che fanno parte del settore non solo le imprese private, ma anche le organizzazioni non-profit, cioè aziende che operano sul mercato senza avere come obiettivo un surplus economico (reddito positivo, cioè utile), ed i soggetti pubblici; anzi occorre evidenziare come a fronte delle molte innovazioni in atto rimanga necessario il contributo delle politiche pubbliche nazionali ed europee per cercare di superare le difficoltà finanziarie dovute ai recenti shock sanitari, inflazionistici e ai purtroppo ancora attuali conflitti in Europa e nel Medio oriente.
Dall’unione europea arrivano fondi per finanziare il programma nato per progettare futuri modi di vivere unendo arte, cultura, design, architettura, inclusione sociale, scienza e tecnologia, il c.d. New European Bauhaus (NEB). Con tale piano la comunità europea intende affrontare il problema della sostenibilità supportandolo con i concetti di estetica ed accessibilità, in una sorta di programma multidisciplinare orientato alla transizione ecologica indicata dal piano c.d. Next Generation EU; in due anni l’iniziativa ha creato una comunità attiva di soggetti in tutti gli Stati membri ed ha investito circa 106 milioni di euro per il 2023 ed il 2024. Se l’Italia riuscisse a produrre valore e lavoro nel settore culturale si favorirebbe un’economica più vicina alle necessità umane, più competitiva e più orientata al futuro, così come sostenuto anche nel manifesto di Assisi, e le ricadute si avrebbero in un aumento della domanda di “Italia” da parte dei consumatori provenienti dai diversi Paesi del mondo. In questo senso, un indicatore di gradimento e di attrattività per i visitatori del nostro Paese è la spesa sostenuta per consumi culturali che ha sfiorato i 35 miliardi di euro nel 2022, pari al 44,9% delle spesa turistica complessiva.
Il settore culturale si presenta quindi come un ambito strategico nei processi di trasformazione sostenibile dei modelli di sviluppo per i quali l’Italia si è impegnata a livello internazionale sottoscrivendo l’agenda ONU per il 2030 e a livello europeo con l’adesione al “Green deal” e al citato programma Next Generation EU. Gli impegni sottoscritti in Europa vengono calati nei singoli piani nazionali di ripresa e resilienza (c.d. PNRR) presentati dai differenti Paesi; si vede come la leva culturale stia progressivamente aumentando il peso nelle scelte economiche e in particolare nel comparto turistico nel rispetto della sostenibilità sul territorio e del territorio, della innovazione, del benessere individuale e collettivo e della integrazione e inclusione sociale. Il nostro Governo ha destinato al comparto risorse per circa 6,68 miliardi di euro identificando la missione “digitalizzazione, innovazione, competitività, cultura e turismo”; si comprende come le politiche pubbliche intendano incentivare un settore trainante per tutta l’economia nazionale, dove il marchio made in Italy gioca un ruolo fondamentale per la ripresa ed il rafforzamento del tessuto economico. In tal senso si pensi che il solo turismo rappresenta il 12% circa del PIL nazionale.
Gli obiettivi inclusi nel PNRR sono riconducibili alla sostenibilità ambientale ed alla tutela del patrimonio paesaggistico e culturale e le politiche di sviluppo coinvolgono anche le politiche occupazionali in quanto i settori del turismo e della cultura sono tra quelli che registrano una grande forza lavoro in ambito giovanile e femminile e quindi anche in tal senso riescono a cogliere gli obiettivi generazionali e di genere contenuti nel PNRR. Gli investimenti nel settore della cultura individuati nel piano di ripresa e resilienza riguarderanno tutti i siti culturali delle grandi aree metropolitane cercando anche di rigenerare aree abbandonate e periferiche, inoltre non trascureranno i piccoli borghi e le aree rurali, per creare una domanda di esperienze nuove e più legate alla terra ed alla tradizione popolare, così come terranno in debito conto il patrimonio turistico culturale delle isole minori che rimangono sempre troppo al margine delle politiche di sviluppo economico. Anche le misure contenute nella politica di coesione europea per il periodo 2021-2027 si mostrano particolarmente sensibili ai temi della cultura indicando come obiettivo specifico quello del rafforzamento del turismo sostenibile e a sfondo culturale al fine di raggiungere un più elevato livello di sviluppo economico, di inclusione e di innovazione sociale.
Il messaggio che occorre far passare è che siamo una popolazione fortunata, perché godiamo di infinita bellezza: artistica, territoriale, umana, ma non possiamo vivere di ricordi e di rendita, occorre ripensare modelli economico-culturali nuovi e ripensarci come fruitori, consumatori di cultura. Su tutto però sarà sempre indispensabile, anche con l’aiuto delle istituzioni scolastiche, continuare a nutrire l’amore e la passione per tutti gli ambiti culturali che hanno sempre caratterizzato le anime dei nostri grandi antenati italici.

 

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09 Dicembre 2023

PLASTIC TAX: UNA IMPOSTA MAI ENTRATA IN VIGORE. di Alessandra Di Giovambattista

PLASTIC TAX: UNA IMPOSTA MAI ENTRATA IN VIGORE.
di Alessandra Di Giovambattista

 

29-11-2023
 
Nella sua formulazione originaria l’imposta sul consumo dei manufatti in plastica con impiego singolo, cioè monouso (MACSI), c.d. plastic tax, è stata introdotta dalla legge di stabilità (legge di bilancio) per il 2020 nei commi da 634 a 658. La relazione illustrativa al provvedimento individuava come assoggettati alla nuova imposizione i manufatti in plastica con funzione di contenimento, protezione, manipolazione o consegna di beni, di qualsiasi natura, anche alimentari, includendo anche fogli e pellicole, realizzati con materie plastiche di origine sintetica e non utilizzabili più volte (per l’appunto monouso). Uniche esclusioni riguardavano i manufatti compostabili e le siringhe, che per loro natura sono necessariamente monouso.
A latere di questa nuova imposizione era poi previsto un credito d’imposta a favore delle imprese presenti nel settore delle materie plastiche per l’adeguamento tecnologico delle linee di produzione di manufatti biodegradabili e compostabili, nonché per attività di formazione del personale dipendente per acquisire o consolidare le conoscenze connesse allo sviluppo del settore. Queste ultime misure avevano l’obiettivo di sostenere piani di investimento per la conversione alla produzione di prodotti di natura compostabile secondo lo standard EN13432:2002. Con questa disposizione si provvedeva ad attuare la direttiva n. 2019/904/UE che ha come obiettivo la riduzione dell’impatto sull’ambiente dei prodotti in plastica, in particolare di quelli non riutilizzabili, caratterizzati da un ciclo di vita di breve durata, e da un inefficiente processo di riciclo. Gli Stati membri erano stati pertanto chiamati ad adeguarsi con idonee misure legislative per ridurre e per monitorare il consumo dei prodotti MACSI e per adottare e riferire i progressi compiuti in tale ambito.
Prima di continuare va fatto un approfondimento sul significato di biodegradabilità: è la caratteristica tipica delle sostanze organiche, ma anche di alcuni elementi sintetici, di essere decomposti da microorganismi presenti in natura; ciò permette di mantenere l’equilibrio biologico del pianeta. Però come già accennato tale caratteristica può essere attribuibile anche ad alcuni composti artificiali e sintetici che una volta dispersi nell’ambiente riescono facilmente a decomporsi per la presenza di microorganismi, es. batteri, in grado di trasformare le sostanze sintetiche in composti meno inquinanti e assorbibili dal terreno (in genere in tempi e modi diversi a seconda del materiale).
Tornando all’imposta sui manufatti in plastica monouso la relazione illustrativa al provvedimento istitutivo sottolineava l’uso dello strumento della leva fiscale (per  l’appunto la nuova imposta) per imprimere un’inversione di tendenza nell’uso comune dei prodotti di materiale plastico. L’obiettivo del tributo era anche quello di promuovere la progressiva riduzione della produzione e quindi del consumo di prodotti monouso in plastica attuando sia una politica di maggiore pressione fiscale nei confronti delle aziende meno virtuose e al contempo prevedere degli aiuti di natura finanziaria per far fronte ai costi delle strategie innovative e di transizione ecologica.
Questa impostazione è riconducibile anche alla politica europea finalizzata alla riduzione dell’incidenza dei prodotti in plastica - in particolare di quelli non riutilizzabili né assoggettabili a processi di riciclo i quali non contribuiscono alla riduzione della quantità di rifiuti - che derivano da linee di produzione inefficienti ed in contrasto con gli obiettivi di tutela dell’ambiente. Allo stesso tempo e con la medesima finalità, della riduzione dell’inquinamento da rifiuti di imballaggi in plastica non riciclabile, il 14 dicembre 2020 l’Unione Europea con la decisione 2020/2053 ha predisposto, per il bilancio 2021-2027, una nuova categoria di risorse proprie basata su tributi da calcolarsi in ciascuno Stato membro, con aliquota pari a 0,8 centesimi di euro per chilogrammo di plastica contenuto in imballaggi non riciclabili. Gli Stati sono stati lasciati liberi di adottare le misure più consone per il raggiungimento degli obiettivi prefissati, tenendo in debito conto il c.d. principio di sussidiarietà. Quest’ultimo mira a garantire che le decisioni siano adottate, nell’ambito di una cornice di principi definita dall’unione europea, dai diversi Stati membri secondo le caratteristiche e le peculiarità tipiche di ogni nazione e territorio (regionale o locale).
Una prima analisi circa l’impatto che la plastic tax avrebbe avuto in Italia fu fornita da diverse associazioni, tra cui l’Associazione Italiana Industria Bevande Analcoliche (Assobibe), e non fu di certo positivo; si sottolineò subito che la misura avrebbe provocato solo un aumento dei prezzi (in quanto i produttori avrebbero cercato di traslare verso i consumatori il maggior carico impositivo), una riduzione dei posti di lavoro e ripercussioni di carattere negativo nel settore della plastica. In Italia il settore conta oltre 11.000 imprese con un fatturato di oltre 30 miliardi di euro; tuttavia a livello regionale la quota del 50% in termini di personale occupato è detenuta da solo tre regioni: Lombardia, Veneto ed Emilia Romagna.
E’ per questi motivi che l’attuazione della plastic tax è stata finora oggetto di continui rinvii; infatti all’origine sarebbe dovuta entrare in vigore il primo luglio 2020; poi il decreto legge n. 34 del 2020, c.d. decreto rilancio, ne ha posticipato l’entrata in vigore al primo gennaio 2021 e successivamente al primo luglio 2021. La legge di bilancio per il 2022 ne ha ulteriormente prorogato l’applicazione al primo gennaio 2024. Infine con il comunicato stampa n. 54 del 16 ottobre 2023 il Consiglio dei Ministri ne ha deciso l’ulteriore rinvio al primo luglio 2024, così come indicato nel disegno di legge di bilancio per il 2024.
A dovere di cronaca occorre ricordare che le imposte sulla plastica in Italia avevano già fatto la loro comparse con l’imposta di fabbricazione e la sovraimposta di confine sui sacchetti di plastica (istituite nel 1988 ed abrogate nel 1993).
La proposta italiana di introdurre un’imposta sui MACSI seguiva una linea di tendenza già utilizzata da altri paesi europei; in questo senso l’OCSE in un report presentato nel 2019 sottolinea la presenza di una tassa in Belgio sugli imballaggi di posate usa e getta e sui sacchetti di plastica monouso immessi sul mercato; in Francia, Irlanda, Portogallo, Spagna e nel Regno Unito si applica, con modalità e parametri diversi, una tassa sulle quantità di sacchetti di plastica monouso prodotti; in Danimarca, paese da sempre molto attento alle questioni ambientali, si prevede il pagamento di una tassa per specifici prodotti in PVC morbido, e per tutta una serie di beni che contengono ftalati (es. tubi, rivestimenti per pavimenti e pareti, guanti, grembiuli, tute protettive, indumenti impermeabili, tovaglie, cavi, fili, grondaie, cartelline in plastica, raccoglitori, ecc).
Nel dettaglio il Regno Unito ha basato la sua imposta non sui manufatti in plastica monouso, ma sugli imballaggi di plastica prodotti o importati nello Stato per un quantitativo superiore a 10 tonnellate di prodotto plastico che avesse sostenuto l’ultimo stadio di trasformazione. In Spagna, invece, dal 1 gennaio 2023 vige un’imposta sugli imballaggi monouso, prodotti, importati o introdotti da altri Stati dell’Unione europea, contenenti plastica, sui prodotti semilavorati in plastica e sui prodotti contenenti materie plastiche destinati alla confezione finale di vendita. Da più parti si è però rilevata la difficoltà di quantificazione e di determinazione della base imponibile dell’imposta nonché la complicazione dell’uscita del Regno Unito dall’Unione europea per cui tali prodotti sono soggetti al regime di importazione, con aggravio di costi, mentre i passaggi degli stessi prodotti in Spagna rappresentano movimenti intra comunitari e non soffrono di aggravi di dazi per importazione. Inoltre la definizione della base imponibile è complicata perché si basa su presupposti differenti; ad esempio nel Regno Unito non rientrano tra i prodotti assoggettati alla plastic tax gli imballaggi che contengono più del 30% di plastica riciclata, pur concorrendo alla determinazione della soglia delle 10 tonnellate, mentre vi vengono assoggettati i prodotti la cui componente plastica è prevalente in peso rispetto agli altri elementi che compongono il prodotto. In Spagna, invece, la base imponibile è costituita da tutta la parte di prodotto che non è plastica riciclata, così come peraltro si conforma la nostra plastic tax. Pertanto un altro aspetto da sottolineare e da tenere in mente è rappresentato dalla difficoltà che le diverse tipologie di imposte stanno creando nella circolazione dei beni. Se la nostra imposta dovesse entrare in vigore, occorrerà tener conto di questi aspetti al fine di normare una imposta che sia di facile applicazione sia per la determinazione della base imponibile, sia per gli adempimenti amministrativi derivanti.
Questi i casi in cui in alcuni paesi europei hanno adottato la leva fiscale per cercare di contenere la produzione di materiali inquinanti e non riciclabili; a riscontro dell’efficacia di questa politica la relazione illustrativa al provvedimento di introduzione della plastic tax, ricordava che nel 2019 un altro report della Market Research Group ha quantificato, per il biennio 2017 e 2018, un decremento della produzione europea del mercato della plastica proprio per effetto di queste politiche, nonostante la produzione mondiale fosse invece costantemente aumentata. In particolare i maggiori produttori mondiali di plastica (dati del 2018), in percentuale, sono rappresentati da: paesi dell’accordo nordamericano di libero scambio tra USA, Canada e Messico, c.d. NAFTA (North Atlantic free trade Agreement) per una quota del 18%, Europa per il 17%, Cina per il 30%, Giappone per la quota del 4% ed il resto dell’Asia per il 17%.
Da queste brevi informazioni di natura statistica si comprende bene come il problema sia globale e riguardi tutti i paesi del mondo e sia però soggetto alla sensibilità di ognuno.

 

 

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29 Novembre 2023

PLASTIC TAX AD UN BIVIO: INTRODURLA O ELIMINARLA. di Alessandra Di Giovambattista

PLASTIC TAX AD UN BIVIO: INTRODURLA O ELIMINARLA.

di Alessandra Di Giovambattista

 02-12-2023

Il legislatore che nel 2019 ha previsto l’introduzione della plastic tax lo ha fatto con la finalità di disincentivare l’uso di imballaggi in plastica monouso (MACSI) a favore di processi virtuosi di riciclo delle materie plastiche e di utilizzo di materiali compostabili. Quindi l’imposta avrebbe dovuto pesare sulle aziende che da decenni riscuotono enormi profitti promuovendo la produzione e l’utilizzo di grandi quantità di imballaggi non sempre utili e giustificabili, penalizzando l’ambiente, e senza porsi il problema della gestione e del recupero attraverso il processo di riciclo. Ma la domanda importante da porsi è: il provvedimento sarà davvero efficace dal punto di vista ambientale? La plastic tax sarà solo una imposta da pagare in più, oppure si dimostrerà davvero come un utile strumento per disincentivare i consumi dei prodotti monouso e per incentivare comportamenti virtuosi nei produttori e nei consumatori, verso l’uso di materiali compostabili e meno inquinanti?

Da più parti, ed in particolare in più sedi territoriali di associazioni rappresentanti il mondo produttivo, in contrapposizione al nuovo tributo si è paventata l’ipotesi che la plastic tax fosse un’imposta introdotta esclusivamente per trovare risorse finanziarie a copertura di maggiori spese pubbliche, essendo del tutto inutile, se non dannosa, per l’economia e l’ambiente. La maggiore accusa è stata quella di conformarsi come uno strumento punitivo in conflitto con provvedimenti costruttivi che andrebbero opportunamente introdotti. In particolare rappresenterebbe un ostacolo ai progetti ed agli studi mirati a ridurre l’uso della plastica, che avrebbero invece bisogno di regole certe e stabili e non di sottrazione di risorse. È stata pertanto auspicata una politica concreta finalizzata a costruire una cultura dell’ecologia. Si è voluto quindi sottolineare l’importanza degli incentivi da erogare a quelle aziende virtuose che forniscono prodotti e implementano strategie di vendita attente all’ambiente (come ad esempio i corner green dove i consumatori possono acquistare detersivi ed alimenti in contenitori personali, oppure ricevere piccoli sconti e buoni in caso di conferimento di contenitori in plastica) ed escludere del tutto politiche che penalizzino le aziende meno virtuose. Altra accusa riguarda il fatto che la plastic tax rappresenterebbe una sorta di doppia imposizione, in quanto le aziende già oggi pagano il contributo CONAI per la raccolta ed il riciclo di imballaggi in plastica, ed andrebbe ad impattare direttamente sui prezzi di beni a larghissimo consumo.

Dalla parte opposta, quindi a favore dell’imposta, leggiamo un’analisi condotta da Greenpeace Italia, dove si sottolinea che la mancata entrata in vigore della plastic tax, oltre a non aver garantito un afflusso di risorse finanziarie per l’erario, (la relazione tecnica finale parlava di più di un miliardo di euro annui) ha obbligato l’Italia a pagare circa 800 milioni di euro all’Europa a titolo di imposizione sull’uso di prodotti in plastica non riciclabili (la citata decisione europea 2020/2053). Inoltre tali posticipi hanno favorito un settore industriale che continua a realizzare grandi profitti. L’indagine ha evidenziato che il settore della plastica gode di ottima salute mentre i costi derivanti dal mancato riciclo degli imballaggi sono sostenuti dalla collettività intera; e in realtà si tratta non solo di esborsi finanziari ma soprattutto di costi in termini di salute e minor benessere! L’indagine evidenzia infine una situazione paradossale in cui il Governo, soggetto che dovrebbe tutelare i cittadini, ed il mondo industriale sembrano ambedue voler puntare sul riciclo dei MACSI ma in realtà si oppongono all’entrata in vigore della tassa che dovrebbe, in modo indiretto, incentivare il mercato dei prodotti riciclabili e lo sviluppo di tecnologie di riciclo e recupero della plastica. L’indagine si conclude con una netta accusa dell’inerzia dell’Italia circa l’introduzione della plastic tax che, secondo Greenpeace, potrebbe essere invece un utile mezzo per contribuire a ridurre l’inquinamento da plastica usa e getta.

Esposti i pareri contro e a favore dell’imposta sui MACSI proviamo a farci un’opinione personale. In prima battuta osserviamo che le aziende non sopravvivono in ambienti dove non c’è chiarezza normativa, soprattutto in ambito fiscale. Le strategie aziendali si basano anche, e soprattutto in un Paese come l’Italia con una forte pressione fiscale, sulle politiche di programmazione tributaria. L’incertezza normativa non permette di costruire piani di sviluppo concreti; chi di noi potrebbe decidere una strategia senza sapere su quali elementi basarsi? Un Paese che costantemente rinvia l’entrata in vigore di una imposta che si basa su validi presupposti socio/economici dà una pessima immagine di sé ed allontana i possibili investitori, sia nazionali sia esteri: per piacere o manteniamo la norma e l’applichiamo oppure togliamola definitivamente, una volta per sempre!

Un altro aspetto da considerare è l’onestà delle scelte aziendali; purtroppo in un tessuto economico dove è molto potente la componente delle aziende multinazionali, peraltro estere, le decisioni vengono prese esclusivamente con riferimento al profitto. Il problema dell’inquinamento ambientale non rientra tra gli interessi di aziende che di fatto delocalizzano le proprie attività con l’obiettivo di trovare delle escamotages per non rispettare le norme vigenti nei propri Paesi! Ci troviamo di fronte a soggetti che non agiscono secondo deontologia e correttezza ma esclusivamente per il loro profitto. Per tali soggetti ritengo che norme rigide ed anche costose possano fare la differenza soprattutto a favore del principio per cui andrebbero premiate le aziende più virtuose che ormai non sono più quelle che rispondono solo ai classici principi di economicità, ma sono quelle che rispondono anche a principi di sopravvivenza ambientale (che di fatto dovrebbe ormai rientrare nell’accezione più ampia ed attuale di economicità). In questo senso bisognerebbe quindi prevedere un sistema circolare in cui chi più inquina più paga e le risorse ricavate vanno ad incentivare le aziende più virtuose ed innovative dello stesso settore; in questo modo forse si potrebbe innescare un processo positivo autogenerante. Il punto fondamentale da considerare è che non bisogna solo considerare l’effetto deterrente dell’imposta, ma parallelamente occorre prevedere sgravi ed incentivi per il ricorso ad alternative davvero ecologiche che si basino soprattutto sulla formazione di una nuova mentalità non consumistica che non approvi il prodotto monouso (usa e getta), di qualunque tipo esso sia. La scelta di premiare i virtuosi senza sanzionare i più inquinanti potrebbe risultare una politica non a saldo zero: di fatto potrebbe privilegiare i meno rispettosi innescando una spirale negativa e pericolosa. Da ricordare, in questo senso, tutte le aziende che hanno truffato i consumatori e danneggiato l’ambiente attraverso pratiche di greenwashing!

Andrebbe poi sottolineando che un atteggiamento altalenante circa l’introduzione di una norma espone il Paese a ricatti da parte delle imprese monopoliste; sulla questione plastic tax, la Coca-Cola Italia ha giocato un ruolo fortemente decisionista; infatti di fronte alla possibilità che anche l’Italia introducesse la plastic tax (oltre alla sugar tax) il colosso americano ha paventato licenziamenti e chiusura di stabilimenti (a Marcianise e ad Oricola), blocco di investimenti, acquisti di materie prime da altri Paesi (il caso delle arance per produrre la Fanta: l’Italia ha subito la minaccia che le arance venissero acquistate da fornitori esteri). È evidente che il sistema economico italiano è molto fragile. Dovremmo esigere più serietà e competenza dai nostri politici e manager per provare a recuperare un po’ di credibilità e dignità.

Infine sarebbe opportuna un’analisi del mercato del riciclo della plastica; il consorzio che si occupa del ritiro degli imballaggi in plastica in oltre il 90% dei Comuni in Italia è il Consorzio nazionale per la Raccolta il Riciclo e il Recupero degli Imballaggi in Plastica (Corepla) e garantisce l’avvio al riciclo del materiale raccolto. Ma effettivamente, quanta plastica si ricicla in Italia? Una percentuale pari a circa il solo 55,6% (in particolare vengono rinviati al riciclo 1,3 milioni circa rispetto ad un totale di imballaggi pari a circa 2,3 milioni di tonnellate), percentuale di poco superiore all’obiettivo che l’Unione europea dovrà raggiungere nel 2030 pari al 55%; tuttavia l’avvio al riciclo non significa attività di riciclo. Questo perché nella filiera produttiva quello che entra è sempre una quantità superiore a quella che ne esce. Infatti le nuove modalità di conteggio dei rifiuti riciclati, che utilizzerà l’Unione Europea per le dovute verifiche, non partiranno più dall’ammontare conferito, ma considereranno solo i materiali effettivamente riciclati in muovi prodotti o sostanze. L’applicazione di questo metodo di calcolo comporterà in media un taglio dell’8% circa (secondo i calcoli effettuati dall’Istituto Superiore per la Protezione - ISPRA) della quantità di prodotti riciclati comunicati, portando quindi l’Italia ad una percentuale del solo 47% (cioè 55,6% - 8%), pertanto fuori dall’obiettivo da raggiungere entro il 2030. Infine da sottolineare che i nostri rifiuti plastici non sono riciclati interamente in Italia; infatti solo 54 impianti dei 90 totali che trattano i nostri rifiuti sono sul nostro territorio, il resto è distribuito in 14 paesi dell’Unione Europea, più la Turchia. I settori che riciclano più plastica sono il settore degli imballaggi (c.d. packaging), seguito da quello dell’edilizia, e a ruota il settore igiene e arredo urbano, seguono il settore dei casalinghi, del mobile e arredamento, ed infine il settore agricoltura e tessile.

C’è la necessità di compiere scelte importanti e forti, non possiamo permetterci mezze misure; l’ambiente richiede rispetto e non c’è tempo da perdere, così come spesso evoca Papa Francesco: c’è in gioco la sopravvivenza del Creato! Noi, consumatori consapevoli, da che parte stiamo?

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02 Dicembre 2023

LE REGIONI A STATUTO SPECIALE: QUESTIONI STORICHE di Alessandra Di Giovambattista

LE REGIONI A STATUTO SPECIALE: QUESTIONI STORICHE
di Alessandra Di Giovambattista

13-12-2023

 


Le Regioni a statuto speciale presenti in Italia rappresentano una innovazione della Costituzione Repubblicana del 1948 rispetto allo Statuto Albertino che non le contemplava. Dette Regioni sono le realtà locali più importanti nella struttura territoriale dello Stato che si presenta come un unicum suddiviso in Regioni a statuto ordinario.
Le Regioni a statuto speciale godono tutte del medesimo livello di autonomia rispetto allo Stato centrale e l’articolo 116 della Costituzione ne prevede cinque: il Friuli-Venezia Giulia, la Sardegna, la Sicilia, il Trentino-Alto Adige/Sud Tirolo (per quanto riguarda il Trentino-Alto Adige occorre sottolineare che negli anni settanta si è deciso di frazionare il territorio regionale in due Province autonome, quella di Trento e quella di Bolzano), e la Valle d’Aosta. Esse dispongono di forme e condizioni particolari di autonomia, ognuna secondo le norme contenute nei rispettivi Statuti speciali che vengono adottati con legge costituzionale. In particolare le competenze legislative ed amministrative, nonché l’ordinamento e l’organizzazione finanziaria sono disciplinati dallo statuto speciale e dalle sue norme di attuazione.
Per approfondire si specifica che la legge costituzionale è un particolare atto normativo che ha un rango analogo a quello della Carta Costituzionale il cui procedimento di approvazione è definito dall’articolo 138 della Costituzione stessa con una procedura che viene definita aggravata in quanto prevede passaggi più complessi rispetto a quelli previsti per l’emanazione delle leggi ordinarie. Nello specifico la Costituzione dispone che le leggi costituzionali debbono essere adottate da ciascuna Camera (Senato e Camera dei Deputati) con due deliberazioni successive che intercorrono a distanza di almeno tre mesi e sono previste maggioranze assolute dei componenti.
Mentre le Regioni a statuto ordinario con semplice legge regionale provvedono a disciplinare determinati argomenti nel contesto dell’ordinamento generale delle Regioni (articolo 123 della Costituzione), gli statuti delle Regioni ad autonomia differenziata provvedono a definire in regime autonomo ed anche in deroga alle norme costituzionali – però solo in determinati casi specifici in quanto vanno comunque salvaguardati i principi fondamentali della Costituzione Italiana - sulle quali prevalgono per effetto del principio di specialità. In sostanza l’autonomia differenziata di queste porzioni di territorio italiano è rappresentata dal fatto che vengono riconosciuti dei margini di autonomia maggiori nei confronti dello Stato, rispetto alle altre Regioni ordinarie (a queste ultime, ad esempio viene preclusa la capacità normativa in materia di autonomia finanziaria dallo Stato che invece viene autorizzata per le Regioni a statuto speciale).
Ci si domanda tuttavia quando e perché fu opportuno istituire tali realtà geo-politiche che da alcuni sono considerate oggi anacronistiche e generatrici di disuguaglianze territoriali che si traducono di fatto in maggior ricchezza in questi territori autonomi rispetto alle regioni a statuto ordinario. La necessità è di natura storica ed è riconducibile al periodo della ricostruzione dopo la conclusione della seconda guerra mondiale; inizialmente i territori a cui si decise di riconoscere delle forme di autonomia governativa furono solo quattro; non era incluso il Friuli-Venezia Giulia che fu invece aggiunto con legge costituzionale nel 1963. Ognuno di questi territori aveva delle storie peculiari in cui si ritrovano le ragioni della scelta di forme di autogoverno.
In generale, il riconoscimento dell’autonomia speciale fu dovuto alla presenza di numerosi movimenti separatisti nei territori come la Valle d’Aosta , il Trentino-Alto Adige e il Friuli-Venezia Giulia dove la presenza di minoranze linguistiche, che parlano idiomi diversi da quello italiano, avrebbero potuto compromettere la coesione nazionale. Nello specifico in Valle d’Aosta si parla il francese, in Trentino-Alto Adige il tedesco ed il ladino, mentre in Friuli-Venezia Giulia lo sloveno. Il compromesso trovato dall’assemblea Costituente fu quindi l’istituzione dell’autonomia speciale che ha permesso allo Stato italiano di mantenere inalterati i confini geo-politici, ma concedendo più indipendenza a territori caratterizzati da elementi di peculiarità rispetto al altri.
L’autonomia concessa al Trentino-Alto Adige/sud Tirolo fu riconosciuta in quanto tale territorio già godeva di una lunga tradizione di autogoverno, in più occorreva dominare ed imbrigliare le forti spinte separatiste che volevano un ricongiungimento con la vicina Austria. Si decise quindi di tutelare la minoranza Altoatesina di lingua tedesca per garantirne l’evoluzione e la convivenza socio culturale ed economica con il gruppo linguistico italiano presente nel territorio del Trentino.
Invece in Sicilia il movimento separatista aveva dei precedenti storici ben radicati e dopo lo sbarco alleato del 1943 scoppiò la scintilla indipendentista già presente prima della prima guerra mondiale. In particolare lo slogan all’epoca era: “la Sicilia ai siciliani” e nel luglio del 1943 con un proclama ufficiale la Sicilia preannunciava la secessione dall’Italia e chiedeva controllo ed aiuto a livello internazionale. In quel periodo la volontà era di fare della Sicilia uno stato indipendente; da qui la necessità per il nuovo Stato italiano repubblicano di riconoscere l’autonomia alla più grande isola del Mediterraneo, ed infatti con il riconoscimento dello statuto speciale siciliano emanato il 15 maggio del 1946 decrebbe rapidamente l’interesse al secessionismo da parte della popolazione isolana.
Anche in Sardegna il movimento secessionista era forte; in particolare l’isola riuniva popolazioni diverse per lingua e cultura che l’Italia dei primi del novecento non era riuscita a far convivere. In particolare le masse popolari si opposero ai governi di Giolitti e furono recuperate le spinte indipendentiste che restituivano valore alla storia ed alla cultura isolana (con particolare riferimento alla civiltà nuragica e a quella giudicale). Lo stesso Antonio Gramsci che era vissuto diversi anni a Cagliari era convinto che bisognasse lottare per l’indipendenza nazionale della Sardegna. Questo movimento fu sostenuto fino al 1913, ma con lo scoppio delle due grandi guerre il problema della secessione passò in secondo piano; tuttavia con la conclusione della seconda guerra mondiale venne approvato lo Statuto speciale di autonomia della Sardegna, il 31 gennaio 1948 e promulgato il 26 febbraio del 1948, che ne assicurò un certo grado di indipendenza e di autogoverno.
In val d’Aosta, con lo scoppio dell’ultimo conflitto mondiale, si crearono forti movimenti anti nazifascisti e nella regione si organizzarono gruppi di partigiani che diedero vita alla resistenza valdostana. Ciò che caratterizzò la lotta di liberazione era il fatto che tali gruppi si basassero essenzialmente sulle forze autoctone cercando di evitare di chiedere aiuti a forze partigiane italiane e ciò perché l’obiettivo politico non si limitava all’eliminazione del nazifascismo, ma si estendeva al recupero delle forme di autonomia che avevano caratterizzato la storia della regione. In tale contesto si sviluppò la prospettiva del secessionismo e dell’annessione alla vicina Francia, cosa che l’Italia scongiurò prevedendo l’autonomia speciale della regione Valle d’Aosta.
Anche la storia separatista del Friuli-Venezia Giulia ha origini antiche; dopo la disfatta di Caporetto del 1917 i rappresentanti friulani presso il Parlamento di Vienna iniziarono una campagna politica per l’autonomia del Friuli orientale (con capoluogo Gorizia) appoggiata anche dal Partito cattolico popolare del Friuli. Nel 1918 tali territori ottennero la piena libertà di autodeterminazione grazie ad un proclama di Carlo I (ultimo imperatore d’Austria). Successivamente, durante il periodo fascista, il Friuli subì un processo di assimilazione culturale a scapito delle popolazioni di lingua slovena e tedesca; si innescarono anche movimenti che premevano sulla comunità friulana affinché si contrapponesse alla comunità slava. Dopo la seconda guerra mondiale, e precisamente nel 1945, nacque ad Udine l’Associazione per l’autonomia friulana che aveva come obiettivo quello di sostenere che il Friuli possedeva cultura e tradizioni nettamente distinte dalle limitrofe regioni del Veneto e della Giuliana e pertanto era naturale che avesse la più ampia autonomia politico-amministrativa ed economica nell’ambito dello Stato italiano. Nel 1947 si sviluppò anche il radicale Movimento popolare Friulano con l’intento di ottenere la più ampia autonomia dal potere politico-amministrativo italiano. Ma solo negli anni 60 si iniziò a discutere sulla creazione della Regione autonoma del Friuli-Venezia Giulia, una realtà territoriale di confine con un territorio comunista (ex Jugoslavia) che limitava lo sviluppo economico della Regione a causa della guerra fredda, e con un elevato tasso di emigrazione. In questa situazione nacquero e si consolidarono delle tendenze separatiste e anti-italiane che spinsero il governo al riconoscimento dell’autonomia speciale di questa regione.

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13 Dicembre 2023

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