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Le comunità energetiche: un fenomeno recente? di Alessandra Di Giovambattista

Le comunità energetiche: un fenomeno recente?

di Alessandra Di Giovambattista

 16-06-2023 

Un argomento di attualità, ancora però sconosciuto ai più, riguarda le comunità energetiche rinnovabili (CER). In particolare con il termine CER si indica un gruppo di soggetti che si organizzano per produrre e condividere localmente l'energia prodotta da fonti rinnovabili. Quindi rappresenta una vera e propria comunità costituita da enti privati, singoli cittadini, associazioni ed enti pubblici che decidono di associarsi per produrre sul loro territorio energia derivante da fonti rinnovabili (per esempio fotovoltaico ed eolico), per poi condividerla tra loro.

A Roma, la prima CER, chiamata “Le vele” è stata individuata grazie alla collaborazione tra l’Istituto Leonarda Vaccari – grazie alla sensibilità e disponibilità della nipote della fondatrice, oggi presidente dell’istituto - che si occupa di riabilitazione psico-fisica e integrazione didattica e sociale delle persone diversamente abili, la Federconsumatori Lazio ed il Municipio Roma I centro; essa si concretizza in un impianto da 90KW che produrrà circa 120 mila KWH.

Nel progetto si evidenzia che lo scopo, oltre al beneficio ambientale, è quello di finanziare, con i risparmi ottenuti dalla produzione di energia rinnovabile e con i proventi derivanti dagli incentivi, interventi sociali a favore delle persone presenti nella comunità del Municipio e che si trovano in difficoltà e specifici progetti rivolti ai pazienti dell’istituto per rafforzare la politica di assistenza e recupero. Si noti che l’Istituto Leonarda Vaccari è stato premiato per ben quattro volte con la Medaglia d’Oro al merito della Sanità pubblica.

Se questa può sembrare un’innovazione in realtà, facendo un salto indietro nella storia, vediamo che le origini di questo nuovo mondo sono da ricercare nelle "vecchie" cooperative energetiche. Un tempo, alla fine dell'Ottocento, l'elettricità veniva prodotta da piccole centrali costruite nei pressi delle fabbriche e quella in eccesso era data al vicinato. All'epoca nessuno le chiamava comunità energetiche, perché non esistevano ancora le reti centralizzate di distribuzione. Era semplicemente la forma più diffusa di distribuzione dell’energia. Così nacquero le prime cooperative; regolate da una legge del Regno d’Italia era permesso ai soci di produrre e distribuire energia. Così queste cooperative gestivano centrali idroelettriche ed i soci, privati, industrie, enti pubblici locali, beneficiavano dell’energia prodotta. Alcune di queste realtà sopravvivono ancora oggi nel nord Italia - fra le altre a Brunico, Dobbiaco, Prato allo Stelvio, Funes, dove nessuno ha sottoscritto contratti con distributori nazionali in quanto l’energia prodotta in loco è a prezzi molto bassi, essendosi anche aggiunte, oltre all’idroelettrico, forme di produzione di energia rinnovabile quali il fotovoltaico e l’eolico – mentre nel nord Europa, ed in particolare in Germania, Belgio e Danimarca, tali organizzazioni sono sopravvissute e si sono diffuse. Sono proprio queste realtà, ed il modello che incarnano, che hanno ispirato l'idea delle comunità energetiche vere e proprie a partire dal 2010.

Ricordiamo inoltre che negli anni novanta in Italia sono nate le grandi concessionarie di distribuzione separate dalla produzione; tuttavia alle cooperative storiche è stato permesso di continuare ad operare, forse perché in nord Europa sono tanto diffuse e di grandi dimensioni. Tuttavia è ancora vietato fondarne di nuove. Il fenomeno dell’accentramento in grandi reti nazionali, secondo Brian Janous, general manager di Microsoft, era un processo inevitabile, in quanto l’unico a garantire una distribuzione a bassi costi finalizzata all’uso da parte di tutti e un servizio il più omogeneo possibile. Tali obiettivi previsti per l’energia elettrica, ora si vogliono raggiungere anche nel traffico dei dati, attività che sta curando Microsoft; tuttavia poiché la distribuzione elettrica sta incrementando l’energia solare ed eolica, si sta puntando l’attenzione sul ruolo determinante delle batterie per immagazzinarla e dell’intelligenza artificiale per gestirne al meglio consumi, picchi e potenza di calcolo.

Le comunità energetiche di cui parliamo oggi arrivano venti anni dopo, anche grazie all’avvento dei pannelli solari, con l’idea nata dal basso nelle associazioni ambientaliste e dalla federazione europea delle cooperative Rescooop. 

Ma è solo nel 2018 che viene impressa una spinta sostanziale, con la direttiva europea che sancisce il diritto all'autoconsumo energetico approvata per bloccare iniziative dei singoli stati contro il fotovoltaico. Nel 2015, infatti, il governo spagnolo di Mariano Rajoy, del Partito Popolare, aveva pubblicato il Regio Decreto 900/2015, con il quale si applicavano una serie di complicazioni amministrative, tasse e sovrattasse alle installazioni di rinnovabili per proprio consumo (venne battezzata la "tassa sul sole"). Di qui l'articolo 21 della direttiva europea (UE) 2018/2001 che dà potere ai consumatori consentendo loro un autoconsumo "senza restrizioni indebite e di essere remunerati per l'elettricità che immettono nella rete". Le fonti rinnovabili, come il fotovoltaico e l’eolico, che per loro natura si prestano poco alla centralizzazione e molto di più alla produzione e all’uso locale, hanno fatto tornare a guardare con favore alla produzione e condivisione dell’energia nel modo delle vecchie cooperative energetiche.

La citata Direttiva UE 2018/2001 dispone che gli Stati membri provvedono collettivamente a far sì che nel 2030, la quota di energia da fonti rinnovabili nel consumo finale lordo di energia dell’Unione sia almeno pari al 32% e la quota di energia da fonti rinnovabili nei trasporti sia almeno pari al 14% del consumo finale in tale settore. Ogni stato membro deve fissare i contributi nazionali per conseguire collettivamente l’obiettivo vincolante del 2030 ognuno nell’ambito dei propri piani nazionali integrati per l’energia ed il clima-PNIEC. Gli obiettivi del piano che nello specifico dovrà conseguire l’Italia entro il 2030 riguardano: il raggiungimento di una percentuale di energia da fonti rinnovabili nei consumi finali lordi pari al 30%; una quota di energia da fonti rinnovabili nei trasporti pari al 22% dei consumi finali lordi (bisogna tener presente l’obiettivo complessivo UE si attesta sul 14%) che dovrà essere garantita dai fornitori di carburante. La direttiva regola anche i principi ed i criteri per disciplinare: il sostegno finanziario all’energia elettrica da fonti rinnovabili, l’autoconsumo dell’energia elettrica prodotta dalle rinnovabili, l’uso di tale energia nel settore del riscaldamento e raffrescamento e nel settore dei trasporti, la cooperazione tra gli stati membri e paesi terzi su progetti per la produzione di energia elettrica da fonti rinnovabili, la garanzia di origine dell’energia, le procedure amministrative per agevolare le fonti rinnovabili, l’informazione e la formazione su di esse. La direttiva in argomento fissa anche i criteri di sostenibilità e di riduzione delle emissioni di gas ad effetto serra per i biocarburanti, i bioliquidi ed i combustibili da biomassa.

Gli stati membri sono stati obbligati a recepire nel diritto nazionale la direttiva entro il 30 giugno 2021 ed è entrata in vigore il 1 luglio dello stesso anno.

Chiariti questi primi aspetti cerchiamo di muovere i primi passi nel mondo delle comunità energetiche rinnovabili, approfondendo alcuni aspetti. Intanto le CER sono un modello di produzione e consumo nate per la gestione dell’energia da fonti rinnovabili. La normativa esistente ha cercato di favorire due modelli di costituzione di tali comunità: le CER vere e proprie, ed i gruppi di autoconsumo collettivo (AC). In ambedue le tipologie troviamo la partecipazione di soggetti diversi ed il decentramento della produzione con la finalità di generare e consumare autonomamente, nello stesso sito, energia elettrica derivante da fonti rinnovabili. Nella gran parte dei casi questo è possibile attraverso l’utilizzo di impianti fotovoltaici che possono essere installati da uno o più partecipanti alla Comunità Energetica, con una serie di benefici economici, sociali e ambientali che ricadono su tutti gli aderenti e sulla collettività. Nello specifico le CER possono essere di diverse tipologie in ragione della fonte di energia utilizzata. Nella gran parte dei casi, si basano sul fotovoltaico e sull’unione di più prosumer, cioè produttori-auto consumatori di energia, e di consumer che all’interno delle CER trovano il modo più efficace di impiegare l’energia elettrica. La costituzione delle CER è strettamente collegata alla figura del prosumer: sarà centrale l’auto produzione di energia e l’autoconsumo per soddisfare prima di tutto il proprio fabbisogno energetico. Sono pertanto delle reti virtuali tra più unità produttive e di consumo siano quest’ultime persone fisiche private, aziende, edifici pubblici o di culto, condomini; in tal modo si individua un’isola di produzione/consumo in un ambito territoriale ben definito.

Le due configurazioni presentano le seguenti caratteristiche: le CER sono rappresentate solitamente da un condominio, ma anche da parrocchie o scuole, trattate come un unico soggetto che condivide l’energia prodotta dal proprio impianto fotovoltaico anche con le singole abitazioni che lo compongono, mentre le AC sono definite come una più ampia associazione di soggetti, produttori e consumatori geograficamente vicini in modo da poter unire più impianti di energie rinnovabili (essenzialmente fotovoltaico). La direttiva UE specifica le caratteristiche principali delle “comunità di energia rinnovabile”: devono essere un soggetto giuridico che si basa sulla partecipazione aperta e volontaria che è autonomo e soggiace a una vicinanza dei membri agli impianti di produzione. In tale modo è abbastanza evidente l’accostamento tra queste tipologie di soggetti e la realtà giuridica delle nostre cooperative. I partecipanti sono persone fisiche, piccole e medie imprese, o autorità locali comprese le amministrazioni comunali che hanno come obiettivo quello di fornire benefici ambientali, economici o sociali a livello di comunità, direttamente ai partecipanti, o alle aree locali in cui operano. In questa visione, il principio di autoconsumo viene espanso ad un concetto più ampio: quello di energia condivisa. Non è più necessario, infatti, consumare l'energia nello stesso punto in cui questa è stata prodotta, ma può essere condivisa virtualmente con chi è in prossimità della produzione. Così si ottimizza l’auto consumo di ogni prosumer il quale potrà rivendere l’energia in eccesso a beneficio degli altri partecipanti alla comunità e presenti sul territorio (energia condivisa).

 

 

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16 Giugno 2023

Il processo di lobbying: storia e significato di Alessandra Di Giovambattista

Il processo di lobbying: storia e significato
di Alessandra Di Giovambattista

29-08-2023

L’attività di lobbying, ossia il tentativo da parte di gruppi o singoli individui di influenzare l’attività e le decisioni del Governo di una Paese, sembra abbia origine nel XVIII secolo negli attuali Stati Uniti d’America. Il termine inglese lobby traduce specificatamente la “loggia”, ossia il luogo considerato come tribuna parlamentare riservata al pubblico. I soggetti portatori di interessi propri o di gruppo, svolgono attività di influenza e pressione sul sistema politico; tale modalità di azione viene definita lobbying, in italiano lobbismo. Lobby è una parola che deriva dal tardo latino, medioevale: “laubia” con significato di loggia, portico. Secondo alcuni autori la parola lobby venne usata per la prima volta da Thomas Becon, nel seconda metà del 1500, poi sembra ripresa da William Shakespeare nell’opera Enrico IV, volendo indicare il “passaggio”, il “corridoio”. Altri fanno derivare la parola inglese lobby dall’antica lingua tedesca “lauba” (chiaramente derivata dal tardo latino, come su detto) con il significato di deposito di documenti. Tuttavia fu nel XIX secolo (intorno al 1830) che il termine lobby andò ad indicare, nella “Camera dei Comuni”, la grande anticamera in cui i membri del parlamento inglese usavano esprimere il proprio voto durante una sessione di “division”, ossia di votazione. Successivamente il termine fu usato per individuare la zona del Parlamento in cui i rappresentanti dei gruppi di pressione cercavano di contattare i membri del Parlamento per perorare i propri interessi; con il termine lobby furono quindi indicate le anticamere di fronte alle aule in cui le decisioni parlamentari venivano prese. Si iniziò così, durante il XIX secolo, ad utilizzare il termine lobbyist e lobbying per indicare rispettivamente i soggetti portatori di interessi specifici e le loro attività.
Quindi in senso lato la parola lobby indica il gruppo di pressione che si riunisce per incontrare i parlamentari e portare avanti interessi di gruppi o personali. Così il termine è approdato anche nella nostra lingua che, con terminologia essenzialmente giornalistica, indica i gruppi di potere/interesse con lobbies, i soggetti come lobbisti, e le attività di pressione in attività di lobbying. I gruppi di pressione, spesso rappresentati anche da ditte professioniste specializzate nell’offrire servizi di lobbying, sono quindi gruppi organizzati di individui o aziende che tentano, con varie strategie di influenzare le decisioni che le istituzioni intendono prendere per favorire determinati interessi; molti sono i modi e le forme in cui tali gruppi provano a condizionare il potere legislativo. Alcune volte le modalità di azione possono non essere sempre trasparenti o legali, ad esempio si possono usare pratiche di corruzione, traffico di influenze illecite per corrompere pubblici ufficiali, divulgazione di notizie propagandistiche attraverso i media con la finalità di raggiungere determinati obiettivi.
In Italia, come anche nel resto dei paesi Europei, il lavoro del lobbista non gode di buona fama, spesso viene ricondotto a scandali, alla corruzione ed alla concussione, ed i lobbisti sono considerati solo come portatori di interessi particolari, contrari a quelli generali; in particolare, l’associazione internazionale contro la corruzione - la Trasparency International Italia – ha individuato tre cause che fanno intravedere l’attività di lobbying come un’attività riconducibile a discutibili pratiche di influenza socio-politica. Una prima causa, di natura storica, è riconducibile al peso che la rivoluzione francese ed il pensiero di Rousseau hanno avuto sulle modalità di espressione della volontà popolare: quest’ultima è considerata come il prodotto della volontà dello Stato espressa unicamente attraverso l’attività legislativa e non già come possibile mediazione tra parti rappresentanti differenti interessi. Altro aspetto, riconducibile ai criteri dettati dalla Costituzione italiana, si ritrova nel fatto che i partiti politici sono visti come gli unici attori che possono intervenire e mediare con le istituzioni. Il terzo motivo risiede nella mancanza di regolamentazione e di trasparenza delle attività di rappresentanza di interessi che le fanno percepire come pratiche non lecite e negative. Indubbiamente in Italia e nel mondo non mancano scandali che contribuiscono a conferire un’alea di negatività alle attività di lobbying; si rammentano gli scandali legati ad associazioni segrete finalizzate al controllo e all’ingerenza negli appalti e negli incarichi pubblici che hanno coinvolto politici, magistrati ed imprenditori (le cosiddette logge “P3” e “P4”, fenomeni degli anni 2010/2011), o più recentemente gli scandali che hanno creato il caso di “Mafia Capitale” nel 2015, che ha evidenziato il legame tra politica e criminalità organizzata sul territorio romano.
Tuttavia il fenomeno del lobbismo non può essere relegato e ricondotto frettolosamente alle pratiche malavitose, ci sono di fatto organizzazioni che cercano di stabilire delle regole di trasparenza e responsabilità alle attività di lobbying al fine di cooperare con la sfera politica e la società civile anche in ambiti meritori quali l’ambiente, la giustizia, l’equità e l’uguaglianza: è il caso di “The good lobby”. Quest’ultima è un’organizzazione non profit la cui missione, così come la autodefiniscono, è quella di democratizzare l’accesso alle decisioni pubbliche; cerca di realizzare l’obiettivo attraverso la sensibilizzazione dei cittadini, dei movimenti, dei gruppi e delle organizzazioni del terzo settore sull’importanza di occuparsi della politica economica, al fine di influenzare le scelte dei decisori pubblici verso le migliori opportunità. Sottolinea ancora che la loro attività è in primis rivolta alla formazione dei soggetti che seppur portatori di interessi condivisi faticano ad essere coinvolti nei processi decisionali o non hanno risorse e strutture per poterlo fare.
Quindi un gruppo di interesse si attiva con la finalità di influenzare le decisioni del potere legislativo ed esecutivo, delle Authority e degli enti pubblici e più in generale della pubblica amministrazione tutta. In Europa tale attività si verifica presso la Commissione europea a Bruxelles e in misura inferiore presso il Parlamento a Strasburgo; negli Stati Uniti d’America i gruppi di interesse agiscono sul Congresso e sui vertici dell’esecutivo, a cui capo troviamo il presidente degli USA. Qui i lobbisti hanno un elevato ed eterogeneo grado di istruzione - spaziando dalla formazione giuridica a quella più specifica in medicina, biologia, ingegneria, ecc – e retribuzioni molto alte; circa la metà dei parlamentari che non vengono riconfermati nelle elezioni successive diventano lobbisti, andando ad aumentare la schiera di soggetti rappresentanti di imprese, università, professioni, associazioni, enti, nazionali ed esteri (così creando il fenomeno delle “porte girevoli” evidenziato in Europa, come vedremo). Seguendo questo sistema di produzione di leggi – così come sostiene un aneddoto diffuso nel Congresso Americano – per conoscere a fondo un progetto di legge è utile ascoltare sia li lobbista a favore sia quello contrario al provvedimento!
Secondo Luigi Graziano, politologo e professore universitario, il lobbying si presenta come “libero mercato dei gruppi di pressione organizzati in competizione pura e perfetta per ottenere accoglimento dell’interesse rappresentato presso il decisore politico”; le lobbies viste finora come sinonimo di corruzione, incominciano invece a prendere il loro spazio e sono sempre più presenti nella vita dei sistemi democratici, per lo più dei sistemi politici di tipo liberal democratico, come quello degli USA in cui lo Stato ha una presenza minimale, mentre la società civile, molto attiva, presenta una maggiore articolazione degli interessi ed una grande capacità di aggregarli in finalità comuni e dai connotati socio-economici.
Pertanto oggi lo studio dei processi di lobbying assume un grande rilievo per capire il funzionamento delle democrazie moderne; soprattutto in questa epoca di globalizzazione in cui per le aziende il dialogo diretto con la compagine politica diviene anche un campo per ottenere vantaggi competitivi e sviluppare tattiche finora non sperimentate. In un contesto di buona regolamentazione le attività di pressione possono svolgere un attivo e positivo processo di sviluppo; in mancanza di regole invece questo stesso processo può divenire foriero di ingiustizie e di creazione di leggi contrarie all’interesse pubblico ed al bene sociale.
In Italia, fino a poco tempo fa, non si aveva una regolamentazione delle attività di pressione e quindi la visibilità del fenomeno era ricondotta alla suddette pratiche illegittime e poco trasparenti, con il conseguente rigetto delle figure dei lobbisti e del loro operato. Il primo serio esercizio di regolamentazione del lobbismo si ha con il regolamento della Camera dei deputati, dove i gruppi di interesse sono stati normati nel regolamento parlamentare che pur avendo perso di efficacia nel 2017, ha continuato ad essere rispettato in mancanza di altro. Si introducono diversi parametri per cercare di definire varie situazioni e soggetti: viene definita in primo luogo la figura del lobbista; si introduce un registro elettronico pubblico obbligatorio per chi vuole avere un incontro con i parlamentari; si prevede il divieto di iscrizione per coloro che sono stati condannati in via definitiva per reati contro la pubblica amministrazione; si obbligano gli iscritti al registro a presentare ogni anno una relazione sull’attività di rappresentanza degli interessi. Finora quindi in Italia la regolamentazione del fenomeno delle lobbies non è completa e rigorosa in quanto manca: una legislazione nazionale, un registro nazionale per i lobbisti, una regolamentazione delle sanzioni applicabili a coloro che non rispettano le norme in materia, un codice di condotta che si applichi sia ai lobbisti sia ai parlamentari e ai funzionari governativi. Il 12 gennaio del 2022, in Italia, è stato approvato dalla Camera dei deputati un disegno di legge che regolamenta l’attività di lobbying.
In Europa, tuttavia le cose sono diverse; Bruxelles è la seconda capitale del lobbying dopo Washington; nel 2021 gli organi Europei hanno adottato nuove regole, redendo obbligatoria l’iscrizione dei rappresentanti d’interesse al registro per la trasparenza, nel caso intendano svolgere attività di pressione che puntino ad influenzare gli ambiti legati al processo di decisione e di creazione legislativa e di politica. L’iscrizione al registro è subordinata al rispetto di un codice di condotta comune per tutti i lobbisti, mentre i parlamentari sono obbligati a rendere pubblica la lista degli incontri con i portatori di interesse. Ovviamente non sono tutte rose e fiori; anche in un sistema regolamentato si possono avere delle falle; nel report del 2017 dell’Unione europea, si è evidenziato il problema delle cosiddette “porte girevoli”: i politici e gli ex commissari europei finito il loro mandato entrano a far parte delle organizzazioni di lobbying esprimendo così forza ed influenza nei processi di produzione delle norme, nonostante non siano stati rieletti e sfruttando le conoscenze ed il potere guadagnatosi durante i mandati. Si stima che a Bruxelles siano presenti circa 15.000 lobbisti che difendono ogni forma di interesse; il fenomeno è in costante ascesa e ciò è dovuto al fatto che la legislazione europea è sempre più presente ed invasiva nella sostanza dei procedimenti legislativi delle istituzioni parlamentari nazionali dei diversi Stati europei.
Sicuramente la regolamentazione del fenomeno del lobbismo contribuirà alla trasparenza del sistema di formazione delle leggi e delle pressioni socio/economiche da parte dei gruppi di interesse; tuttavia è innegabile che sarà necessario vigilare perché dove c’è denaro e dove si formano relazioni personali e circolano informazioni, i responsabili politici divengono molto sensibili e vulnerabili. Per sua natura l’attività di lobbying è associata ad un alto rischio di corruzione, conflitto di interessi, traffico di influenze, connivenze e scambi di favore. Gli scandali nel modo del lobbying sono sempre presenti e secondo Trasparency International i livelli di corruzione percepiti in Italia sono molto più elevati che negli altri Paesi europei e si chiede pertanto che norme etiche e trasparenti consentano un recupero di fiducia da parte dei cittadini.
Tuttavia un ruolo importante lo gioca anche l’informazione; qui si apre un altro tasto dolente. Purtroppo il nostro sistema di gestione e somministrazione delle informazioni è esso stesso spesso corrotto e asservito al potere politico-economico: in una simile situazione come si possono raccogliere informazioni trasparenti al fine di verificare la correttezza del comportamento del politico e del responsabile amministrativo? Si vede chiaramente la criticità del sistema laddove il cittadino non può essere messo in grado di conoscere il fatto puro e semplice salvo successivamente farsi un’opinione personale sulla scelta migliore da prendere escludendo dalla mercato delle informazioni ogni sedicente opinionista, il più delle volte assoldato dai poteri forti? Come possiamo noi difenderci da un’informazione malata e nel futuro sempre più controllata da forme di governo delle notizie gestite da intelligenze artificiali a cui si farà dire ciò che i poteri forti vorranno farci credere? Sono i cittadini il vero ago della bilancia che dovrebbero giudicare la correttezza del comportamento dei politici/amministratori della cosa pubblica e quindi dovrebbero poter osservare e giudicare ed avere il diritto di sapere cosa sta realmente accadendo nel processo di elaborazione delle politiche socio-economiche.
In più un sistema equo e trasparente dovrebbe prevedere anche forme di responsabilità immediatamente denunciabili da parte dei cittadini elettori che dovrebbero poter segnalare qualsiasi illecito commesso da funzionari amministrativi e politici ai competenti organi di controllo e giustizia, senza temere ripercussioni o ritorsioni personali.
In mancanza di verità e di trasparenza sui fatti realmente accaduti ed in mancanza di un robusto sistema giudiziario e sanzionatorio, che restituisca e garantisca ad ognuno il dovuto, anche quella parte di informazione pulita ed indipendente non potrà fare molto per denunciare illeciti e corruzione; l’impatto reale di un potente gruppo di interessi potrà così rimanere nascosto ed impunito agli occhi della società, tutta, impedendo una giusta e legittima reazione ad un illecito politico ed amministrativo da parte della società civile.

 

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29 Agosto 2023

LA CRESCITA ECONOMICA SECONDO IL PARADIGMA DELL’UNIONE EUROPEA: FOCUS SULL’INTELLIGENZA ARTIFICIALE di Alessandra Di Giovambattista

LA CRESCITA ECONOMICA SECONDO IL PARADIGMA DELL’UNIONE EUROPEA:

FOCUS SULL’INTELLIGENZA ARTIFICIALE.

di Alessandra Di Giovambattista

 

19-07-2023

Recentemente, in occasione del XXX anniversario della nascita del Mercato Unico Europeo(1 gennaio del 1993), la Commissione europea ha presentato due comunicazioni; con la prima, guardando al passato, ha ripercorso i risultati conseguiti con l’istituzione del mercato unico, con la seconda si è posta l’obiettivo di rafforzare ed approfondire il mercato unico, garantendone la competitività a lungo termine. I risultati conseguiti in questi 30 anni di mercato unico europeo, che  nel suo insieme rappresenta il 15% del PIL mondiale, sono riconducibili a benefici per i cittadini e le imprese che devono però continuare a consolidarsi attraverso modifiche ed adattamenti alle nuove realtà, con un potenziale di miglioramento che potrebbe assicurare 713 mld di euro di valore aggiunto entro la fine del 2029. Con la seconda comunicazione la commissione europea si è confrontata con l’obiettivo di migliorare il flusso commerciale dei beni e servizi all’interno dell’Unione europea (UE) fondato su un modello di crescita economica che utilizzi la competitività sostenibile, la sicurezza, l’autonomia strategica e la concorrenza leale. Pertanto la commissione si è proposta di lavorare su nove tematiche: 1) il mercato unico funzionante; 2) l’ accesso al capitale privato e agli investimenti, con particolare riguardo all’approfondimento dell'Unione dei mercati dei capitali e al completamento dell'Unione bancaria; 3) gli investimenti pubblici e le infrastrutture; 4)la ricerca e l’ innovazione; 5) l’energia; 6) la circolarità; 7) la digitalizzazione; 8) l’istruzione e le competenze; 9) il commercio e l’autonomia strategica aperta. Tra i vari argomenti si vuol porre, oggi, l’attenzione sull’intelligenza artificiale: croce e delizia di questo nostro tempo che ha attraversato il mondo del reale approdando su quello virtuale ed impattando trasversalmente sulle nostre vite e sui nostri interessi. Uno studio del Parlamento europeo ha evidenziato i rischi connessi all’intelligenza artificiale; in sintesi riconducibili alla tutela dei diritti umani e delle libertà fondamentali, con particolare riferimento alla discriminazione, alla protezione dei dati ed alla vita privata. Secondo la Commissione europea, i sistemi di intelligenza artificiale presentano in via generale, le seguenti caratteristiche: a) opacità (cioè limitata capacità della mente umana di comprendere il funzionamento di determinati sistemi di intelligenza artificiale), b) la complessità, c) l’adattamento continuo e l’imprevedibilità, d) il comportamento autonomo, e) i dati (cioè dipendenza funzionale dai dati utilizzati ed immessi e dalla loro qualità).

Inoltre una nuova ondata di tecnologie riconducibili all’intelligenza artificiale per finalità generali, con capacità generative, come ChatGPT, sta trasformando rapidamente il modo in cui tali sistemi di intelligenza sono costruiti e diffusi e solleva una serie di preoccupazioni in merito alla privacy, ai diritti di proprietà intellettuale e alla diffusione della disinformazione. In particolare la tecnologia generativa, come ChatGPT, utilizza grandi modelli linguistici per dare vita ad opere d’arte, musica, opere letterarie che dovrebbero essere soggetti ad obblighi rigorosi di trasparenza; in particolare bisognerebbe imporre ai fornitori di tali tecnologie generative di specificare che le opere sono frutto dell’insieme di informazioni caricate sull’intelligenza artificiale e non sono opere generate da esseri umani, nonché di formare e progettare i modelli escludendo che questi a loro volta possano generare contenuti illegali e pubblicare in modo trasparente informazioni circa l’uso di dati protetti dal diritto d’autore.In materia di intelligenza artificiale la Commissione europea ha pubblicato un Libro bianco in cui ha evidenziato la necessità di un quadro legislativo orientato agli investimenti in tali tecnologie con il doppio obiettivo di promuovere l’adozione dell’intelligenza artificiale e di affrontare e possibilmente risolvere, nel contempo, i rischi riconducibili all’applicazione di queste nuove tecnologie. All’origine la Commissione europea, nel 2019, aveva dato indicazioni non vincolanti con delle linee guida etiche, al fine di garantire un’intelligenza artificiale affidabile, basate su delle mere raccomandazioni politiche e di investimento. Successivamente, nel 2021, con  la comunicazione “Favorire un approccio europeo all’intelligenza artificiale” la Commissione europea ha posto il focus sui vincoli legislativi. Poiché la normativa vigente che protegge i diritti fondamentali e garantisce la sicurezza ed i diritti dei consumatori – con particolare riferimento alleleggi sulla protezione dei dati e sulla non discriminazione – non sembra adeguata per affrontare i rischi riconducibili alle tecnologie relative all’intelligenza artificiale, la Commissione europea ha proposto l’adozione di regole armonizzate per lo sviluppo, l’immissione sul mercato e l’uso dellenuove tecnologie. In particolare le disposizioni si basano su una classificazione fondata sul rischio, andando ad indicare i requisiti e gli obblighi necessari per l’implementazione dell’intelligenza artificiale. Questo approccio si basa su una sorta di “piramide del rischio” ascendente (cioè con situazioni che vanno dal rischio basso/medio a quello più elevato fino ad individuare un rischio inaccettabile) per classificare una serie di pratiche generali e di impieghi specifici in determinati settori, a cui la Commissione riconduce differenti misure di attenuazione, o addirittura divieti di alcune azioni ed attività di intelligenza artificiale. I divieti individuati riguardano un insieme limitato di utilizzi dell’intelligenza artificiale ritenuti non compatibili con i valori che l’Unione europea tutela e che sono riconducibili ai diritti fondamentali contenuti nella Carta europea. Alcuni sistemi di tecnologia artificiale presentano dei rischi non tollerabili per la sicurezza delle persone e la garanzia dei diritti fondamentali; un esempio di rischi non accettabili si ritrova nelle “tecniche subliminali” che consentono modalità dannose di manipolazione o l’identificazione biometrica remota “in tempo reale” (come ad esempio il riconoscimento facciale) in spazi accessibili al pubblico per finalità di contrasto delle azioni illecite. In tali circostanze sarebbero vietate le tecniche di intelligenza artificiale, tranne che per pochi limitati casi. Infatti sarebbero autorizzati sistemi “ad alto rischio” riconducibili a tali tecnologie a condizione che rispettino una serie di requisiti ed obblighi, come ad esempio la valutazione della conformità, e siano riconducibili a particolari settori,come ad esempio l’istruzione, l’occupazione, le attività di contrasto di illeciti e la giustizia. Tuttavia sistemi di intelligenza artificiale che presentano un “rischio limitato” sarebbero soggetti a obblighi di trasparenza meno rigidi: come il caso di uso di chatbot (un programma che simula conversazioni umane), oppure dei sistemi di riconoscimento delle emozioni o “deep fake” che utilizzano foto, video, audio, creati da intelligenza artificiale i quali, partendo da situazioni reali, riescono a modificare o ricreare in modo realistico le caratteristiche ed i movimenti di un essere umano nonchéla sua voce.

Le norme europee individuano inoltre spazi di sperimentazione al fine di promuovere l’innovazione nel settore dell’intelligenza artificiale creando un ambiente controllato per testare e monitorare tecnologie innovative, per un periodo di tempo limitato, con la finalità di sostenere le imprese innovative, le PMI e le start-up. Infine lo scorso 14 giugno il Parlamento europeo ha votato alcuni emendamenti al testo della Commissione europea ed una delle modifiche ha riguardato l’inserimento, nella lista dei sistemi ad alto rischio, delle tecnologie usate per influenzare gli elettori e la metodologia implementata per esaminare l’esito delle elezioni (exit poll) e dei sistemi di raccomandazione usati dai social media con più di 45 milioni di utenti (quest’ultimo aspetto riguarda i venditori online e le aziende dell'intrattenimento che utilizzano i suggerimenti in tempo reale o mostrano pubblicità basate su cosa il cliente sta guardando o ascoltando. I social network come LinkedIn e Facebook consigliano, ad esempio, connessioni o amici in base alla tipologia del proprio network). Si apre ora il processo di dibattito che prevede che le discussioni iniziali si concentrino specialmente sull’accoglimento parziale delle questioni più delicate e pressanti, al fine di tutelare diritti e principi non negoziabili comunitari, prima che i legislatori dei diversi paesi raggiungano un accordo definitivo, che potrebbe arrivare anche molto in là nel tempo, lasciando quindi incustodita una grande fascia di diritti e garanzie che l’intelligenza artificiale potrebbeminare e modificare fino al punto di annullare.

Pertanto a chiusura di questo approfondimento si vorrebbero sottolineare le criticità riconducibili all’intelligenza artificiale: Dipendenza: l’essere umano, nella maggioranza dei casi, ha un atteggiamento di pigrizia finalizzato all’economia delle energie; affidarsi all’intelligenza artificiale può significare perdere la capacità creativa e critica che sono le caratteristiche che hanno permesso alle civiltà di evolversi e svilupparsi.  Aumento delle disuguaglianze: questo problema è alimentato dalle diverse possibilità di utilizzo da parte dei singoli utenti. Infatti diversi saranno gli obiettivi ed i vantaggi che potrà trarre un’azienda rispetto ad un semplice privato nell’uso delle tecnologie. Privacy: molti degli attuali sistemi di intelligenza artificiale si basano su masse di informazioni carpite su internet in modo casuale e senza che alcuni sappiano dell’uso di tali dati, in violazione della privacy dei singoli.

- Mancanza di legame con la realtà: il mondo dell’intelligenza artificiale non permette più una separazione netta tra mondo reale e mondo virtuale e questo alla lunga può portare a disorientamento e problematiche di tipo relazionali e psicologiche, con perdita delle

relazioni interpersonali ed umane.

- Disinformazione: i dati che utilizza l’intelligenza artificiale sono dati grezzi, presi in maniera randomica sul web (altrimenti una analisi ed una cernita dei dati da parte degli esseri umani porterebbe a rallentare l’alimentazione del software con conseguenze in termini di aumento dei costi). Ciò implica che potrebbero essere diffuse notizie false e del tutto incoerenti (come spesso fa chatGPT) che inoltre non potrebbero essere corrette in tempo reale.

- Uso scorretto dell’intelligenza artificiale: nel caso si verifichi tale evenienza, possono sorgere problemi di tipo etico; infatti il software, essendo un prodotto informatico, non è

possibile impostarlo su problematiche di tipo etico/morale. Ciò comporta che le risposte ottenibili da tali strumenti non compiano un processo di discernimento tra ciò che è giusto e ciò che non lo è. Questo aspetto apre a richieste da parte degli utenti di conoscere le modalità per compiere illeciti, a cui il software può dare risposta, senza distinguere ovviamente tra ciò che è legale e ciò che non lo è, perdendo di vista anche problematiche connesse con la responsabilità delle azioni commesse.

- Perdita di lavoro: questo è un rischio concreto in considerazione del fatto che molti posti dilavoro si sono già persi con la sostituzione di software di intelligenza artificiale. Si pensi ai chatbot che assistono la clientela, spesso anche con molto poco successo, che hanno preso il posto degli esseri umani; è vero che ogni epoca, ad iniziare dalla rivoluzione industriale, ha visto la sostituzione del lavoro umano con quello artificiale, però oggi i tempi di sostituzione sono davvero molto stretti e la rapidità del cambiamento potrebbe non garantire la transizione della perdita del vecchio lavoro con ingaggi in attività di nuova tipologia.

- Mercato finanziario: già in uso, strumenti come BloombergGPT hanno rivoluzionato il settore del mercato finanziario dove si manovrano grandi masse di risorse monetarie con il mero obiettivo della speculazione. Siamo di fronte ad un agire senza etica da parte di queste tecnologie che generano solo del male sia per le aziende sia per i risparmiatori, essendo di fatto utilizzate solo da grandi investitori speculativi. Operazioni di tale portata potrebbero generare delle profonde crisi finanziarie con perdita, per gli operatori economici meno tutelati, di valori cospicui.

- Creazione di armi autonome: è già iniziata la produzione di armi autonome che si basano sull’intelligenza artificiale. si pensi alle armi intelligenti, ai droni, e a tutte le tecnologie che hanno come obiettivo la distruzione, senza saper e poter guardare negli occhi degli esser umani. Il futuro che si presenta potrebbe essere davvero orribile; già oggi le armi nucleari in mano a degli esseri umani fanno paura, ma in mano a macchinari autonomi la strada da percorrere sarebbe solo a senso unico, senza ritorno.

A conclusione di queste osservazioni c’è da porsi una domanda: la razza umana è in pericolo di estinzione? A ben vedere sì; pensiamo all’educazione sempre meno religiosa, etica e morale che diamo ai nostri giovani, alla cultura del mordi e fuggi, alla ineducazione verso il futuro e le prospettive umane e lavorative, all’inverno demografico, alla mancanza di responsabilità. Sono tutte situazioni che portano a pensare l’uomo come limitato sull’asse temporale della vita, verso una strada senza ritorno dove basteranno poche persone potenti che potranno godere di un mondo più o meno florido con alle loro dipendenze macchine senza cuore e senza intelligenza, se non quella rubata a millenni di civiltà, ma finite e limitate anche loro nelle proprie possibilità di sviluppo perché alla fine verrà a mancare la materia prima dei loro dati ed informazioni: larazza umana. Quindi il richiamo verso l’attenzione e la delicatezza della questione porta a considerazioni drastiche: non facciamoci abbindolare da un futuro fantascientifico, smettiamola di fornire consensi all’uso dei nostri dati biometrici e non (pensiamo anche a tutelarci nelle azioni più banali della vita quotidiana, come quella, ad esempio, di sottoscrivere tessere nei supermercati dove ti chiedono notizie, le più disparate che poco hanno a che fare con la richiesta di una semplice carta finalizzata a discutibili sconti), la vita è ora e deve rispondere anche ad una concreta e vivibile speranza nel futuro, e va goduta nel modo più naturale possibile nel

rispetto del creato, tutto, uomini, animali ed ambiente e lasciando che le macchine e gli automatismi ci aiutino nei lavori quotidiani più pesanti, ma non ci sostituiscano in nessuna delle nostre umane funzioni ed azioni, le uniche capaci di proiettarci verso un futuro migliore per i nostri giovani, la vera ed unica ricchezza dell’umanità.

 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
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19 Luglio 2023

IL VALORE AGGIUNTO DELLE RACCOMANDAZIONI DELL’OCSE SULLA LEGGE ITALIANA SUL LOBBISMO di ALESSANDRA DI GIOVAMBATTISTA

IL VALORE AGGIUNTO DELLE RACCOMANDAZIONI DELL’OCSE SULLA LEGGE ITALIANA SUL LOBBISMO

 

di Alessandra Di Giovambattista

 04-09-2023

Sul testo unificato della legge sul lobbismo, che ha ottenuto il suo primo sì presso la Camera dei Deputati il giorno 12 gennaio 2022, è stato necessario acquisire anche il parere dell’Ufficio per l’Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico della cooperazione (OCSE) per le istituzioni democratiche ed i diritti dell’uomo, che è stato espresso nel settembre 2021. Con esso l’ufficio dell’OCSE ha sollevato questioni sulle aree di criticità della bozza proposta.

È interessante il preambolo del parere in cui si sottolinea che la regolamentazione delle attività di lobbying si inserisce in un contesto in cui si incrocia da una parte la salvaguardia del diritto alla libertà di associazione ed il diritto alla partecipazione dei singoli alle attività politiche e dall’altro l’eliminazione delle situazioni in cui potrebbero emergere atteggiamenti e fattispecie riconducibili al reato di corruzione. “Il lobbying è un atto legittimo di partecipazione politica, un mezzo importante per promuovere il pluralismo e, in ultima analisi, uno strumento per contribuire al miglioramento del processo decisionale nel settore pubblico”. Nel termine lobbying rientra anche l’attività di “advocacy”, ossia di attivismo sostenuta da organizzazioni della società civile o da gruppi senza scopo di lucro; tuttavia l’accesso non trasparente e legato a conoscenze e clientele ha portato il lobbying ad essere percepito come l’influenza sul processo decisionale da parte di soggetti portatori di interessi potenti.

La definizione proposta dal Consiglio d’Europa (CM/Rec del 2017) per “lobbying” è la seguente: “la promozione di interessi specifici attraverso la comunicazione con un funzionario pubblico nell’ambito di un’azione strutturata ed organizzata volta a influenzare il processo decisionale pubblico”. Può rappresentare pertanto uno strumento efficace per esercitare il diritto di partecipazione pubblica all’attività politica. Nell’ambito dell’OCSE gli Stati partecipanti si sono impegnati a “garantire che agli individui sia consentito l’esercizio del diritto di associazione, compreso il diritto di formare, aderire e partecipare con efficacia a organizzazioni non governative” (documento di Copenaghen del 1990) e quindi di “rafforzare le modalità di contatto e di scambio di opinioni tra le ONG e le autorità nazionali competenti e le istituzioni governative” (Documento di Mosca del 1991). Tuttavia, pur considerando il lobbying anche nell’accezione di attivismo, al fine di contrastare l’influenza sproporzionata da parte di gruppi finanziariamente e politicamente potenti, e di garantire la trasparenza del processo di formazione delle scelte di politica e di politica economico/finanziaria, le attività di rappresentanza di interessi sono assoggettate ad attente regolamentazioni e devono presentare dei requisiti di trasparenza ed integrità per garantire la responsabilità dei soggetti partecipanti all’attività di lobbying e l’inclusione nel processo decisionale. La questione della normazione presenta un elevato grado di delicatezza in quanto le regole poste a tutela dei diritti democratici di espressione della volontà e di controllo dell’operato pubblico da una parte non devono violare il diritto dei singoli, anche organizzati collettivamente, di esprimere liberamente le proprie opinioni e di presentare interrogazioni agli attori della pubblica amministrazione e dall’altra devono poter promuovere campagne a favore di modifiche normative e socio/economiche. Per contro la stessa legislazione deve agire sul lato della corruzione impedendone lo sviluppo e contrastandone le diverse forme di connivenza. Il gruppo di stati presenti nel Consiglio d’Europa che agisce contro le forme di corruzione ha esaminato anche le norme in materia di lobbying presentate dalle autorità italiane e ne ha fornito apposito documento che contiene al suo interno diverse raccomandazioni che il parere dell’OCSE, qui all’esame, tiene in debita considerazione.

Il parere formulato dall’Ocse contiene quindi diverse indicazioni circa il miglioramento e le correzioni da apportare alla proposta italiana, in più indica delle raccomandazioni, che sono così sintetizzabili:

  • Raccomandazione A: la sintesi della prima raccomandazione si basa sul fatto che la proposta di legge sul lobbying presentata dall’Italia sarebbe più efficace se si basasse su un approccio più equilibrato circa gli obblighi assunti dalle due parti, cioè lo Stato ed i suoi rappresentanti da una parte ed i lobbisti dall’altra, siano essi soggetti privati, aziende, o organizzazioni della società civile. In particolare la proposta di legge non sembra porre particolare attenzione agli obblighi ed ai vincoli che dovrebbero esser posti anche in capo agli operatori pubblici (politici e funzionari), soffermandosi essenzialmente sui vincoli gravanti sui lobbisti; nello specifico la responsabilità della trasparenza delle decisioni prese dovrebbe essere suddivisa equamente tra lobbisti e decisori pubblici, con la considerazione che sono poi questi ultimi a dover rendere conto delle loro scelte e decisioni alla società, che si sostanzia, in ultima analisi, nel corpo elettorale. Prevedere le responsabilità ed i vincoli alla sola parte dei portatori di interesse, rischia di lasciare aperte scappatoie e spazi per la corruzione; per contro vincolare i soli lobbisti potrebbe soffocare la partecipazione politica e pubblica e limitare le forme di associazione in difesa di specifiche richieste formulate da categorie e/o gruppi di interesse. Pertanto entrambe le parti devono agire in modo appropriato e responsabile l’una nei confronti dell’altra (per approfondimenti si veda quanto scritto dal Gruppo di stati contro la corruzione – GRECO); in particolare i principi dell’OCSE per la trasparenza e l’integrità del lobbying affermano che “i Paesi devono promuovere una cultura dell’integrità nelle organizzazioni pubbliche e nel processo decisionale, delineando regole e linee di condotta chiare per i funzionari pubblici”.

  • Raccomandazione B: in tale raccomandazione l’OCSE sottolinea l’importanza di introdurre nella legge di regolamentazione del lobbying, il percorso di formazione, l’ausilio di guide e di materiale tanto per i lobbisti quanto per i decisori pubblici. In effetti la proposta di legge è carente nella parte riguardante le modalità di formazione e conoscenza dei contenuti dell’attuale disegno di legge che un domani diverrà norma nazionale; è pertanto importante prevedere modalità e percorsi per far sì che gli attori di questo incontro di volontà/interessi possano conoscere in modo approfondito le finalità delle disposizioni stesse al fine di costruire le capacità, la sensibilità e le competenze per il confronto tra lobbisti e politici, al fine di evitare incomprensioni, o mancata applicazione dei principi contenuti nel disegno di legge stesso.

  • Raccomandazione C: l’ufficio preposto ai pareri dell’OCSE suggerisce di chiarire che tutte le forme di contatto sono contemplate, indipendentemente dal fatto che avvengano di persona, per iscritto o attraverso strumenti di comunicazione digitale. In tal senso infatti si è vista la complessità crescente del lobbying in termini di utilizzo dei canali e meccanismi tecnologici al fine di influenzare le decisioni di politica pubblica. La mancanza di un’accezione ampia potrebbe aprire il varco ad attività illecite e a rischio di corruzione, in quanto lascerebbe sguarnite attività di contatto riconducibili a metodologie informatiche di più recente generazione; si pensi a tutto il fenomeno degli influencers e delle strategie utilizzate dai social media per informare, disinformare e alterare la percezione delle problematiche da parte del pubblico. Pertanto l’OCSE auspica che le definizioni contenute nella proposta di legge vengano migliorate per aumentarne la chiarezza e la prevedibilità nonché per ampliarne l’accezione circa le modalità di contatto tra gli attori del lobbying al fine di rendere le disposizioni le più efficaci possibile. Inoltre il parere sottolinea il fatto che la legge deve essere redatta con maggior cura per evitare che non tutte le attività di attivismo (advocacy) e sensibilizzazione siano riconducibili al fenomeno del lobbying indiretto. Infatti la norma si esprime in maniera generica facendo rientrare nel lobbying lo “svolgimento di qualsiasi altra attività diretta a concorrere alla formazione delle decisioni pubbliche”; in tal modo qualsiasi azione di attivismo rischierebbe di essere soffocata a discapito dell’impegno di alcune organizzazioni/ONG in ambito sociale e civile.

  • Raccomandazione D: l’attenzione da parte dell’ufficio dell’OCSE preposto al parere cade sulla definizione di decisore pubblico che la proposta individua in modo alquanto ristretto. Si rende necessario che tale definizione sia la più ampia possibile e contempli al suo interno anche le figure riconducibili a tutti i funzionari pubblici che possono diventare destinatari del lobbying, fornendo una descrizione semplice e completa del soggetto identificabile come decisore pubblico su ogni livello e in linea con i documenti di orientamento internazionali. In particolare il parere sottolinea che indicare nella proposta di legge come funzionari pubblici comunali destinatari delle disposizioni, quelli che gestiscono Comuni con un numero minimo di abitanti (pari o superiori a 300.000 abitanti) escluderebbe dalla normativa, volta a regolare il lobbying, quelle piccole realtà dove forse più che in altri luoghi si potrebbero perpetrare accordi e influenze indebite con ricadute negative per il territorio in termini di collusione e corruzione. In ragione di ciò auspica l’eliminazione di ogni riferimento numerico in termini di abitanti presenti nei Comuni al fine di individuare i funzionari pubblici destinatari delle norme in discorso. Inoltre specifica che il lobbista può operare anche senza compenso e senza un’organizzazione professionale alle spalle; pertanto dovrebbe essere eliminata la qualifica di attività organizzata “professionalmente” che implicherebbe sia dei compensi, sia una struttura amministrativa efficiente ed organizzata, caratteristiche che di fatto potrebbero non essere presenti.

  • Raccomandazione E: l’OCSE impone di inserire dei requisiti di trasparenza ed accountability specialmente nei casi di incontri tra privati, di natura non pubblica. In effetti le linee guida internazionali individuano solo due categorie di eccezioni alle leggi sul lobbying: 1) le interazioni tra cittadini privati e funzionari pubblici in merito ai loro affari privati, salvo qualora questi riguardino interessi economici individuali aventi però una rilevanza e una dimensione che possano coinvolgere un più ampio ambito; 2) il caso di funzionari pubblici, diplomatici e partiti politici che agiscono nelle vesti ufficiali. Invece la proposta italiana individua una lunga lista di eccezioni all’applicabilità delle disposizioni di regolamentazione del lobbying, esentando anche incontri di natura non pubblica che però potrebbero ricadere per importanza e complessità nell’ambito delle relazioni di interessi. Tale aspetto, se non ben chiarito nelle norme, potrebbe di fatto aumentare i rischi di corruzione in quanto rimarrebbero fuori dal controllo interventi ed interazioni che sostanzialmente sarebbero riconducibili a vere e proprie attività di lobbying. Allo stesso modo, le disposizioni internazionali danno un significato ampio all’attività di lobbying, mentre la proposta italiana esclude dall’applicazione normativa anche “l’attività di rappresentanza svolta nell’ambito di processi decisionali che si concludono mediante protocolli d’intesa o altri strumenti di concertazione”; con riferimento a ciò il parere sottolinea che non essendo chiara la portata normativa, di fatto potrebbero simularsi azioni esenti dalla legge di regolamentazione del lobbying che sarebbero invece da ricondurre proprio nell’alveo della gestione di interessi privati in ambito pubblico i quali, in mancanza di controllo e regolamentazione, potrebbero sfociare in fattispecie riconducibili alla corruzione o alla connivenza.

  • Raccomandazione F: la predisposizione di un codice deontologico presuppone una guida che specifichi ed approfondisca le disposizioni contenute nella proposta di legge al fine di condurre facilmente sia i lobbisti che i decisori pubblici ad azioni che rispondano agli obblighi contenuti nelle norme. Con tale significato il codice deontologico dovrebbe costantemente far riferimento alle disposizioni contenute nella proposta di legge in modo da individuare le singole violazioni ed assoggettarle a specifiche sanzioni. In particolare il parere fa notare che nella proposta le norme del codice deontologico, peraltro non ancora elaborate e pubblicate, sono imposte ai soli “rappresentanti di interessi” e non anche ai “decisori”, con ciò conferendo a questi ultimi un potere contrattuale maggiore e per di più non sanzionabile. Si fa notare che un codice di tale natura dovrebbe essere destinato a tutti gli attori delle relazioni, siano essi lobbisti o decisori pubblici, con la finalità di guidare e fornire informazioni affinché il loro operato si svolga secondo una condotta appropriata, che garantisca che tutte le parti rispettino i principi deontologici di buona attività.

  • Raccomandazione G: conseguenza di quanto espresso prima è la raccomandazione in esame; in essa si specifica che l’imposizione di sanzioni sia adeguata e proporzionale alle inosservanze delle specifiche norme e che le sanzioni stesse siano irrogate non solo ai rappresentanti di interessi ma anche ai detentori di interessi e ai decisori pubblici.

  • Un altro aspetto importante individuato nel parere, che però non ha dato luogo ad una specifica raccomandazione, risiede nella norma che esclude compensi ai rappresentanti del Governo o ai partiti; in particolare la proposta italiana specifica che “i rappresentanti di interessi non possono corrispondere, a titolo di liberalità, alcuna somma di denaro o altre utilità economicamente rilevanti a rappresentanti del Governo o a partiti, movimenti e gruppi politici, a loro esponenti o a intermediari di questi ultimi”. L’ufficio specifica che gli strumenti giuridici internazionali previsti contro la corruzione hanno una connotazione molto più ampia specificando che proibiscono di “offrire, promettere o fornire qualsiasi vantaggio indebito", esulando in tal modo dal più ristretto divieto indicato dalla norma di corrispondere “alcuna somma di denaro o altre utilità economicamente rilevanti", che di fatto non esclude il rischio di corruzione durante le attività di lobbying. Acquista così rilievo anche la mancanza, nella proposta italiana, di qualsiasi riferimento normativo sulla necessità di relazionare circa le informazioni riguardanti eventuali vantaggi offerti, promessi o concessi a persone, gruppi o enti, che consentirebbe di valutare se tali tipi di ricompensa siano riconducibili a forme di vantaggio indebito.

In conclusione il parere dell’OCSE fa riflettere circa la limitazione delle disposizioni contenute nella proposta italiana che si presenta davvero ad uno stadio embrionale; le correzioni da apportare sono tante e tutte condivisibili in quanto aiutano a specificare il campo di azione e consentono una definizione più ampia dei fenomeni e delle situazioni riconducibili alle attività di lobbying. L’ampliamento delle definizioni ricondurrebbe nell’alveo della regolamentazione molte situazioni che invece, utilizzando la proposta italiana, rimarrebbero fuori dal controllo, impedendo una valutazione efficace ed effettiva dell’operato dei portatori di interesse e dei soggetti pubblici.

Una siffatta correzione aiuterebbe quindi ad individuare meglio le responsabilità dei singoli, definirne le eventuali colpe, irrogare le conseguenti sanzioni con il risultato di offrire una visione condivisibile, consapevole e garantista dell’operato dei soggetti pubblici. In mancanza di ciò, molto probabilmente, i varchi e le falle a favore delle situazioni di corruzione e collusione saranno tanti e sfuggiranno al controllo ed alle sanzioni. Sarebbe auspicabile poter contare su una legislazione chiara ed efficace che, per un argomento così delicato, faccia assumere le dovute responsabilità agli operatori pubblici e privati i quali, qualora non si comportino secondo onestà e deontologia, sarebbero chiamati a rifondere personalmente i danni che lo Stato subirebbe per effetto delle loro condotte illegali.

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04 Settembre 2023

LA PRIVACY E’ UN BENE COMMERCIALE O PIUTTOSTO UN DIRITTO? Di Alessandra Di Giovambattista

LA PRIVACY E’ UN BENE COMMERCIALE O PIUTTOSTO UN DIRITTO?

Di Alessandra Di Giovambattista

 25-09-2023

Con la parola “privacy”, tradotta nella nostra lingua con il termine di riservatezza, si indica il diritto che ha ogni individuo ad avere una sfera personale e privata non conoscibile e fruibile da parte di altri soggetti. Il concetto si sviluppa sin dall’antica Grecia quando i filosofi, tra cui anche Aristotele, differenziavano la sfera pubblica dell’individuo che implicava lo svolgimento delle attività cittadine - il cui svolgimento era di fondamentale importanza se si voleva una vita politica attiva - da quella privata, riconducibile alla vita familiare, domestica del singolo, nella quale occuparsi delle proprie necessità. Tale differenziazione aiutava anche a tracciare un confine tra quanto era di interesse pubblico e quanto era di interesse privato, personale; quest’ultimo però rappresentava un ambito prodromico al riconoscimento ed alla tutela del corretto funzionamento della sfera pubblica la quale era considerata la sola che permettesse lo sviluppo della personalità umana (all’epoca esclusivamente maschile).

Solo dopo il disgregarsi dell’età feudale l’idea di libertà personale iniziò a delinearsi meglio fino ad arrivare al periodo post-rinascimentale in cui le riforme religiose, lo sviluppo della classe borghese e l’inizio dell’istruzione consentono di mettere sempre meglio a fuoco i diritti personali dei singoli separandoli da quelli collettivi e pubblici e segnando l’inizio di un periodo di intensa concettualizzazione circa i principi posti a base della giurisprudenza.

Si deve però all’approfondimento di due giuristi statunitensi (Luis Brandeis e Samuel Warren) il concetto di diritto di riservatezza (“The right of privacy”); in particolare nel 1890 essi pubblicarono la prima monografia volta a riconoscere il diritto ad essere lasciato da solo (“the right to be let alone”) inteso quale tutela di una propria ed inviolabile intimità, in cui si determinano vicende personali e familiari che non hanno, per i terzi estranei, un interesse socialmente e pubblicamente apprezzabile. Quindi la privacy era intesa come un ambito della propria vita dal quale escludere gli altri, tenuti a rispettare un diritto personale, inteso come un proprio spazio inaccessibile. Espresso in tal modo evidenziava il contenuto negativo di esclusione da informazioni non ritenute di interesse e dominio pubblico laddove era ancora latente il suo contenuto positivo, esprimibile come la possibilità e necessità di controllo sui propri dati personali e le proprie informazioni, in particolare quando queste ultime possono essere gestite e diffuse dai mezzi di comunicazione. Naturalmente tale limitazione di significato era legata al contesto storico in cui il concetto era venuto a svilupparsi; era il periodo della rivoluzione industriale in cui il ceto borghese acquisiva sempre più consapevolezza di sé, dei propri diritti e più in generale puntava alla tutela del proprio ambito vitale affinché terzi estranei non interferissero in spazi di personale dominio.

In quel periodo, per la prima volta nella storia, si era di fronte all’innovazione tecnologica nell’ambito della comunicazione; nel 1875 Robert Barclay inventò la stampa in offset (o litografia), utilizzata poi per la tiratura di tutti i quotidiani negli anni a seguire. Questa metodologia di stampa si basa sulla creazione dell’immagine su una lastra, questa viene trasferita su una superficie di gomma e poi stampata sul foglio di carta. La gomma consente di stampare su superfici non perfettamente lisce con un elevato livello di precisione, potendo quindi utilizzare anche diversi tipi di carta. In più, nel 1839 Louis Daguerre aveva messo a punto la tecnica fotografica chiamata dagherrotipo che sfruttava procedimenti chimici al fine di ottenere delle foto nitide in pochi secondi. Quindi tale innovazione affiancata a quella della stampa offset consentì il rapido sviluppo del mercato delle informazioni su larga scala rappresentato dalla nascita di grandi testate giornalistiche tuttora diffuse: nel 1851 venne fondato il New York Times.

Quindi l’evoluzione della stampa permise alla fine del secolo XIX di dare ampia diffusione a notizie e fotografie relative a persone senza che queste sapessero e rilasciassero il loro consenso all’utilizzo; fu proprio tale circostanza che spinse Warren e Brandeis a tutelare il diritto di riservatezza dei cittadini che potevano vedere propagare dati e notizie personali attraverso la vendita di migliaia e migliaia di copie di quotidiani.

Quanto detto aiuta a comprendere come la problematica della tutela della riservatezza sia strettamente connessa all’evoluzione tecnologica; le innovazioni, i sistemi sociali, l’epoca storica e le mode socio/culturali generano problematiche sempre nuove che producono effetti giuridici che meritano tutela e protezione.

La problematica esplose poi, in tutta la sua importanza, con l’avvento degli elaboratori elettronici in grado di trattare migliaia di dati ed informazioni, con ciò modificando le modalità di raccolta e gestione dei dati personali e sensibili. Soprattutto a partire dagli anni ‘70, con lo sviluppo delle prime grandi banche dati elettroniche, la tutela dei diritti alla privacy ed alla riservatezza si sentirono in tutta la loro rilevanza. Era necessario il monitoraggio della raccolta, dell’elaborazione e della diffusione elettronica dei dati personali che ha aggiunto, al diritto alla riservatezza, anche il diritto al trattamento dei dati personali. La tutela della privacy non può quindi consistere nel mero divieto della raccolta ed elaborazione dei dati personali senza che si sia ottenuto il preventivo permesso del diretto interessato; ciò sarebbe eccessivo perché annullerebbe l’irreversibile processo evolutivo delle tecnologie delle informazioni, ed insufficiente in quanto ottenere il consenso del diretto interessato potrebbe significare, per paradosso, non tutelare proprio i soggetti più deboli e più esposti alla circolazione di informazioni sensibili. In tale complesso panorama si riscontra l’atteggiamento lungimirante di Warren e Brandeis anche se essi, di fatto, non si posero il problema di far assurgere la tutela della privacy ad un vero e proprio diritto fondamentale da garantire e salvaguardare attraverso una apposita norma legislativa.

Al contrario in Europa la spinta a considerare riservatezza e protezione dei dati personali come diritti fondamentali e costituzionalmente protetti, sono stati elementi caratterizzanti fin dal 1950; infatti la Convenzione europea dei diritti dell’uomo (CEDU) ha considerato il diritto alla riservatezza propria e dei propri familiari come un diritto fondamentale dell’uomo; successivamente la Convenzione di Strasburgo nel 1981 ha compattato il diritto alla riservatezza ed il diritto alla protezione dei dati personali ad un unico diritto fondamentale, espressione e condizione essenziale di libertà. Queste scelte sono state poi ribadite e rafforzate prima con la Direttiva 95/46/EC e poi con la Carta europea dei diritti fondamentali (Carta di Nizza).

Ai fini della messa a punto della definizione odierna di privacy viene in aiuto il pensiero del politico italiano Stefano Rodotà per il quale tale diritto di riservatezza sancisce un’impossibilità di ingresso in uno spazio altrui. Pertanto se agli inizi l’ambito era circoscritto alla sfera della vita privata recentemente, soprattutto con l’avvento dei social network, il diritto alla privacy indica il diritto, più ampio, al controllo dei propri dati personali, affinché questi siano trattati ed utilizzati esclusivamente in caso di reale necessità.

Un aspetto da tener presente è la diversa modalità di tutela e di significato concettuale che la privacy ha nel mondo anglosassone rispetto a quello europeo. La differenza non è banale e conoscerne la sostanza può aiutare a tutelarsi meglio; entriamo un po’ nel dettaglio. Intanto la prima osservazione da fare riguarda l’indispensabile utilità di essere a conoscenza delle diverse tutele se si pensa all’enorme massa di dati che vengono inseriti sui social network e che transitano in tutte le direzioni del globo. La maggior parte delle aziende che gestiscono dati sono multinazionali statunitensi e qualunque condivisione di informazioni in ultima istanza finisce per essere trasferita negli USA. Pertanto conoscere le differenze di tutele e di leggi sulla privacy è di fondamentale importanza.

Nel mondo anglosassone i dati e le informazioni sono considerati un bene commerciale e pertanto la privacy è tutelata esclusivamente nell’ambito delle relazioni e dei rapporti di natura commerciale (la tutela è prevista nei soli casi sanitari o finanziari). Quindi le modalità di rispetto della privacy sono calibrate a seconda dei soggetti e delle tipologie di servizi che vengono offerte; in tal modo le tutele non sono univoche e si adattano alla tipologia di contratto che si va a sottoscrivere. Invece in Europa il regolamento sulla privacy è molto più stringente e considera la tutela dei dati personali un diritto inviolabile; la raccolta dei dati ha bisogno pertanto dello specifico consenso degli utenti, mentre negli USA la tutela dei dati riguarda solo il loro utilizzo, mentre la raccolta di informazioni è consentita, indiscriminata e non di rado carpita in modo subdolo.

Si pensi che le forze dell’intelligence statunitense possono utilizzare le informazioni tratte dai servizi di condivisione delle banche dati a prescindere dalla nazione alla quale i dati appartengono; il solo fatto che questi vengano utilizzati nell’ambito del mercato statunitense fa sì che la loro gestione ricada sotto la giurisdizione degli USA. Tale aspetto si trova in netto contrasto con quanto espresso nel regolamento europeo definito come "General Data Protection Regulation" (GDPR). L’utilizzo da parte degli USA della gran massa di dati (c.d. big data) che sono presenti nelle banche dati, nasce dalla necessità di avere libero accesso ad informazioni e a prove elettroniche utilizzate nei grandi processi e nelle indagini internazionali. L’Europa tuttavia ha immediatamente sottolineato che tale pratica si presenta in netto contrasto con i diritti umani fondamentali, poiché non rispetta le norme sulla tutela della privacy dei cittadini, ostacolando anche le attività di protezione dati svolte da aziende europee (essenzialmente tedesche e francesi). In particolare l’articolo 48 del GDPR afferma che nessuna organizzazione può trasferire dati personali verso un paese terzo senza che vi sia un previo accordo internazionale.

Da quanto detto risulta ancora più chiara la differenza tra il concetto di privacy e della sua tutela tra i due mondi, quello anglosassone e quello europeo: pensare alla privacy come ad un bene economico che può essere venduto o negoziato in cambio di benefici o servizi, allontana dal concetto europeo di privacy visto come un diritto fondamentale dell’uomo che deve essere protetto da ogni forma di abuso o di utilizzo indiscriminato e non autorizzato di proprie informazioni da parte di terzi, siano essi soggetti pubblici o privati.

Non vi è dubbio che ambedue le impostazioni hanno come obiettivo la tutela della privacy dei cittadini, evitando però di compromettere il mercato che si basa sui flussi di dati; come esempio si consideri che l’intelligenza artificiale si fonda sull’uso dei c.d. big data opportunamente connessi tra loro e tradotti in algoritmi. Ma ciò rende vulnerabile ed indifeso il cittadino su più fronti: quello dell’uso dei dati personali e quello della loro manipolazione per individuare politiche, progetti e programmi finalizzati alla determinazione ed al governo del pensiero di massa (c.d. pensiero unico). Siamo di fronte ormai ad un mercato di dati ed informazioni che vede il singolo come parte debole della catena; egli rappresenta il soggetto che fornisce i suoi dati ed allo stesso tempo ne rimane vittima. Immaginiamo il tutto calato in una qualsiasi realtà politica: saremmo di fronte ad uno Stato autoritario che non tutela il benessere ed i diritti, conformato come un tribunale che fa giustizia utilizzando informazioni personali come possibili prove di colpevolezza di ogni individuo. E’ il caso di chiudere dicendo che ogni cosa detta o fatta da noi potrà comunque essere utilizzata contro di noi!

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25 Settembre 2023

L’ECONOMIA ITALIANA DEL POST COVID19 di Alessandra Di Giovambattista

L’ECONOMIA ITALIANA DEL POST COVID19

di Alessandra Di Giovambattista

15-09-2023 

Dopo il picco della pandemia da malattia identificata con la sigla COVID19 tutte le analisi di mercato sono state aggiornate, con riferimento alle previsioni sulla crescita economica per il 2020, verso un forte ribasso. In Italia, la crisi sanitaria è succeduta ad una fase in cui l’economia già dava segni di rallentamento. In estrema sintesi possiamo ricordare che la crisi del 2010, dei mutui c.d. subprime e del fallimento della banca Lehman Brothers aveva trascinato verso il basso il PIL italiano; successivamente mentre si avevano dei modesti segnali di crescita, si è presentata la crisi dell’euro e dello spread che ha fatto registrare una seconda recessione proseguita fino nel 2013. Negli anni successivi la crescita è stata molto lenta ed il PIL nel 2018 e 2019 è aumentato rispettivamente dello 0,8% e dello 0,5%. A ridosso di tale precaria situazione economica le misure anti Covid del 2020 sono state così stringenti che hanno prodotto un shock pesante per il nostro mercato già fragile, tanto da indurre il Fondo monetario internazionale a stimare un calo del PIL italiano nel 2020 pari al -9,1% (a consuntivo si è attestato al -9%) a fronte di una media dell’area europea del -7,5%. In generale si può dire che è ormai da più di un decennio che l’Italia viaggia sui valori più bassi del PIL registrati nell’area dell’eurozona.

Le misure di distanziamento sociale introdotte nel nostro Paese sono state severe, forse tra le più severe, ed hanno riguardato prima la chiusura delle scuole e la sospensione di eventi pubblici, poi a partire dal 9 marzo 2020 si è assistito all’introduzione di diverse limitazioni alla libera circolazione di persone anche all’interno dei confini nazionali e finanche dei confini comunali. Dopo il 28 marzo si sono fermate le attività in diversi settori produttivi ritenuti non essenziali e si è iniziato ad implementare il lavoro da remoto (c.d. smart working). Poi le restrizioni sono state lentamente rimosse a partire dal 4 maggio del 2020. 

Quindi, gli effetti del lockdown, in aggiunta alla già precaria situazione economica, sono apparsi subito molto pesanti per il nostro Paese; le previsioni sulle prospettive economiche rese note dalle istituzioni internazionali hanno mostrato delle ricadute della crisi molto più forti in Italia rispetto a quanto stimato per le altre economie sviluppate ed in particolare quelle dell’eurozona. Ciò è dipeso da vari fattori in particolare legati al maggior prolungamento del distanziamento sociale rispetto ad altri Paesi, che ha impattato negativamente sulle attività dei settori in cui si è imposto il fermo produttivo ed ha generato un deterioramento delle relazioni intersettoriali. Inoltre la dura politica sociale che ha previsto la perdita del lavoro a fronte della scelta di non voler effettuare la vaccinazione senza offrire una valida attività lavorativa alternativa, ove possibile, da poter svolgere da remoto, ha creato sfiducia ed incertezza che si sono tradotti, in ultima analisi, in diminuzione del reddito disponibile e pertanto in un calo dei consumi. In più l’economia italiana che si caratterizza per la forte vocazione turistico alberghiera, la quale con tutto l’indotto contribuisce al PIL per una quota superiore al 13% (dato del 2017), è stata più duramente colpita e provata dalle misure di chiusura dei flussi internazionali, ed anche nazionali, del turismo, rispetto ad altre nazioni. Questo implica che gli effetti della pandemia sul terzo settore si sentiranno più intensamente e per un periodo più lungo rispetto a settori come quello primario (agricoltura e allevamento) e secondario (industriale). L’Italia è poi un’economia fortemente dipendente dalle esportazioni e anche dalle importazioni di materie prime; questo ultimo aspetto è peraltro venuto marcatamente fuori con la recente e tutt’ora in atto guerra russo-ucraina. A ridosso della pandemia da COVID19 il calo del commercio internazionale ha contribuito in modo rilevante al crollo del PIL in Italia.

Il clima di sfiducia, anche verso le istituzioni, derivante dalla crisi sanitaria, ha avuto conseguenze sociali che in Italia sono state più rilevanti rispetto agli altri Paesi europei; un’indagine pubblicata nel 2020 (promossa dall’osservatorio dell’Istituto Toniolo e dal Ministero per le Pari Opportunità e la Famiglia) ha evidenziato che tra i giovani italiani in età compresa tra i 18 ed i 34 anni, circa il 60% di essi ritiene che l’emergenza sanitaria segnerà negativamente i propri piani e progetti futuri a fronte del 46% e del 42% dei giovani rispettivamente francesi e tedeschi a cui è stato rivolto il medesimo questionario. In particolare è emerso che i giovani italiani dichiarano di dover rinunciare ai propri progetti, mentre i ragazzi europei affermano di dover solo posticipare i propri progetti.

Una tale situazione denota, a modesto avviso, una sensazione di sfiducia causata da una percezione di abbandono da parte delle istituzioni che ormai poco curano la scuola, e più in generale le politiche giovanili per il lavoro, lo sport ed il tempo libero. In più si aggiunga che assistiamo ad un rapido crollo dei valori socio familiari che invece di proporre sicurezza e stabilità, si basano sempre più su modelli egoistici ed effimeri.

Le ricadute molto pesanti sul mercato del lavoro, sebbene siano stati erogati gli ammortizzatori sociali implementati dal Governo (che purtroppo hanno generato, a causa del mancato controllo, anche situazioni di frode), si sono concretizzate in una diminuzione delle ore lavorate e del numero degli occupati; la perdita si è concentrata soprattutto tra i lavoratori autonomi e tra quelli con contratto a termine, con una particolare penalizzazione di giovani e donne. Ciò ha prodotto una compressione del livello dei consumi, nonostante la politica fortemente espansiva da parte dello Stato, che ha portato con sé anche una crescita della povertà assoluta in Italia.

Nel termine di povertà assoluta si fanno rientrare le famiglie con una spesa mensile pari o inferiore al valore della soglia di povertà assoluta, cioè quella legata alle necessità fisiologiche di base e si ricollega quindi al concetto di mancanza di beni e servizi primari, a prescindere dal livello socio economico del contesto in cui le famiglie stesse vivono. I dati ISTAT ci dicono che nel 2020, si contano oltre 2 milioni di famiglie in povertà assoluta, con un’incidenza che passa dal 6,4% nel 2019 al 7,7% ne 2020, concentrate numericamente più nel nord che nel centro e nel mezzogiorno; tuttavia molte famiglie, pur scivolando nell’area della povertà assoluta, hanno comunque mantenuto una spesa per consumi prossima ad essa, grazie alle misure pubbliche di sostegno. La povertà assoluta è sostanzialmente cresciuta per  le famiglie con una persona di riferimento produttrice di reddito in età lavorativa, mentre nelle famiglie con la persona di riferimento percettrice di reddito da pensione l’incidenza è stata notevolmente minore, essendo i redditi da pensione garantiti e protetti molto più dei redditi da lavoro. A ciò si aggiunga la già ricordata discutibile misura di escludere dal lavoro, anche part time, i soggetti non vaccinati che ha contribuito ad innalzare tale indicatore e ha indotto i soggetti a situazioni di sottoccupazione e di lavoro sommerso. Inoltre la povertà assoluta è salita molto di più nei nuclei composti da stranieri e nei nuclei più numerosi ed è cresciuta per tutte le classi di età; tuttavia c’è da sottolineare che sono oltre 1 milione i minori in povertà assoluta.

Complessivamente si è assistito soprattutto ad un elevato disagio economico che, esaminando le variabili e considerando gli aiuti ed i sostegni erogati, non è tanto da imputare a condizioni economiche degradate, quanto piuttosto al senso si incertezza legato alla consapevolezza del carattere temporaneo dei sostegni, oltre che al permanere di rischi sui tempi ed i modi con i quali è stata affrontata l’emergenza sanitaria. Il tutto amplificato dai media che, se da un lato hanno contribuito fortemente ad allineare le persone a favore delle misure sanitarie decise dal Governo, dall’altro hanno aumentato la psicosi sulla mancanza di cure adeguate, ed hanno giocato sulla pressante informazione negativa senza fare distinzioni chiarificatrici di tipo statistico sanitario circa, ad esempio, le incidenze dei morti da COVID19 rispetto ai soggetti malati. Inoltre ha pesato psicologicamente il venire meno di elementi di benessere e di svago impraticabili durante la pandemia.

Altri fattori che sono emersi nell’analisi dell’aumento della povertà hanno riguardato l’età ed il titolo di studio: la fascia di età lavorativa più avanzata ed il titolo di studio più elevato hanno prodotto un effetto barriera protettivo nei confronti della crisi. Indubbiamente un altro elemento fortemente determinante è stato anche il settore economico di attività in quanto i lavoratori più penalizzati sono stati quelli legati al commercio, all’agricoltura ed all’industria, tutti settori dove più forte si è sentito il peso della sospensione e della discontinuità dell’attività.

Considerando tutti i fattori si può sinteticamente affermare che nel 2020 i problemi di povertà derivanti dalla crisi pandemica hanno inciso sul Mezzogiorno in modo rilevante, andandosi ad aggiungere e problemi socio-economici già presenti in questa area (il 20,7% della popolazione ha avuto difficoltà economiche); i disagiati hanno raggiunto la quota del 9,5% nel Centro Italia, mentre il Nord ha registrato una percentuale di aumento della povertà del 12%. Per le stesse aree nell’anno 2019 il disagio era rappresentato dalle seguenti percentuali: 11,8%, 5% e 4,8% risultando così che il peggioramento al Nord è stato relativamente più ampio rispetto alle altre due zone d’Italia in una sorta di convergenza verso il basso.

Nel 2021 non ci sono state notevoli differenze, le famiglie in povertà assoluta sono poco più di 1,9 milioni su un totale di persone indigenti di circa 5,6 milioni, di cui 1,4 milioni sono minorenni. Bisogna sottolineare tuttavia che a fronte di un miglioramento sanitario e di una lenta ripresa produttiva si è assistito ad un peggioramento di natura economica, dovuto all’aumento dell’inflazione che ha eroso il reddito reale delle famiglie. Differenze si colgono anche nel fatto che il Nord migliora la sua posizione rispetto alla povertà, mentre il Sud scivola sempre più verso il basso; è inoltre in ripresa la spesa per consumi delle famiglie.

I dati per il 2022 non sono ancora disponibili essendo stati modificati i criteri di stima, per cui l’ISTAT farà conoscere le rilevazioni nel prossimo mese di ottobre

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15 Settembre 2023

CI SONO TUTELE NEI CONFRONTI DELL’INTELLIGENZA ARTIFICIALE USATA COME STRUMENTO DI RECLUTAMENTO DEL PERSONALE? di Alessandra Di Giovambattista

CI SONO TUTELE NEI CONFRONTI DELL’INTELLIGENZA ARTIFICIALE USATA COME STRUMENTO DI RECLUTAMENTO DEL PERSONALE?
di Alessandra Di Giovambattista

31-10-2023

Ormai non si fa altro che sentir parlare di intelligenza artificiale (IA). Ma di fronte a quale rivoluzione ci troviamo? È la rivoluzione del nuovo secolo, o meglio del nuovo millennio; per intelligenza artificiale ci si riferisce alle capacità che possono avere delle macchine appositamente progettate per emulare, in modo comunque limitato, alcune delle capacità umane quali il ragionamento, l’apprendimento e la pianificazione. Essa permette di relazionare la macchina con l’ambiente esterno, cercando di risolvere problemi o di raggiungere un preordinato scopo. L’intelligenza artificiale gestisce in autonomia nozioni precedentemente acquisite e immesse dall’uomo, così da elaborare risposte e pseudo ragionamenti.
A differenza di quanto si possa credere si parla di intelligenza artificiale da più di 50 anni; ma è solo con l’incremento della potenza dei computer, che riescono ad elaborare grandi quantità di dati, e l’evolversi della costruzione e dell’analisi degli algoritmi che l’intelligenza artificiale ha compiuto enormi passi in avanti. Tanto che anche l’Unione Europea si è posta il problema della necessità della trasformazione digitale delle società. Volendo fare degli esempi molto limitati notiamo che l’intelligenza artificiale è alla base: delle analisi online che utilizzano motori di ricerca che sfruttano la massa di informazioni e dati forniti dagli utenti; dei software utilizzati per organizzare i rifornimenti di magazzino dei beni e predisporre gli inventari delle aziende; degli assistenti virtuali programmati per rispondere a determinate domande; dei programmi di traduzione automatica, di lettura, di scrittura e di riproduzione dei sottotitoli dei programmi video; dei software che assicurano alcune funzioni di sicurezza delle autovetture come ad esempio i sensori Vi-Das che individuano eventi pericolosi e possibili situazioni di incidenti; dei navigatori stradali per la determinazione dei percorsi più efficienti.
Tra le mille possibilità di utilizzo dell’intelligenza artificiale troviamo anche la funzione c.d. di recruitment, ossia di scelta ed ingaggio di lavoratori di aziende pubbliche o private che, nel brevissimo futuro, sembra dover prendere il posto delle tradizionali tecniche di reclutamento. Infatti oltre ai citati settori di applicazione dei sistemi di algoritmi, che tuttavia rappresentano davvero una minima parte degli utilizzi che oggi si possono fare delle tecnologie basate sull’IA, si assiste ad un loro utilizzo anche nell’ambito della selezione del personale, della sua assegnazione ad incarichi e funzioni, della valutazione dei risultati finalizzata anche al riconoscimento di promozioni e premi aziendali. Naturalmente il successo nell’uso degli algoritmi si basa sulle modalità con cui essi sono costruiti e sulla tipologia e quantità di informazioni in essi introdotti.
In via generale si sottolineano alcuni aspetti positivi riconducibili all’uso dell’intelligenza artificiale che consente di diminuire le risorse (in termini di tempo e di denaro) per l’attività di valutazione dei candidati, arrivando a scegliere i migliori. In particolare: gli algoritmi possono valutare grandi quantità di curriculum ordinandoli per esperienza e capacità tecniche, inoltrando ai candidati scelti dei messaggi personalizzati per il proseguimento dell’attività di ingaggio; l’intelligenza artificiale può essere programmata per ridurre i tempi di risposta ai candidati e la mole di lavoro a carico dei soggetti preposti all’attività di reclutamento; il colloquio con i candidati può essere gestito con rapidità e con uno sguardo verso altre qualifiche più confacenti alle caratteristiche ed alle capacità dei candidati stessi; l’intelligenza artificiale può archiviare e catalogare quantità ingenti di curriculum e rielaborarli anche per futuri nuovi contatti e finalizzarli per la selezione di candidati che meglio si prestino alla copertura di posizioni aperte anche utilizzando interviste virtuali che sono impostate sull’analisi delle espressioni facciali, del tono della voce, della gestualità e del lessico utilizzato dai soggetti; utilizzando gli algoritmi si può inviare tutta la documentazione burocratica necessaria per l’assunzione e si possono fornire tutte le informazioni iniziali per il primo impiego.
Tuttavia l’IA non presenta solo vantaggi, occorre infatti soffermarsi su quelli che potrebbero essere i problemi del prossimo futuro. Indubbiamente la criticità più sentita riguarda la reale possibilità che l’IA possa soppiantare alcune delle attività lavorative che oggi comportano mansioni ripetitive, dove non viene pertanto richiesta capacità di analisi, atteggiamento critico e creatività. In via generale occorre sottolineare che i criteri che impostano i software utilizzati dall’IA devono essere compatibili con la normativa giuridica vigente in un determinato paese; particolare attenzione va anche posta alla normativa antidiscriminatoria. Infatti poiché l’intelligenza artificiale si basa su dati storici può accadere che i risultati dell’analisi di ricerca ed assunzione del personale, anche se involontariamente, vengano influenzati negativamente da situazioni passate in cui la scelta dei lavoratori si basava su pregiudizi che davano luogo a scelte discriminatorie (in particolare alle preferenze di genere che hanno sempre penalizzato il lavoro femminile). Inoltre si pensi alla difficoltà di riconoscimento che potrebbero avere le nuove tipologie di approccio al lavoro, utilizzate dalle giovani future leve, da parte dell’IA che potrebbe non riconoscerle solo perché non presenti nel data base. Così come alcune fasce di potenziali lavoratori, ad esempio provenienti da contesti differenti o di etnia o fede religiosa non presenti in un dato mercato del lavoro, non potrebbero accedere al reclutamento del personale perché l’algoritmo, essendo stato caricato con dati passati, non può tener conto di modifiche del mondo del lavoro, se non con tempi più lenti rispetto alla realtà. Ciò implicherebbe delle ricadute negative, che potrebbero ampliare la già presente forbice di disuguaglianza sociale; ad esempio si è riscontrato che un software di scelta di personale, basato sul codice postale per individuare la residenza dei candidati, poteva escludere determinati soggetti perché abitanti in zone di periferia e marginali, fino ad incrociare in alcuni casi la problematica dell’etnia dei candidati e produrre quindi scelte discriminatorie. Ma si è visto anche come i giudizi sui social network, come ad esempio i “mi piace” (c.d. like), potevano, mediante incroci dei dati utilizzati, penalizzare i candidati in ragione del credo religioso, dell’etnia, dell’orientamento sessuale, dell’appartenenza politica, nonché della propria situazione sanitaria. In altri casi si è visto che l’algoritmo assegnava premi di produttività in misura prevalente a lavoratori maschi, appartenenti ad una certa fascia di età, ben lontano quindi dal riconoscere il merito in ragione dell’effettivo ritorno in termini di efficienza ed efficacia dell’attività prestata.
In via generale la più forte critica che si può sollevare riguarda il fatto che un algoritmo si basa su dati esclusivamente quantitativi, non potendo fare scelte in ragione dell’aspetto qualitativo del lavoro da valutare. Così come non saprebbe considerare situazioni innovative di prodotto o di processo perché ad esso sconosciute.
Aspetti che inoltre andrebbero chiariti riguardano come può un lavoratore sapere se la sua assunzione o il suo diniego siano da imputare ad una scelta fatta attraverso un algoritmo, e come può il lavoratore stesso verificare se tale scelta sia stata legittimamente presa in rispetto alle normative vigenti in materia di lavoro e di tutela dei diritti. Un primo strumento che potrebbe aiutare in tali fattispecie si individua nell’articolo 2 del decreto legislativo 216 del 2003; in esso si indica che per escludere qualsiasi forma di discriminazione occorre garantire il principio di parità, il quale comporta che non sia praticata alcuna discriminazione diretta o indiretta. Solo nei casi in cui i lavoratori reclutati mediante delle piattaforme online fossero riconosciuti come lavoratori dipendenti sarebbe sufficiente fornire elementi di fatto dai quali si possa presumere l’esistenza di atteggiamenti e comportamenti discriminatori; solo in tal caso infatti spetterebbe al datore di lavoro dimostrare che l’algoritmo utilizzato per la scelta dei lavoratori non presenti caratteristiche discriminatorie.
Già nel 2020 il libro bianco della Commissione europea in materia di intelligenza artificiale ha sottolineato, a fianco alle potenzialità, i possibili rischi che la pongono come un sistema di decisioni e scelte che nel futuro prossimo potrebbero non tutelare a dovere gli esseri umani. Occorre porre un argine sulla possibilità che i lavoratori siano soggetti esclusivamente ad azioni e decisioni elaborate da sistemi di intelligenza artificiale; questi tutt’al più possono essere concepiti come strumenti di supporto, ma non di sostituzione, alle scelte umane. Ad esempio si è visto che alcuni programmi di intelligenza artificiale per il riconoscimento facciale facciano più fatica ad identificare le donne di colore, rispetto a quelle di carnagione chiara, con ciò evidenziando delle distorsioni legate sia al genere sia alla razza. Di fatto mancano, ad oggi, delle norme che disciplinino la trasparenza e la conoscenza della tipologia degli algoritmi usati nella funzione di ricerca e reclutamento dei lavoratori. La situazione più paradossale che si potrebbe avere si riscontra nella possibilità che l’algoritmo vada a pescare, anche all’insaputa del suo creatore, nella miriade di dati su cui si poggiano le sue conoscenze ed inizi a fare connessioni logiche inaspettate e non programmate per le finalità iniziali, creando così, situazioni discriminatorie e anche illegittime in termini di scelte dei lavoratori.
Sempre sul tema si evidenzia che alcuni programmi utilizzati negli USA per valutare e scegliere il personale lavorativo si basano su video interviste online oppure su sfide basate su giochi elettronici. E’ evidente che tali processi di scelta vanno a penalizzare i lavoratori più anziani meno rapidi di giocatori giovani ed esperti! Tale aspetto induce a ritenere come sia distorto il principio per cui tutta la battaglia si giocherà esclusivamente sulla rapidità delle scelte e delle decisioni e non già sulle capacità, saggezza ed esperienza dei lavoratori. Ciò comporta un’ipotesi di futuro dove la rapidità la farà da padrona, dove l’uomo non potrà più valutare criticamente le proprie azioni ed i lavori assegnatigli; ma più in generale, anche le modalità di vita ne saranno influenzate, assisteremo a scelte e ad attività che produrranno sempre più freddezza ed automatismo e che scalzeranno l’approccio umano basato sull’attenzione ai rapporti interpersonali. La suddetta situazione ha quindi dato luogo a cause legali fondate sui risultati distorti derivanti dai processi di reclutamento mediante intelligenza artificiale, che implicano spesso anche un atteggiamento discriminatorio nei confronti del sesso femminile e delle minoranze. In particolare alcune società hanno abbandonato dei modelli di intelligenza artificiale per il reclutamento del personale perché questi software sceglievano candidati maschi rispetto a quelli femmine in quanto la serie storica dei dati sull’occupazione si basava, giocoforza, su numeri quasi tutti al maschile.
In conclusione diamo uno sguardo a come negli Stati Uniti ed in particolare nella città di New York una legge locale (la n. 1894-A) abbia dato delle direttive ai datori di lavoro che usano l’intelligenza artificiale per l’attività c.d. di recruitment. In particolare la legge ha cercato di tutelare i lavoratori da possibili discriminazioni attuabili in sede di procedimenti di reclutamento e di assegnazione di premi di produttività, nel caso siano utilizzati strumenti di decisione automatizzati. In modo sintetico si vogliono sottolineare alcuni aspetti: in particolare è previsto che sia illegale per un datore di lavoro o un’agenzia per l’impiego l’uso di strumenti informatici per le decisioni di assunzione di personale a meno che tale strumento non sia stato sottoposto ad apposita procedura di controllo attuata almeno un anno prima dal suo utilizzo. In più in caso di utilizzo di intelligenze artificiali il datore di lavoro dovrà mettere al corrente il candidato, almeno dieci giorni prima della selezione, che sarà utilizzato uno strumento automatico per la scelta del soggetto più idoneo; viene così permesso al futuro lavoratore di richiedere un procedimento di scelta alternativo. Infine la fonte dei dati su cui viene effettuata la selezione e la conservazione degli stessi devono essere sempre disponibili su semplice richiesta scritta da parte dell’aspirante lavoratore. È la prima volta che i datori di lavoro statunitensi saranno chiamati a rispettare una legge che cerchi di arginare le discriminazioni da parte di strumenti di assunzione e promozione basati su intelligenze artificiali; tuttavia tali leggi sono in crescita in quanto altri Stati degli USA stanno elaborando norme simili o comunque stanno adottando modalità per arginare il problema delle discriminazioni derivanti da processi decisionali automatizzati.
Pertanto proviamo a riflettere su come potrebbe una macchina sostituire una percezione umana basata sul rapporto interpersonale, sia nel bene sia nel male, ma pur sempre fondata su un’alchimia che può nascere solo da una relazione diretta tra datori di lavoro e lavoratori. Sembrerebbe piuttosto che tali tecniche automatizzate abbiano a cuore solo il risparmio del tempo in una società che ormai va a ritmi molto elevati, anche troppo, e che non presta più attenzione alle caratteristiche di ognuno di noi, unici e irripetibili, facendoci ripensare alla saggezza del proverbio per cui chi va piano va sano e va lontano….

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31 Ottobre 2023

IL LIVELLO DI POVERTÀ DOPO LA PANDEMIA DA COVID-19 di Alessandra Di Giovambattista

IL LIVELLO DI POVERTÀ DOPO LA PANDEMIA DA COVID-19

di Alessandra Di Giovambattista

 12-09-2023 

Prima dell’avvento della pandemia causata dalla malattia Covid - 19, di cui ancora si sa molto poco, l’economia mondiale nel biennio 2017-2018 era cresciuta - utilizzando come riferimento il valore del prodotto interno lordo (PIL) - in media del +3% annuo, con punte che in Cina hanno superato il +5%, e negli USA il +2,3%. Successivamente alla crisi sanitaria, utilizzando i dati diramati dal Fondo Monetario Internazionale (FMI) il 26 gennaio 2021, la contrazione del PIL nell’anno 2020 si è attestata intorno al - 3,5%. E’ sicuramente uno degli eventi che più hanno scosso il mondo dal punto di vista sociale, sanitario ed economico negli ultimi 40 anni, e le conseguenze le risentiremo ancora per diverso tempo, specialmente dal punto di vista umano e psicologico e si presenteranno in maniera eterogenea a seconda delle situazioni e della solidità economico/sociale antecedenti la pandemia e le modalità di contrasto implementate. L’impatto negativo della recessione del 2020 ha interessato quasi tutti gli Stati del mondo, lasciando solo la Cina con una crescita dimezzata, ma con il segno comunque positivo (+2,3%).

Tra gli effetti del periodo post Covid - 19 si è riscontrato anche un aumento della tendenza sperequativa della distribuzione della ricchezza; infatti le 500 persone più ricche al mondo, secondo l’indice Bloomberg Billioners, hanno incrementato i propri patrimoni del 31% in più rispetto al 2019, facendo arrivare le proprie ricchezze ad un valore di 7.600 miliardi di dollari (pari ad una volta e mezzo il PIL del Giappone); in particolare quattro dei cinque personaggi più facoltosi al mondo sono statunitensi e sono proprietari delle principali aziende tecnologiche, mentre il quinto  è europeo ed è nel campo dei prodotti del lusso (moda e prodotti enologici). Nell’ordine si trovano: Elon R. Musk (marchio Tesla), Jeff Bezos (marchio Amazon), Bill Gates (marchio Microsoft), Bernard Arnault (marchi Luis Vuitton e Moët Hennessy), infine Mark Zuckerberg (marchio Facebook). Si è evidenziato che il tasso di crescita del loro patrimonio è il più elevato degli ultimi 8 anni, cioè da quando è stato costruito l’indice suddetto.

Nel senso opposto la Banca Mondiale nel suo monitoraggio della povertà globale ha rilevato che la popolazione in condizioni di estrema povertà è diminuita in modo continuativo, ed ha subito una consistente riduzione negli ultimi decenni passando dal 60,1% del 1970, al 9,2% del 2017. Tuttavia la crisi pandemica ha interrotto questo trend migliorativo innescando un’inversione di tendenza; infatti gli effetti del post COVID19 si sono sentiti specialmente sulle fasce più povere e deboli della popolazione ed hanno colpito le nazioni più vulnerabili, con ciò aumentando il rischio di incremento delle disuguaglianze. Dopo vent’anni la riduzione del numero di persone in povertà estrema si è arrestata e tra le possibili indicazioni volte ad aiutare le economie più fragili vi è il sostegno finanziario internazionale ed il progresso delle campagne di vaccinazione finalizzati alla creazione dei presupposti per uscire dalla crisi, ridurre l’incertezza economica e tornare alla crescita. Prima della COVID19 l’unico aumento della povertà era stato indotto dalla crisi finanziaria asiatica di fine millennio che aveva incrementato la povertà di 18 milioni di persone nel 1997 e di altri 47 milioni nel 1998; successivamente, dal 1999 al 2019 il numero di persone che vivevano in estrema povertà nel mondo è diminuito, sempre secondo le statistiche della Banca Mondiale, di oltre 1 miliardo di persone, con una media di circa 50 milioni l’anno. Pertanto la Banca Mondiale sottolinea che parte del successo nella lotta alla povertà raggiunto negli ultimi decenni, potrebbe essere del tutto annullato dagli effetti della pandemia da COVID19, anche perché gli effetti negativi si trascineranno anche negli anni successivi al 2020, nonostante la ripresa economica che, a onor del vero, non ha rispettato le percentuali attese e sperate. Il timore è che, se da un lato, l’economia lentamente inizierà a riprendere la crescita, dall’altro il numero di poveri continuerà ad aumentare, a testimonianza del carattere non inclusivo e strettamente egoistico delle dinamiche che governano l’economia globalizzata, fortemente neoliberiste. Oltre agli strascichi derivanti dalla pandemia ci si attende un incremento della soglia di povertà anche per effetto dei cambiamenti climatici e dagli effetti derivanti dai conflitti presenti in diverse aree del mondo (essenzialmente medio Oriente e Nord Africa). Molti dei nuovi poveri sono poi concentrati in contesti urbani dove è presente un accentuato accentramento, come le bidonville e le favelas e sono sottooccupati, non regolarmente denunciati agli organi preposti al controllo ed alla regolamentazione del lavoro, e spesso assoldati dalla malavita e pertanto non raggiungibili dagli ammortizzatori sociali esistenti.

In termini di zone geografiche più interessate dall’aumento della povertà si trovano i paesi già caratterizzati da una elevata quota di poveri, tuttavia il fenomeno dell’incremento, nel corso del 2020, ha interessato anche una parte dei paesi a reddito intermedio, nei quali, una percentuale di popolazione è scesa al di sotto della soglia di povertà estrema. Tale fenomeno è stato letto con attenzione e si è osservato che gli effetti della crisi economico-sociale, hanno inciso maggiormente nei paesi in fase di sviluppo (America Latina con il -7,2%, India con il -8%, ASEAN-5, cioè: Indonesia, Thailandia, Malesia, Filippine e Vietnam con il -3,7%) e più integrati nel sistema economico globale, rispetto a quelli meno sviluppati, ancorati ancora a sistemi e modelli economici più localizzati e tradizionali (si pensi ai paesi dell’Africa sub-Sahariana con economia basata su agricoltura familiare di sussistenza che hanno fatto registrare un -2,6%). Ciò potrebbe spiegarsi, a modesto parere, considerando che laddove l’economia globalizzata può avere il potere di catalizzare e far crescere tutti i paesi in essa integrati, anche se a ritmi differenti, essa ha anche il potere di trascinare più rapidamente gli stessi paesi verso la crisi economica, finendo per amplificare le fluttuazioni e le distorsioni del mercato a causa dell’attuale modello di capitalismo estremo che vede i sistemi economici legati in modo esasperato ed esclusivo all’aspetto finanziario. Questa caratteristica conferisce un maggior grado di incertezza circa i modi ed i tempi in cui le economie più fragili riusciranno ad uscire dalla crisi e ad invertire il trend di crescita della povertà. Quindi una delle conclusioni dell’osservazione porta ad affermare che la crisi economica dovuta alla pandemia ha colpito maggiormente i Paesi integrati e interconnessi nel sistema economico globalizzato, in particolare quelli dell’Asia meridionale e del Sud est asiatico, in via di sviluppo e a reddito intermedio, laddove per i paesi a reddito elevato la percentuale di crescita dei poveri scivolati sotto la soglia di povertà è oscillata dallo 0,6%, all’1,3% (sempre secondo le stime della Banca Mondiale).

Se è ormai consolidato che la crisi post pandemica da COVID-19 ha fatto crescere il tasso di povertà, tuttavia c’è anche da evidenziare che la stessa Banca Mondiale aveva già rilevato un rallentamento del trend di riduzione dello  stesso indicatore di povertà anche prima della pandemia. Questo ci induce a ritenere verosimile che in tutte le economie sia presente comunque una percentuale fisiologica di soggetti in povertà, così come nelle stesse società è presente un tasso fisiologico di disoccupazione (tasso naturale di disoccupazione) ed un tasso di inflazione (al di sotto del quale non sarebbe mai bene scendere, che si attesta al 2%, secondo stime della Bce).

Il Fondo monetario internazionale, in un report del 29 ottobre del 2020, ha invece posto in risalto come l’impatto della crisi economica derivante dalla pandemia abbia aggravato la dinamica delle disuguaglianze, un trend già in atto da diversi decenni a seguito delle politiche neoliberiste ormai presenti nei paesi più sviluppati. In esso si legge che la crisi da COVID19 colpirà soprattutto i lavoratori più vulnerabili e le donne; nelle aree delle economie potenti e consolidate la disparità della distribuzione del reddito fra le fasce sociali subirà un aumento (di circa il 6%) ma gli effetti peggiori si avranno nei paesi a più basso reddito, cioè quelli meno sviluppati.

Un paese solido dal punto di vista economico e sociale, deve presentare un grado di inclusione sociale e di benessere che tenga conto della riduzione della povertà e delle disuguaglianze di reddito; l’obiettivo è quello che viene stimato con l’indicatore della prosperità condivisa che, dopo la pandemia, ha visto ridurre il suo livello. Le motivazioni di tale trend negativo risiedono, a modesto avviso, nel grado di incertezza e di paura generato dalla crisi sanitaria che ha implicato anche un aggravamento del sentimento di egoismo e di attenzione al proprio esclusivo particolare, allontanandosi così da uno schema di benessere condiviso e di altruismo. L’attenzione verso il più debole ed il più fragile, oltre a rappresentare uno dei principi cardine di un sentire religioso e morale, di fatto dovrebbe essere percepita anche come obiettivo razionale che dovrebbe interessare tutta la collettività; perché quando si è in situazioni di difficoltà e di incertezza chiudersi in ambiti egoistici, dove non si è portati a collaborare e ad aiutare, non può che incrementare il rischio che ognuno di noi possa scivolare, da un momento all’altro e nella più completa solitudine e disinteresse, nella profondità della soglia di povertà estrema e di indigenza. Ulteriore riflesso socio politico derivante dal principio individualistico ed egoistico è l’affievolimento ed il depotenziamento dei principi su cui si basa il sistema politico democratico. Tutto questo potrebbe tradursi in instabilità sociale che non potrà far altro che incrementare il rischio di povertà economica, umana e spirituale, e la paura, in una sorta di spirale verso il basso, fino a degenerare e ad aprire le porte verso forme di totalitarismo e di schiavitù.

Una visione solidaristica, che però purtroppo confligge con lo schema attuale dove si preferisce un modello di governo economico oligarchico ed un modello politico monocratico, potrebbe portare all’inclusione ed alla condivisione della ricchezza ed al benessere della maggior parte delle persone. Con molta umiltà forse bisognerebbe riconoscere che ognuno ha diritto al suo, che ognuno ha un posto nell’ambiente in cui vive e che forse molti dovrebbero smettere di comportarsi come super potenti con diritto di vita e di morte sulla maggior parte della popolazione mondiale e sull’ambiente visto solo come una riserva di beni produttivi da sfruttare, oggi e subito, e non anche da condividere, specialmente con le generazioni future. 

 

 

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12 Settembre 2023

LE POLITICHE FINANZIARIE DI CONTRASTO DEL COVID19 di Alessandra Di Giovambattista

LE POLITICHE FINANZIARIE DI CONTRASTO DEL COVID19
di Alessandra Di Giovambattista

21-09-2023

 

Per contenere i danni derivanti dalla pandemia da COVID19, il Governo ha varato delle disposizioni con la finalità di sostenere la liquidità delle imprese ed i redditi delle famiglie ed assicurare l’accesso al credito prestando delle garanzie pubbliche. I termini per gli adempimenti fiscali sono stati fatti slittare così come anche i pagamenti di natura contributiva e fiscale. La spesa pubblica è pertanto aumentata da un lato per la proroga dei pagamenti tributari e contributivi (versante delle entrate), dall’altro per garantire in ambito sanitario una risposta efficace alla crisi da COVID19 e per sostenere famiglie ed imprese nelle proprie attività (versante delle spese e dei trasferimenti).
Sostegni ed aiuti provengono al nostro Paese anche da parte dell’Unione europea (UE) e delle banche centrali; in particolare si sottolineano le misure fortemente espansive della Banca centrale europea (BCE) e dell’Autorità europea di vigilanza delle banche (EBA) per sostenere la liquidità del sistema bancario e permettere agli istituti di credito di finanziare adeguatamente le attività produttive e le famiglie. Fin dall’inizio della pandemia l’Europa ha varato provvedimenti volti a contrastare la crisi economica; immediatamente si è reso meno rigido il meccanismo del vincolo di bilancio pubblico, conferendogli più flessibilità in termini di saldo, e si sono resi meno stringenti i limiti degli aiuti di Stato.
Poi tra le prime misure vi è stata l’autorizzazione di un pacchetto di aiuti di un valore di 540 miliardi di euro a favore dell’occupazione, dei lavoratori, delle imprese e degli Stati membri dell’UE. La ripresa ha richiesto sforzi congiunti da parte di tutti i Paesi membri; così è stato concordato, il 21 luglio 2020, un pacchetto di finanziamenti che riguarda per 1.074 mld di euro il bilancio UE a lungo termine (2021 – 2027) e per 750 mld di euro gli obiettivi da raggiungere con i finanziamenti definiti con NextGenerationEU (NGEU). Queste due misure costituiscono insieme lo strumento principale in risposta all’emergenza sanitaria da COVID19 per un ammontare complessivo di 1.824 mld di euro che a prezzi correnti corrispondono a più di 2.300 mld di euro.
Il bilancio a lungo termine della UE (dal 2021 al 2027) rappresenta la base di tutti i programmi pensati per superare la crisi e creare posti di lavoro nell’ottica di un’economia sostenibile per le future generazioni; il bilancio di lungo termine traccia una strada ai Governi per far sì che tutti i Paesi cerchino di raggiungere i medesimi obiettivi che comprendono anche la transizione verde (green deal europeo) ed il passaggio all’era digitale (futuro digitale europeo). Il tutto finalizzato affinché gli Stati diventino più sostenibili dal punto di vista ambientale e resilienti ai futuri shock economico/finanziari/sociali.
Con lo strumento di ripresa NGUE l’Unione Europea intende affrontare la pandemia da COVID19 mediante la sottoscrizione di prestiti fino ad un importo massimo di 750 mld di euro; tali risorse saranno utilizzate solo per far fronte alle conseguenze della crisi attraverso gli obiettivi del NGUE ed il termine finale per il rimborso dei prestiti è fissato al 31 dicembre 2058. Gli importi del programma sono erogati in ragione di sette sottoprogrammi che saranno finanziati sotto forma di prestiti o sovvenzioni: - dispositivo per la ripresa e resilienza (672,5 mld di euro), - REACT-UE (47,5 mld di euro), - orizzonte Europa (5 mld di euro), - InvestEU (5,6 mld di euro), - sviluppo rurale (7,5 mld di euro), - fondo per la transizione giusta (10 mld di euro), - rescEU (1,9 mld di euro).
Nel corso del 2021 e del 2022 gli Stati aderenti all’Unione Europea sono stati chiamati a presentare dei piani nazionali per la Ripresa e la Resilienza (PNRR), che rappresentano i programmi a cui sono state destinate la maggior parte delle risorse del NGEU (672,5 mld di euro) di cui prestiti per 360 mld di euro e sovvenzioni per 312,5 mld di euro. La differenza tra prestiti e sovvenzioni riguarda il fatto che i primi andranno restituiti (l’orizzonte è stato fissato alla fine del 2058), mentre le seconde sono erogazioni a fondo perduto e pertanto non richiedono forme di restituzione. Le sovvenzioni sono state impegnate negli anni 2021 e 2022 per una quota del 70% e sono state distribuite in base ai seguenti criteri: Disoccupazione nel periodo 2015-2019; Inverso del PIL pro capite; quota di popolazione presente sul territorio.
Il restante 30% sarà impegnato entro la fine del 2023 in base ai seguenti criteri: calo del PIL reale nel 2020; diminuzione del PIL reale nel periodo 2020-2021; inverso del PIL pro capite; percentuale di popolazione rispetto ai territori.
Gli Stati membri per ottenere le risorse sono chiamati a presentare dei programmi di investimento in sei settori specifici: - transizione verde, - trasformazione digitale, - occupazione e crescita intelligente, sostenibile ed inclusiva, - coesione sociale e territoriale, - salute e resilienza, - politiche per la prossima generazione, comprese istruzione e competenze didattico/professionali.
I piani presentati sono sottoposti ad una Commissione che decide in base ad una serie di criteri tra i quali: l’attinenza del piano alle raccomandazioni indicate per i diversi Paesi nel semestre europeo, la capacità di rafforzamento del potenziale di crescita, della creazione di posti di lavoro e della resistenza sociale ed economica dei diversi Stati membri, l’effettiva destinazione di parte delle risorse (almeno il 37% del bilancio) allo scopo di raggiungere gli obiettivi di transizione verde e digitale. La valutazione dei piani viene approvata dal Consiglio europeo a maggioranza qualificata su proposta della Commissione e i pagamenti sono autorizzati in ragione del conseguimento di determinati indicatori di obiettivo intermedi e finali.
Il 13 luglio 2021 il Consiglio europeo ha dato il via libera ai primi 12 paesi dell’Unione che hanno presentato i piani di utilizzo delle risorse stanziate per i vari PNRR, così individuati: Austria, Belgio, Danimarca, Francia, Germania, Grecia, Italia, Lettonia, Lussemburgo, Portogallo, Slovacchia e Spagna. Il 28 luglio del 2021 si sono aggiunti altri quattro Paesi: Cipro, Croazia, Lituania e Slovenia a cui sono seguiti, l’8 settembre dello stesso anno le nazioni di Cechia e Irlanda. Successivamente il 5 ottobre si è aggiunta anche Malta ed il 29 ottobre 2021 l’Estonia, la Finlandia e la Romania. Nell’anno successivo, il 2022, e precisamente il 3 maggio sono stati autorizzati i PNRR di Bulgaria e Svezia, mentre il 17 giugno è stato dato il via libera per lo Stato della Polonia. Concludono l’Europa dei 27 i Paesi Bassi con autorizzazione data il 4 ottobre e l’Ungheria con il benestare dato il 16 dicembre 2022.
Dopo aver ottenuto la notifica ufficiale delle decisioni del Consiglio che approvano i vari PNRR gli Stati membri possono iniziare a firmare convenzioni bilaterali di sovvenzione e di prestito con la Commissione che prevedono, per i soli piani autorizzati nel 2021, di ricevere un prefinanziamento fino ad una quota del 13% dell’importo totale stanziato per la ripresa e la resilienza. Con la sottoscrizione delle convenzioni si definiranno anche le condizioni e le date entro le quali saranno erogate ulteriori risorse, ma solo dopo che la Commissione avrà verificato il raggiungimento degli obiettivi intermedi e finali posti a condizione dei finanziamenti complessivi dei diversi PNRR presentati dagli Stati membri.
Infine si evidenzia che dopo l’inizio del conflitto tra Russia e Ucraina la Commissione europea ha aggiunto, all’interno dei fondi da destinare ai PNRR dei diversi Stati membri, l’ulteriore obiettivo del piano REPowerEU finalizzato a superare la crisi del mercato dell’energia. Il PNRR contribuirà all’attuazione del programma di trasformazione del sistema energetico della UE che ha come focus l’eliminazione graduale da ogni forma di dipendenza dai combustibili fossili provenienti dalla Russia, finanziando infrastrutture e sostenendo riforme nel settore energetico. Pertanto all’interno dei diversi PNRR presentati dagli Stati dovranno trovare posto degli obiettivi dedicati al piano REPowerEU i quali, alla stregua del procedimento suddetto, dovranno essere valutati dalla Commissione al fine di consentirne il finanziamento.
Ad oggi la Commissione Europea ha versato all’Italia 24,9 mld di euro il 13 agosto del 2021 sotto forma di prefinanziamento; ha poi pagato la prima rata di 21 miliardi di euro (10 mld di euro in sovvenzioni a fondo perduto e 11mld di euro in prestiti) ad aprile 2022 dopo aver certificato che l’Italia aveva raggiunto le 51 scadenze fissate per la fine del 2021.
La seconda rata è pervenuta l’8 novembre del 2022, in tal caso il versamento di 21 mld di euro è arrivato dopo la certificazione da parte dell’UE del raggiungimento dei 45 obiettivi previsti entro il 30 giugno del 2022.
L’11 settembre del 2023 la Commissione europea ha dato il via libera al pagamento della terza rata del PNRR, per cui ad inizio ottobre dovrebbero arrivare circa 18,5 mld di euro; tale rata prevedeva il raggiungimento di 55 obiettivi entro la fine del 2022, tuttavia alcuni di essi non sono stati raggiunti e sono stati fatti slittare sulla quarta rata (nello specifico il focus verteva sull’ampliamento numerico degli alloggi per studenti).
La quarta rata è attesa per la fine del 2023 e per essa a fine luglio è arrivato il parere favorevole della Commissione per il citato trasferimento degli obiettivi che dovevano raggiungersi per ottenere la terza rata.
In totale le rate sono 10 e sono semestrali; finora le erogazioni complessive sono state pari a 85,4 mld di euro.
Per finanziare gli investimenti necessari al raggiungimento degli obiettivi del PNRR l’Italia ha integrato i finanziamenti con risorse nazionali creando il Fondo Nazionale Complementare per un importo di 30,6 mld di euro per gli anni dal 2021 al 2026. Il Fondo finanzia quindi un Piano nazionale complementare (PNC) che ha modalità di funzionamento analoghe al PNRR: sono individuati interventi e programmi con obiettivi iniziali, intermedi e finali, coerenti con la tempistica e la natura degli obiettivi contenuti nel PNRR.
Si è fatto notare che l’aumento dei costi dei progetti, causato dall’elevato tasso di inflazione e l’adattamento alle nuove norme che progressivamente si adottano, hanno causato una minore spesa delle risorse ricevute dall’UE rispetto al cronoprogramma. Per ora i ritardi di spesa non stanno causando ripercussioni negative sulle erogazioni dei fondi perché di fatto le scadenze hanno riguardato quasi esclusivamente riforme, con l’approvazione di norme specifiche e l’avvio di bandi, pertanto tutte attività prodromiche agli investimenti ed alla reale attività produttiva. Le cose potrebbero cambiare quando si dovranno aprire i nuovi cantieri e dalle parole si passerà alla concretezza dei fatti. Oggi, il problema principale e paradossale, rimane quello di avere la capacità di spendere in tempo tutte le risorse stanziate dagli organismo europei.

 

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21 Settembre 2023

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