Venerdi, 27 Giugno 2025

     

 

 

editore: APN ong - c.f. 97788610588

Presidente: Ing. Maurizio Scarponi 

Presidente onorario: Prof. emerito Gianluigi Rossi 

sede legale Via Ulisse Aldrovandi 16 00195 Roma Italia 

associata UNAR-USPI-CNR 

www.silkstreet.it 

Direttore responsabile: dott.ssa Emanuela Scarponi, giornalista 

registrato presso Tribunale di Roma - settore Stampa

n. 111/2019 del 1 agosto 2019

ufficio stampa: Emanuela lrace, Maria Pia Bovi, Roberto Pablo Esparza, Andrea Menaglia,  Mark Lowe 

www.africanpeoplescientificnews.it   

registrato presso Tribunale di Roma-settore Stampa 202/2015 2 Dicembre 2015 

Direttore Scientifico: Ing. Maurizio Scarponi, iscritto Albo speciale 

ISSN : 2283-5041

www.notiziedventiroma.it   

registrato presso Tribunale di Roma - settore Stampa n.  140/24 ottobre 2019

direttore responsabile:               Emanuele Barrachìa 

 

 

 

         

 

 

 

AFRICANPEOPLE ONG

 

24h PRESS AGENCY AFRICANPEOPLE

 

AFRICANPEOPLE SCIENTIFIC NEWS

 

NOTIZIE D'EVENTI ROMA PRESS

 

Sidebar

Off-Canvas Sidebar

The new Off-Canvas sidebar is designed for multi-purposes. You can now display menu or modules in Off-Canvas sidebar.

  • Home
  • Radio news
  • WebTV
  • Prima pagina
  • AfricanPeople O.N.G.

DALLA CREAZIONE DELLE ZONE ECONOMICHE SPECIALI ALLA ZONA ECONOMICA SPECIALE PER IL MEZZOGIORNO di Alessandra Di Giovambattista

DALLA CREAZIONE DELLE ZONE ECONOMICHE SPECIALI ALLA ZONA ECONOMICA SPECIALE PER IL MEZZOGIORNO

di Alessandra Di Giovambattista

 15-10-2024

Con il decreto legge n. 91 del 20 giugno 2017 sono state istituite in Italia le Zone Economiche Speciali (ZES) con l’obiettivo di dare vigore e produttività a zone meno sviluppate ed in transizione economica presenti nel nostro Paese. Il regolamento di istituzione delle ZES era contenuto nel DPCM del 25 gennaio 2018, mentre successivi provvedimenti hanno modificato l’originaria legislazione. Le aree interessate sono quelle portuali e quelle limitrofe e ad esse collegate situate nelle regioni meridionali, che la programmazione europea del 2014 – 2020 aveva diviso in zone “meno sviluppate”, quelle situate in Basilicata, Calabria, Campania, Puglia e Sicilia e zone “in transizione” quelle localizzate in Abruzzo, Molise e Sardegna. Come vedremo, però, la legislazione è stata modificata per effetto del recente D.L. n. 124 del 2023.

Le realtà legate alle zone economiche speciali sono individuabili in diverse regioni del mondo; in totale sono stimate circa 4.000 aree ZES. Nello specifico sono presenti in Cina, nelle Filippine, nella Corea del Nord, in Russia ed in Europa le ritroviamo in Irlanda, Portogallo e Polonia. Si caratterizzano tutte per l’individuazione di aree dove sono riconosciuti benefici fiscali e semplificazioni amministrative con la finalità di far crescere e sviluppare zone che si presentano più arretrate o con maggiori difficoltà di sviluppo economico.

Sono aree specifiche, individuate all’interno di una nazione, in cui vengono eliminate le barriere commerciali, come ad esempio adempimenti burocratici, dazi, sovraprezzi, al fine di rendere più fluidi gli scambi ed attirare nuovi investimenti. Per sfruttare al meglio le opportunità, infatti, le ZES sono normalmente posizionate in ambiti geograficamente predisposti per gli scambi commerciali come porti e aeroporti, dove è più facile disporre e far entrare in sinergia mano d’opera, materie prime e personale tecnico specializzato per produrre beni e servizi. La ZES diventa così un luogo di produzione altamente qualificata, dove si concentrano i fattori produttivi, specialmente il lavoro, con la finalità di sfruttare al meglio il punto di convergenza tra importazioni di materie prime, semilavorati, componenti e flussi di esportazioni di prodotti e merci verso paesi esteri.

Occorre evidenziare che l’esempio forse più significativo in questo ambito può essere ricondotto all’esperienza cinese dove nei primi anni del 1980, e precisamente a partire dalla politica della “porta aperta” del 1978 portata avanti da Deng Xiaoping (successore di Mao Zedong), fu individuata la città di Shenzhen per implementare queste politiche di benefici e vantaggi che ha portato a successi davvero inaspettati. In Cina, più che di città, occorre parlare di ampie aree metropolitane e l’area di Shenzen si presentava povera con un’economia basata essenzialmente sulla pesca. In circa trent’anni l’area ha visto il passaggio da un’economia primordiale ad un centro di attrazione di numerosi investitori ed oggi è una città fortemente industrializzata e tra le più popolose della Cina (circa 12 milioni di abitanti); in essa si è assistito ad una valorizzazione del territorio che ha anche sviluppato e migliorato la sinergia con le zone limitrofe.

Così il buon successo ottenuto dall’area di Shenzen ha spinto verso queste politiche di incentivazione e di benefici e molti altri Paesi hanno adottato tali misure economico-fiscali che sembrano avere effettivamente un forte appeal per le aziende. Fa riflettere anche il caso di Dubai che rappresenta forse il caso di ZES più famosa al mondo con la creazione del Dubai Financial Centre (DIFC) che rappresenta una zona finanziaria libera, con giurisdizione indipendente in riferimento a diverse problematiche di tipo economico. Parlando di numeri si osserva che il DIFC, attraendo investitori da tutto il mondo, ha raggiunto un numero complessivo di circa 6.000 aziende registrate per la prima volta e nel solo primo semestre del 2024 ha registrato 830 nuove società, con un incremento del 24% rispetto al primo semestre del precedente anno (secondo i dati divulgati dallo stesso DIFC, il 30 luglio 2024). In questo contesto la politica dinamica della ZES è prodromica alla realizzazione di un centro logistico con vocazione al commercio alimentare che alla fine si presenterà come il più grande al mondo; contestualmente è previsto lo sviluppo della rete commerciale nella zona Asio-Pacifico rafforzando così il ruolo di competitor, ma forse sarebbe meglio dire leader, della città di Dubai nella catena di approvvigionamento dei prodotti e servizi che vanno dal fornitore al consumatore finale.

Con uno sguardo all’Europa si possono evidenziare le ZES dell’Irlanda, in particolare quella di Shannon, istituita nel 1959, dove vige un regime doganale speciale e sono garantiti vantaggi fiscali di diverso tipo, e quelle della Polonia, individuate anche con riferimento a specifiche caratteristiche produttive, come per le due aree di Katowice e di Cracovia a vocazione specializzata nell’industria dei trasporti (c.d. automotive).

Con la creazione di tali aggregazioni la politica europea si pone l’obiettivo di aumentare la competitività delle aziende che in esse vi operano, attrarre investimenti da operatori esteri, incrementare le esportazioni, sviluppare la produttività e l’innovazione, e non ultimo rafforzare il mercato del lavoro. Per maggior chiarezza occorre evidenziare che l’organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico (OCSE) individua diverse tipologie di ZES. Nello specifico: le zone di libero scambio (quelle presso porti ed aeroporti che prevedono esenzioni parziali o totali sui dazi dei beni che utilizzano materie prime importate, le lavorano e poi le riesportano), le export precessing zone (agevolano la riesportazione dei soli beni che vengono lavorati all’interno della zona stessa e il cui processo produttivo aggiunge valore al prodotto finito), le zone economiche speciali propriamente dette (si caratterizzano per la molteplicità delle agevolazioni, benefici e semplificazioni riservati alle aziende che in esse operano e che vi stabiliscono la propria sede), le zone speciali industriali (in esse i benefici sono riconosciuti solo ad aziende operanti in specifici settori che in esse si insediano). Le caratteristiche di ognuna di tali aree, che vengono proposte dalle diverse Nazioni, vengono verificate dalla Commissione europea per definirne l’effettiva operatività e la compatibilità con le norme in materia di aiuti di Stato (cioè il riconoscimento di aiuti finanziari a determinate attività o realtà produttive che presentano delle criticità che si vuole siano rimosse per motivi di politica economica e sociale).

Tornando all’Italia vediamo che l’iniziale esperienza di ZES, avviata nel 2017, ha come obiettivo, così come si legge nella relazione presentata al Senato della Repubblica, di fornire misure di sostegno alla nascita ed alla crescita delle imprese nel Sud d’Italia, mediante l’istituzione delle ZES, prevedendo pertanto semplificazioni, benefici e procedure più snelle per agevolare i cittadini e le attività imprenditoriali. Quindi un focus, un’attenzione rilevante, verso forme di incentivazione dell’imprenditoria giovanile e del processo di innovazione attraverso lo sviluppo di condizioni economiche favorevoli, incentivi fiscali e semplificazioni amministrativo-burocratiche per incentivare nuovi insediamenti industriali o far sviluppare quelli già esistenti nel Meridione.

Le ZES sono state individuate territorialmente all’interno dei confini dello Stato italiano, in zone geografiche ben delimitate ed identificabili che comprendono al proprio interno un’area portuale collegata alla rete transeuropea dei trasporti (trans-European transport networks TEN-T) così come individuata dalla normativa europea di riferimento (cioè il regolamento (UE) n. 1315/2013 del Parlamento europeo e del Consiglio, dell’11 dicembre 2013). La leva è basata sull’incremento degli investimenti e sulle attività di sviluppo d’impresa. Le zone assoggettabili a tali agevolazioni possono essere proposte dalle Regioni meno sviluppate ed in transizione, e successivamente istituite con Decreto del Presidente del Consiglio dei Ministri che ne verifica il rispetto delle condizioni indicate dalla normativa europea. Le Regioni oltre a proporre le zone devono anche presentare un piano di sviluppo strategico indicando le caratteristiche delle aree individuate e le potenzialità di sviluppo. Sono ricomprese in questi ambiti anche zone senza porti purché contigue, o in associazione con un’area portuale avente le caratteristiche richieste dalla normativa europea.

Il passaggio successivo al decreto del 2017, e sue seguenti modificazioni, che aveva di fatto istituito 7 ZES (ZES Abruzzo, ZES Calabria, ZES Campani, ZES Ionica interregionale Puglia – Basilicata, ZES Sicilia Orientale, ZES Sicilia occidentale e ZES Sardegna), è stato il recente decreto legge n. 124 del 19 settembre 2023 che dal primo gennaio 2024 ha sostituito le precedenti 7 zone economico speciali con un’unica zona: la Zona economica speciale per il Mezzogiorno. Gli obiettivi che si pongono a base della costituzione della nuova zona unica consentiranno di rendere competitive le aziende operanti nel territorio di definizione della ZES unica meridionale, sia quelle già presenti sia quelle che si costituiranno nel tempo. È prevista l’istituzione della cabina di regia ZES presso la Presidenza del Consiglio dei Ministri che provvederà a coordinare, dirigere, vigilare e verificare le attività svolte all’interno della area delimitata. Gli strumenti informatici a disposizione degli operatori riguarderanno il portale informatico (web) della ZES e lo Sportello Unico Digitale ZES (c.d. S.U.D. ZES) nel quale confluiranno tutti gli sportelli attivati secondo la precedente normativa che aveva individuato le citate 7 zone meridionali.

Indubbiamente la costituzione dell’unica ZES permetterà di far entrare in sinergia tutte le aziende operanti sul territorio in quanto tutte ricomprese nell’area agevolata, senza tenerne fuori alcuna, come sarebbe potuto accadere con la definizione di singole zone. Ci si aspetta che le attività amministrative siano rese davvero snelle, lontano dalle logiche politiche e partitiche, nonché da quelle di tipo malavitoso. Si ricorda che a tale nuova realtà amministrativo-gestionale, rinnovabile per 10 anni quindi fino al 2034, il Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza (il PNRR) ha destinato risorse per 630 milioni di euro per la realizzazione di “Interventi speciali per la coesione territoriale” gestiti dalla Presidenza del Consiglio dei Ministri.

Ovviamente le risorse messe in gioco obbligano a controlli e monitoraggi seri e costanti se non si vuole, anche questa volta, mancare l’incontro futuro con l’innovazione, lo sviluppo ed il progresso delle potenziali attività svolte dagli imprenditori del Sud d’Italia.

Dettagli
Emanuela Scarponi logo
15 Ottobre 2024

LA ZONA ECONOMICA SPECIALE UNICA SUD: CARATTERISTICHE di Alessandra Di Giovambattista

LA ZONA ECONOMICA SPECIALE UNICA SUD: CARATTERISTICHE

di Alessandra Di Giovambattista

26-10-2024 

Dal progetto iniziale, contenuto nell’articolo 4 del decreto-legge n. 91 del 2017 (c.d. decreto Sud), che prevedeva la creazione di diverse zone economiche speciali (ZES) individuate in specifici territori dell’Italia meridionale, si è passati, con il recente decreto-legge n. 124 del 19 settembre 2023, all’individuazione dell’unica macroarea del Meridione dove applicare le disposizioni a favore delle ZES. La zona unica Sud ha sostituito le 8 zone del Mezzogiorno che erano state individuate dal precedente decreto-legge del 2017 e che riguardavano le Regioni: Abruzzo, Molise, Campania, Puglia, Basilicata, Calabria, Sicilia e Sardegna. La loro istituzione era finalizzata ad incentivare investimenti da parte di aziende già operanti o di nuovi investitori, attraverso benefici di tipo fiscale, nonché facilitazioni ed alleggerimenti di procedure burocratico-amministrative (come ad esempio l’autorizzazione unica per l’avvio delle attività produttive), nelle zone portuali e limitrofe ad esse. Per tali interventi il Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza (PNRR) ha destinato risorse per 630 milioni di euro per investimenti in infrastrutture dedicate ai collegamenti con le reti trans-europee di trasporto (TEN-T) e 1,2 miliardi di euro per interventi da destinare a favore dei principali porti del Meridione.  Tuttavia l’avvio di tali nuovi incentivi legati solo a determinate zone del Paese ha fatto ripensare la misura nella sua interezza e, per favorire una programmazione integrata in tutto il territorio e coordinata con le varie attività, si è preferito costituire una ZES unica per il Mezzogiorno. E in tal senso si è cercato quindi di massimizzare e rilanciare sullo scenario economico mondiale la produzione, la competitività e la specificità di tutte le realtà produttive del Sud d’Italia, che rappresentano oggi un tessuto vivo ma che ha bisogno di essere valorizzato al meglio sia in ambito territoriale, sia settoriale. Così si cerca di far crescere al medesimo passo ed offrendo le stesse opportunità, tutte le aziende già presenti sul territorio e tutte quelle che vorranno insediarsi per utilizzare al meglio queste opportunità.

L’unità della ZES è anche spiegata dalla complessiva e generale difficoltà territoriale dell’intera area del Mezzogiorno che si presenta in costante ritardo nello sviluppo e negli investimenti rispetto alla media dell’Unione Europea. In particolare, secondo la pubblicazione DESI 2022 (compendio europeo che analizza l’Indice di Digitalizzazione dell’economia e della società, in inglese Digital Economy and Society Index - DESI), la stagnazione economica del Mezzogiorno è causata dal ritardo tecnologico e da una basso livello di scolarizzazione e tale gap non solo rappresenta un problema per l’Italia, ma assume rilevanza anche per tutta l’area europea, andando ad ostacolare il raggiungimento dell’obiettivo della coesione sociale, economica e territoriale a cui punta l’intera Europa. Pertanto l’estensione della zona ammessa ai benefici, a tutta l’area del mezzogiorno, cerca di colmare la differenza di risultati e performance che il Sud non riesce a garantire: non solo attraverso un’attenzione alle zone portuali e a quelle ad esse limitrofe, ma anche a tutto il territorio meridionale alla ricerca della razionalizzazione e dello sviluppo complessivo di tutta l’area e di tutti i settori affinché le politiche fiscali, basate essenzialmente sulle agevolazioni, possano svolgere al meglio la propria attività di motore dell’economia e dello sviluppo.

Il nuovo decreto-legge pone così un focus particolare anche sulla modalità di governo, cosiddetta governance delle realtà produttive presenti nelle ZES che deve essere adeguato all’unicità dell’ambito territoriale pur nel rispetto di ogni specificità locale. La strategia di sviluppo deve pertanto essere univoca e permettere il rilancio delle regioni del Sud seguendo un percorso unitario ma al contempo differente per ogni settore e territorio: ciò rende la governance complessa ed articolata. Pertanto la ZES unica prevede una Struttura di missione specifica, nell’ambito della Presidenza del consiglio dei Ministri, che raccoglie l’eredità della precedente impostazione legislativa e cerca di agire sui fattori critici delle aziende operanti nel Mezzogiorno. Quindi tutte le misure agevolative fiscali ed amministrative saranno coordinate a livello unitario al fine di gestire in modo coeso ed efficiente tutti i fondi e gli strumenti posti in gioco dalle amministrazioni europee, mediante il PNRR, e nazionali con lo sguardo rivolto verso la crescita armoniosa e sinergica di tutto il territorio meridionale. La sfida si gioca anche sull’impatto che il Sud d’Italia potrà avere per la nazione e per l’Europa tutta, con lo scopo di risvegliare il progresso delle aziende già esistenti ed attrarre le nuove attività produttive. A tal fine è disposto che la struttura di missione possa avvalersi del supporto e delle conoscenze professionali dell’Agenzia nazionale per l’attrazione degli investimenti e lo sviluppo d’impresa S.p.A - INVITALIA.

Viene prevista quindi l’apertura, presso la struttura di missione, di un portale unico telematico della ZES (portale web) e la predisposizione di una nuova procedura autorizzatoria basata sulla unicità del territorio della ZES. Il portale informatico, anch’esso strutturato presso la Presidenza del Consiglio dei Ministri, fornirà tutte le informazioni necessarie alle imprese per poter godere dei benefici messi a disposizione e creerà i presupposti per accedere allo Sportello unico digitale S.U.D. ZES. Ad esso le aziende dovranno presentare istanze, documenti, programmi e progetti per attivare la procedura tecnica-amministrativa che verificherà i presupposti e rilascerà apposite autorizzazioni, nulla osta e pareri per poter realizzare i progetti presentati sotto l’egida delle normative amministrative e fiscali agevolative. L’obiettivo è quello di gestire all’unisono tutte le procedure autorizzative così da poter rafforzare il processo di efficientamento dell’attività burocratica svolta dalla pubblica amministrazione. Ed infatti l’unica procedura permetterà di non dover duplicare autorizzazioni, documenti, e decisioni; con il coinvolgimento poi di tutti i responsabili dei diversi procedimenti la decisione che verrà presa, giocoforza, in modo univoco troverà la sua naturale composizione nella definizione di un unico parere, decisione e/o autorizzazione che consentirà un’efficace azione ammnistrativa volta all’attuazione dei progetti presentati per la ZES unica per il mezzogiorno. Il portale web dovrà operare cercando di utilizzare i migliori standard tecnologici e rispettando la normativa prevista in materia di transizione digitale. Per ogni azienda verrà così costruito un fascicolo informatico d’impresa dove trovare tutti i documenti presentati per perfezionare il procedimento unico autorizzatorio; in via transitoria le richieste di autorizzazione saranno evase dallo sportello unico per le attività produttive (SUAP) territorialmente competente il quale provvederà ad inviare tutta la documentazione alla struttura di missione ZES.

È stata creata anche una cabina di regia per la ZES, senza oneri aggiuntivi per l’erario, presso la Presidenza del Consiglio dei Ministri con compiti di controllo, monitoraggio, indirizzo e coordinamento; è composta da diversi ministri rappresentanti più settori e vi prendono parte anche i Presidenti delle regioni interessate dalla ZES unica. Tuttavia, con finalità di collaborazione e miglioramento degli obiettivi e delle azioni poste in essere, possono essere invitati a partecipare anche rappresentanti di enti pubblici locali e nazionali ed i portatori di interessi collettivi o diffusi. Nello specifico si parla di interessi collettivi quando vi è un interesse difeso da un’organizzazione, in quanto l’interesse per sua natura non è riconducibile ad un singolo soggetto. Pertanto sarà salvaguardato l’interesse omogeneo riconducibile ad un gruppo di soggetti e come tale è tutelabile esclusivamente attraverso la mediazione di un soggetto collettivo organizzato. L’interesse diffuso è invece riferibile a un complesso di persone non facilmente individuabili nella loro posizione di soggetti portatori di un interesse specifico. Si parla così di azioni intraprese, ad esempio, dai consumatori, o dai rappresentanti delle famiglie, o dagli utenti dei servizi pubblici, a tutela di tutta la categoria, di cui ognuno fa parte, che si muovono in gruppo perché singolarmente non avrebbero una forza contrattuale capace di poter contrastare la parte a cui rivendicare la tutela dei diritti lesi.

Questi quindi, in estrema sintesi gli obiettivi posti dalla nuova legislazione per sfidare la competitività internazionale sempre più forte e basata soprattutto sui processi di innovazione e ricerca che necessitano prima di tutto di ingenti capitali sia umani e sia finanziari.

Non rimane quindi che ragionare sulle eventuali difficoltà e criticità che potrebbero influire sullo sviluppo e l’evoluzione della misura qui descritta che se ben valutate ed analizzate potrebbero trasformarsi in opportunità, ma questa è un’altra tematica da approfondire.

Dettagli
Emanuela Scarponi logo
26 Ottobre 2024

BREVE STORIA DELLA CASSA PER IL MEZZOGIORNO di Alessandra Di Giovambattista

BREVE STORIA DELLA CASSA PER IL MEZZOGIORNO

di Alessandra Di Giovambattista

09-11-2024 

Ragionare sulla questione meridionale è sempre molto interessante se si pensa alle cause che, dopo la nascita del nuovo regno d’Italia nel 1870, hanno condizionato il perdurare di una nazione sostanzialmente depressa ed arretrata. In sintesi si può dire che i diversi tentativi di modernizzazione del Paese hanno di fatto generato una crescente spaccatura tra le diverse regioni. Se è vero che l’inizio dell’industrializzazione parte generalmente da zone ben delineate di una Nazione, è anche vero che il processo poi si dovrebbe allargare a macchia d’olio per effetto del movimento dei lavoratori, del progresso tecnologico e degli investimenti di capitale. Tuttavia ciò non avvenne perché dopo l’Unificazione d’Italia furono prese delle decisioni che si può senza alcun dubbio definire come penalizzanti per il Meridione.

Infatti il Regno di Napoli aveva introdotto delle tariffe protezionistiche proprio per tutelare il proprio tessuto imprenditoriale; ovviamente con l’unificazione le tariffe vennero abolite, ma ciò avvenne in modo drastico, senza un periodo di transizione e ciò provocò numerosi fallimenti delle aziende presenti sul territorio. In particolare collassarono le aziende tessili collocate in diverse zone del Sud; in particolare fallirono le aziende tessili della seta del rinomato complesso di San Leucio (in provincia di Caserta), con l’aggravio che i suoi macchinari furono portati a Valdagno dove si creò la prima fabbrica tessile del Veneto! Una domanda è d’obbligo: perché non furono investiti i capitali nella stessa zona di San Leucio e le attrezzature lasciate dove erano? Quello che fu fatto a Valdagno perché non si poteva fare a San Leucio? La risposta è ben evidente: motivi territoriali e di mentalità ancora chiusa e medievale ancorata al potere dei territori italiani del nord che volevano una supremazia rispetto ai territori meridionali. Stessa sorte toccò alle cartiere di Sulmona e alle ferriere di Mongiana i cui macchinari furono smantellati e reinstallati in Lombardia. E anche qui le considerazioni sono le medesime: perché non sono state potenziate e innovate le strutture già esistenti al Sud? Perché si è preferito spostare a Nord le produzioni lasciando che il territorio meridionale si impoverisse sempre di più? Ulteriore conseguenza fu la forte emigrazione verso paesi esteri perché al Sud non era più possibile trovare lavoro. A ciò si aggiunse il fatto che gli appalti per la costruzione delle infrastrutture nel mezzogiorno furono tutti affidati ad imprese settentrionali, in particolare piemontesi e lombarde che furono pagate attraverso l’utilizzo di risorse essenzialmente prese dal Sud a cui furono imposte tasse molto pesanti. Il tutto provocò grande scontento tra le popolazioni meridionali che videro traditi i principi ispiratori dell’unificazione italiana; ormai i piemontesi erano visti come sfruttatori e depredatori di risorse.

Ma c’è di più; il governo della giovane nazione italiana pensò bene di ripristinare la tassa sul macinato, fu aumentato il prezzo del sale e dei tabacchi, le riserve d’oro del Banco di Napoli e di diversi altri istituti bancari del Sud furono versate nelle casse del Banco di Sardegna, i beni della Chiesa vennero venduti all’incanto e diversi rappresentanti del clero furono deportati o arrestati, negli uffici pubblici furono occupate solo persone piemontesi. In poche parole dopo l’unificazione il modello economico, politico, amministrativo e sociale che soppiantò tutte le differenti organizzazioni presenti sugli altri territori fu il modello piemontese, ispirato da Cavour, secondo una non verificata credenza che il modello francese fosse di fatto il più efficiente e senza provare ad immaginare un modello italiano originale. Tra le altre innovazioni egli proposte una politica liberista di commercio con la Francia che ebbe il solo fine di garantire il riconoscimento dell’Italia nel contesto internazionale; infatti dal punto di vista economico ciò costò molto sia al Nord, che non era ancora in grado di competere con le imprese presenti nelle nazioni più sviluppate (Francia ed Inghilterra), sia al Sud che vide ancora più acuirsi la sua condizione di arretratezza ed il divario con il Settentrione. Ulteriore risultato fu l’ingresso di imprese straniere sul territorio italiano. Bisogna poi sottolineare che sul finire del XIX secolo i territori più sviluppati, anche per le attività agricole, erano soprattutto i territori della pianura lombardo-piemontese che furono di fatto i grandi beneficiari delle azioni di politica economica del Regno d’Italia: in definitiva le risorse finanziarie erariali erano destinate tutte al nord Italia, lasciando di fatto sguarnito il Meridione.

Il divario Sud-Nord continuò così ad aumentare e iniziò anche lo sfruttamento delle masse contadine alimentato dalle baronie latifondiste rafforzate dalla riforma fondiaria sabauda. Fu così che per disperazione e rabbia crebbero le rivolte e si alimentò il fenomeno del brigantaggio; così il Sud non ebbe la forza di innovarsi, o meglio non gli furono offerte opportunità e risorse per cercare di sconfiggere il fenomeno del latifondismo e dello sfruttamento della piccola proprietà agricola. La situazione era così drammatica che non restava che emigrare verso paesi stranieri. Tuttavia l’arretratezza non riguardava solo l’ambito economico, ma soprattutto quello sociale, dovuto ad una popolazione per lo più analfabeta, dove l’istruzione pubblica era poco diffusa e non omogeneamente distribuita sul territorio. Quindi nel momento dell’unificazione l’Italia si presentava come una nazione nel suo complesso arretrata, con poche zone più moderne.

Facendo un balzo in avanti, e sorvolando sul periodo delle due grandi guerre, si arriva al periodo postbellico in cui si assiste ad un vero e proprio miracolo economico, con una crescita ad un tasso elevatissimo, persino più alto di quello registrato negli Stati Uniti d’America e nel Regno Unito. Effettivamente, negli anni 50 i nostri politici si accorsero che il Sud si presentava in una condizione di forte arretratezza e posero la sua rinascita tra i primi obiettivi della Repubblica. I danni provocati dal conflitto mondiale riguardavano soprattutto le vie di comunicazione; erano andati distrutti strade, ponti, ferrovie, linee elettriche, porti. Anche i settori agricolo ed industriale erano stati pesantemente danneggiati. Quasi tutti i rappresentanti dei partiti di allora si sentirono coinvolti a favore della crescita del Sud: i democristiani, i liberali, i repubblicani, i socialisti, ed i rappresentanti del partito d’azione.

Così, nel 1950 fu costituita un’Agenzia chiamata “Cassa per il Mezzogiorno” che aveva l’obiettivo di effettuare investimenti nel Meridione per farne decollare l’economia; alla redazione del progetto partecipò direttamente l’allora Governatore della Banca d’Italia (Donato Menichella). Fu così che le imprese statali iniziarono ad investire ma anche le imprese private, incentivate da ingenti sussidi, iniziarono a creare aziende impiegando notevoli capitali. La Cassa nacque con la legge n. 646 del 10 agosto del 1950, nella veste di ente autonomo, con personalità giuridica e un territorio da amministrare composto dalle regioni del Sud: Abruzzo, Molise, Campania, Puglia, Basilicata, Calabria, Sicilia e Sardegna; ad esse si aggiunsero porzioni di territorio nel sud del Lazio, alcuni comuni di Roma e di Rieti, alcune aree delle Marche e della Toscana.

Durante i primi anni di vita la Cassa usufruì di autonomia sia nella pianificazione degli interventi che nella gestione delle risorse finanziarie, anche se per onestà di cronaca occorre sottolineare l’influenza degli Stati Uniti nella determinazione dei progetti strutturali. La Cassa fu dotata di un capitale iniziale che proveniva dal finanziamento della Banca internazionale per la ricostruzione e lo sviluppo (IBRD) creata dall’Organizzazione delle Nazioni unite (ONU). Le risorse furono concesse sotto la condizione che la loro gestione non fosse affidata a burocrati assoggettabili a pressioni politiche, bensì ad organismi che avrebbero operato sotto la supervisione della IBRD. E di fatto nei primi anni di vita della Cassa si vide l’importanza dell’autonomia della struttura e della competenza tecnica. La legge istitutiva stessa aveva come obiettivo l’eliminazione di ritardi burocratici o ingerenze di diverso genere, soprattutto di natura politica, che avrebbero potuto neutralizzare gli effetti positivi di natura straordinaria, in quanto si dovevano creare rapidamente nuove strutture per ampliare e consolidare il tessuto industriale del Sud. Agli occhi degli osservatori esteri l’esperienza della Cassa nei primi anni di attività apparve positiva, anche se non possono nascondersi difficoltà causate dalla mancanza di collaborazione da parte delle amministrazioni statali e locali le quali peraltro non disponevano di personale qualificato.

Era tuttavia il suo carattere speciale che aveva permesso di creare un’organizzazione con uffici decentrati, precisamente a Roma (per evitare ingerenze locali), di elevato livello tecnico: infatti furono assunti tecnici (con percentuali di laureati pari a circa il 95%) altamente qualificati in diversi settori: agronomi, geologi, ingegneri, geometri, architetti. Il loro compito era quello di programmare e pianificare gli investimenti in infrastrutture mediante l’utilizzo delle risorse a disposizione della Cassa. Gli osservatori esteri inviati dalla IBRD testimoniarono che i tecnici posti alla direzione della struttura era di elevato spessore professionale e questo non poteva che garantire la bontà dell’azione e l’efficienza nel raggiungimento degli obiettivi.

Purtroppo però l’indipendenza e le capacità tecniche della Cassa non furono mantenute a lungo; dopo 15 anni la politica voleva riprendersi il suo dominio sull’attività di ricostruzione del Sud e assegnò la supervisione dei programmi al Ministero per l’intervento straordinario per il Mezzogiorno che poteva arrivare a dichiarare lo scioglimento dell’Agenzia in caso di inosservanza delle linee guida impartite dal dicastero. Fu così che tutti i ministri per il Mezzogiorno dai primi anni settanta, usarono i loro poteri amministrativi in modo invasivo: la Cassa aveva smesso di essere un ente autonomo! Inoltre negli anni 70 con la creazione delle Regioni e l’attribuzione ad esse di poteri sostanziali si frammentò l’azione della Cassa e ne iniziò così il collasso. Infatti le Regioni aumentarono l’ingerenza politica sull’operato dell’Agenzia, che peraltro si suddivise in diverse realtà locali; tutti i tecnici furono sostituiti da personale di fiducia partitica.

Praticamente all’inizio degli anni 80 le risorse devolute come trasferimento di reddito per sostenere le condizioni di vita nel breve periodo (praticamente clientele dirette) superarono quelle destinate agli investimenti. Si persero così l’autonomia e l’indipendenza delle scelte strategiche che avevano guidato la Cassa nei primi 15 anni e ne avevano garantito l’efficienza dell’operato. Così lo Stato dimostrò la totale inadeguatezza nella gestione delle risorse per il Sud che furono dirottate, attraverso una amministrazione poco trasparente delle risorse, verso clientele partitiche nazionali e locali. A ciò si affiancò non solo una diminuzione dei sussidi ordinari all’industria in questa zona del Paese rispetto alle altre aree, ma anche l’invio di aiuti industriali al Sud a favore di imprenditori locali che ottennero risorse pubbliche ma non produssero alcun tipo di risultato sul piano economico industriale.

La missione della Cassa per il Mezzogiorno, dopo un biennio di commissariamento (dal 1984 al 1986) fu affidata all’Agensud, che rimase operativa fino al 1993, anno in cui se ne dichiarò il fallimento. Le cause del totale collasso furono l’incapacità di gestire con trasparenza, tempestività ed economicità le risorse destinate al sud: almeno 21 miliardi di vecchie lire, destinate al Sud, non arrivarono mai!

 

Dettagli
Emanuela Scarponi logo
09 Novembre 2024

ASCESA E DECLINO DELLA CASSA PER IL MEZZOGIORNO: LE CAUSE. di Alessandra Di Giovambattista

ASCESA E DECLINO DELLA CASSA PER IL MEZZOGIORNO: LE CAUSE.

di Alessandra Di Giovambattista

 12-11-2024

L’Italia del dopo guerra ha visto una crescita economica a ritmi elevati arrivando a collocarsi tra i Paesi più avanzati, grazie al c.d. miracolo economico che ha industrializzato ed innovato, anche nella cultura e nella mentalità, il nostro tessuto sociale e produttivo ed in cui la Cassa per il Mezzogiorno può essere considerata, almeno per l’attività svolta nei primi 15 anni, l’attore fondamentale della crescita industriale nel territorio Meridionale e non solo. In quel periodo si era ben compreso che lo sviluppo doveva essere omogeneo e riguardare tutti i territori italiani in quanto una nazione è solida solo quando c’è equa distribuzione delle risorse e pari opportunità che consentono di tenere un passo sincrono in tutte le zone del Paese.

La rinascita del Mezzogiorno passava necessariamente attraverso un processo di industrializzazione ed ammodernamento con l’obiettivo di creare nuovi posti di lavoro e cercare di trattenere il fenomeno della emigrazione. I primi lavori della Cassa, all’inizio degli anni 50, riguardarono le infrastrutture fondamentali cioè “sistemi coerenti di opere straordinarie”, che dovevano garantire salubrità e sicurezza del territorio; si iniziò quindi dalle grandi bonifiche territoriali, dalla sistemazione dei territori montani, degli acquedotti e delle fognature. Si costruirono strade e ferrovie che erano alla base di quelle opere civili che avrebbero dovuto sostenere il successivo processo di crescita industriale in tutti i settori. Successivamente infatti la Cassa si concentrò sul potenziamento dell’industria, armonizzandola con la crescita economica complessiva del Paese, attraverso la concessione di prestiti a tasso agevolato e di sovvenzioni a favore delle aziende che avessero installato a Sud i propri impianti; fu curata anche l’istruzione, soprattutto quella professionale.

Così sul finire degli anni 50 con il boom economico inizia il processo di industrializzazione con un’attenzione particolare ai territori dove già esistevano degli agglomerati produttivi, una posizione economica favorevole agli scambi ed un gruppo ampio di Comuni limitrofi ad un centro principale, in grado di garantire mano d’opera. Pertanto la strategia si concentrò sui “poli di sviluppo”, cioè aree in grado di utilizzare le sinergie garantite da reti industriali formate da nuove fabbriche complementari al polo centrale, da infrastrutture di collegamento e di servizi, da lavoratori con mansioni e capacità diversificate. Così sul territorio Meridionale furono create le “aree di sviluppo industriale” ed i “nuclei dell’industrializzazione”; per implementarne la crescita furono devoluti incentivi finanziari per l’installazione di impianti e strutture. Dapprima le risorse finanziarie furono garantite a piccole imprese essenzialmente territoriali, ma dopo furono devoluti anche ad imprese di più grandi dimensioni provenienti dal Nord Italia. Inoltre per incrementare il decollo economico le normative esistenti obbligavano le imprese di proprietà statale ad ubicare i nuovi investimenti e le relative attività per il 60% nel Meridione.

Secondo le relazioni fornite dalla Cassa per il Mezzogiorno, alla fine degli anni 70 la maggior parte degli investimenti nei poli di sviluppo erano stati finanziati con prestiti agevolati e sovvenzioni e direzionati verso attività ad alta intensità di capitale (capital intensive) nel settore chimico, metallurgico, ed ingegneristico. Solo una quota pari al 10% era stato devoluto ad altre attività a maggior intensità lavorativa (labour intensive) come i settori tessile, dell’abbigliamento, calzaturiero, del legno e dei mobili, della carta, del cuoio, praticamente tutte le attività più artigianali e che avrebbero potuto garantire una maggior sinergia ed armonia tra capitali, territorio e lavoratori. Così in quel periodo circa il 70% della forza lavoro del meridione fu impiegata nelle due grandi aziende private, la FIAT e la MONTEDISON.

Tuttavia quello che poteva sembrare un punto di forza e sicurezza si dimostrò, dopo breve tempo, un grande limite durante la crisi di stagflazione degli anni 70 (fenomeno di natura economica mai osservato prima delloshock petrolifero del 1973/1974. Con tale termine si definisce la contemporanea presenza di mancanza di crescita produttiva e aumento dei prezzi costante, due fenomeni che non si potevano giustificare se non in presenza di cartelli oligopolistici tra produttori di materie prime e di energia) e con i rapidi processi di innovazione tecnologica. Di fatto la presenza di grandi aziende, peraltro molto moderne per l’epoca, aveva sicuramente attivato il processo di sviluppo ma non può negarsi che le modalità con cui esse operavano sul territorio erano decisamente avulse dal tessuto produttivo della zona. Infatti non riuscirono, o forse non vollero, costruire le reti dell’indotto e sviluppare le sinergie territoriali e quindi quelle gigantesche realtà industriali furono ben presto definite “cattedrali nel deserto” perché da poli di attrazione di capitale e lavoro divennero, da lì a pochi anni, concentrazioni industriali abbandonate, a causa della recessione, con conseguente aumento della disoccupazione e distruzione del territorio. Così iniziò il declino dell’attività della Cassa - e con essa di tutto il sistema produttivo del Mezzogiorno - che non riuscì a contrastare la depressione economica con valide politiche pubbliche. Ciò fu il prodotto dell’inclusione degli interessi dei politici, sia statali sia regionali, nella gestione degli interventi e dei finanziamenti e del cambiamento dei vertici e di tutto il personale della Cassa per accontentare clientele personali e partitiche. Passarono in secondo piano gli interventi civili e strutturali legati direttamente al territorio, come i trasporti, la costruzione di ospedali civili, gli interventi in agricoltura. Anche in questo caso aveva vinto l’ingordigia di pochi potenti soggetti politici, amministrativi e rappresentanti di organizzazioni malavitose che si spartirono grandi fette di denaro pubblico in cambio di progetti mai realizzati o di costruzioni inutilizzabili.

Volendo quindi trarre delle conclusioni si evidenzia che nei primi due decenni di vita l’attività della Cassa, anche grazie alla supervisione di soggetti esteri ed alla effettiva autonomia dagli interessi politici (che permise anche di scegliere come responsabili della struttura un gruppo di professionisti valutati per merito), contribuì a rendere industrializzato e produttivo il meridione riducendo notevolmente il divario Nord-Sud. Ma all’inizio degli anni 70, complice anche la depressione economica, si assistette a sprechi di risorse in termini di errate strategie di investimento e di veri e propri fenomeni di appropriazione indebita di fondi pubblici. Una importante iniziativa, nata dall’intuizione di notevoli politici di allora, tra cui Pasquale Saraceno e Alcide De Gasperi (volendo citarne solo alcuni), fu travolta e sconvolta da interessi personalistici di politici che foraggiarono clientele e corruzione e dispersero in tal modo risorse destinate ad un territorio che ancora oggi è caratterizzato dalla arretratezza pur avendo risorse, soprattutto umane, di notevole spessore.

L’analisi delle cause dell’infausta fine dell’esperienza dell’attività della Cassa per il mezzogiorno possono aiutare a mettere a fuoco alcuni aspetti che potrebbero far riflettere in termini di politiche per il Mezzogiorno che ora si intende affrontare con la ZES unica Sud. L’esperienza passata dovrebbe indurre prima di tutto a tenere fuori dalla gestione delle risorse pubbliche politici statali e locali; questi dovrebbero limitarsi a dettare le linee guida degli interventi di potenziamento del tessuto produttivo del Meridione. In seconda battuta sarebbe opportuno creare un organo superiore di controllo serio, trasparente e professionalmente adeguato capace di valutare le attività in corso d’opera e di modificare le strategie in caso di scostamenti dagli obiettivi preordinati. Sarebbe poi auspicabile - invece che aumentare i soggetti che possono inserirsi nel processo di pianificazione e gestione fino a considerare anche le singole associazioni portatrici di interessi locali e particolari (si pensi in tal senso alla cabina di regia della ZES) – creare strutture di gestione snelle e composte da validi tecnici italiani, scelti con modalità meritocratiche e non attraverso procedure clientelari (così forse si potrebbe anche arrestare un po’ la fuga all’estero dei nostri giovani professionisti altamente qualificati), che dovrebbero agire con rapidità e capacità di risoluzione dei problemi: solo così si potranno creare le basi per una sfida competitiva internazionale che restituisca il giusto peso al Sud Italia.

Un’attenzione particolare va poi posta alle attività che si presentano culturalmente e tradizionalmente legate al territorio tutelando pertanto: il settore primario (agricoltura, pastorizia, silvicoltura, viticoltura), i cui prodotti si collocano sul mercato interno e mondiale con caratteristiche di unicità e di elevato livello qualitativo; le attività artigianali ed artistiche tipiche di alcune zone del Meridione (si pensi, potendo fare pochi esempi, al patrimonio artistico e culturale presente nel Leccese dove si lavora la cartapesta, o la lavorazione del corallo nelle zone della Campania, la lavorazione del cuoio e del pellame dei ricami e dei tessuti della Sardegna); le attività industriali di produzione di beni finiti e semilavorati gestite da aziende locali nei diversi settori: alimentare, tessile, del legno e del mobilio, vinicolo, ecc. La tutela e la cura di queste produzioni locali aiuterà il territorio a diversificare le attività, a creare rete ed indotto con le attività produttive principali, a garantire una crescita armoniosa e partecipata, e soprattutto consentirà di creare attività che permettono lo sviluppo creativo ed innovativo dei singoli soggetti presenti sul territorio coinvolgendoli così direttamente nello sviluppo produttivo locale. E’ infatti importante, per chi vive in zone di sottoccupazione, sentirsi protagonista del proprio riscatto socio-economico ponendo fine a stereotipi e classificazioni spesso false e produttrici solo di rabbia e divisione nel popolo italiano.

Andrebbe infine fatta una profonda analisi sulla strategia finanziaria e di politica economica: spesso offrire incentivi fiscali o prestiti agevolati può rappresentare una valida strategia nella fase iniziale di decollo economico, ma successivamente le attività industriali devono saper camminare con le proprie gambe: garantire un livello adeguato di remunerazione del capitale ma anche una capacità di autofinanziamento che possa far investire in innovazione tecnologica e ricerca, affrontare il mercato finanziario con attenzione e capacità cercando di attirare nuovi investitori - nazionali e esteri – creare un processo di fidelizzazione nei lavoratori e in generale in tutti i portatori di interesse (i c.d. stakeholders). Infatti l’esperienza passata della Cassa ha evidenziato che ricevere sussidi non stimola le imprese a migliorarsi costantemente, ma anzi le fa sentire in una confort zone, e che occorrerebbe anche evitare deflussi di risorse che, a dir la verità - così come peraltro dimostra la storia e a differenza di quanto affermi la comune narrazione – sembrerebbero aver preso la via verso le attività produttive del Nord, invece che restare al Sud. Così infatti si è poi conclusa l’esperienza della Cassa per il Mezzogiorno: le risorse finanziarie pubbliche hanno foraggiato essenzialmente le imprese del settentrione che ad un iniziale processo di attività produttiva hanno fatto seguire un disinteresse verso il perdurare nel tempo delle imprese create al Sud (concetto che si pone alla base della sopravvivenza di qualsiasi azienda) che sono di fatto collassate di fronte alle difficoltà della crisi degli anni 70 ed hanno prodotto licenziamenti dei lavoratori, smantellamento delle fabbriche (ritornando però a produrre esclusivamente nel Nord, forti anche degli incentivi ottenuti per il Sud in esso utilizzati solo in parte) e creazione di falsi miti di arretratezza ed incapacità culturale e produttiva dei connazionali meridionali!

 

 

Dettagli
Emanuela Scarponi logo
12 Novembre 2024

IL POLO INDUSTRIALE (CLUSTER) DEL LEGNO MADE IN ITALY di Alessandra Di Giovambattista

IL POLO INDUSTRIALE (CLUSTER) DEL LEGNO MADE IN ITALY

di Alessandra Di Giovambattista

 27-11-2024

Il 20 luglio del 2023 la rassegna stampa del Ministero dell’agricoltura, della sovranità alimentare e delle foreste ha dato notizia della sottoscrizione del protocollo di intesa che ha avviato il primo cluster italiano del legno. Ma cosa si intende per cluster? Con tale termine si identificano dei poli industriali dove si trovano aziende che svolgono attività in un determinato settore tra loro complementari od omogenee; in tali aree si trovano istituzioni pubbliche, imprese, università che lavorano con l’intento di raggiungere in sinergia obiettivi di massimizzazione economica. Possiamo trovare diversi gruppi di cluster sul nostro territorio in ambiti diversi, dagli elettrodomestici all’abbigliamento, ma tutti con l’obiettivo di creare valore in termini di conoscenza ed innovazione anche mediante l’utilizzo di nuove risorse umane specializzate o la formazione di lavoratori già presenti in azienda. Le istituzioni pubbliche inserite all’interno di questi gruppi di settore fungono da collegamento con le parti politiche, in particolare il Governo, alle quali poter rappresentare in tempi brevi necessità ed istanze che potrebbero rendere più efficaci le attività produttive. 

Così il cluster del legno, seguendo le linee generali, è il primo passo verso il raggiungimento degli obiettivi contenuti nel piano strategico nazionale forestale. Il ministro Francesco Lollobrigida ha sottolineato che il polo italiano del legno riuscirà a sfruttare al meglio le sinergie nell’ambito della ricerca, della produzione dei manufatti in legno (filiera del mobilio e di tutte le imprese ad essa collegate) e della sostenibilità ambientale con la crescita di un “sistema foresta sano” che permetta di utilizzare il legno in modo economico. In tal modo l’Italia si pone come apripista per tutta l’Europa per lo sviluppo e l’utilizzo ecocompatibile del legname; la nostra Nazione avrà così una autonomia nella produzione di legno di qualità, senza dipendere più dalle importazioni estere con il vantaggio di utilizzare legname a chilometro zero e con benefici indubbi sull’ambiente. Si raggiungerà così l’obiettivo della sovranità forestale. In tal modo oltre ad utilizzare materia prima nazionale, si riuscirà anche, e soprattutto, ad assorbire maggior monossido di carbonio dall’atmosfera, attraverso la funzione clorofilliana. Obiettivo connesso sarà manutenere il territorio, evitando frane ed esondazioni dei fiumi consentendone invece un deflusso dell’acqua in modo ordinato e controllato. 

La strategia forestale così implementata si basa anche sulla collaborazione con il mondo dell’industria della trasformazione del legno e della ricerca con l’obiettivo di raggiungere e garantire la sostenibilità delle foreste e incrementare la bioeconomia circolare. Si è iniziato a parlare di bioeconomia circolare a ridosso del patto verde europeo del 2020 (il c.d. Green Deal) che mira a promuovere il consumo sostenibile e la rigenerazione delle risorse utilizzate per un lasso di tempo che sia il più lungo possibile. In pratica il cambiamento economico che viene richiesto investe l’economia, i temi sociali ed ambientali, il tutto con lo scopo di generare una movimento circolare delle materie prime e dei processi produttivi che garantiscano competitività e nuovi posti di lavoro. Tale cambiamento prende il nome di bioeconomia che si caratterizza per le basse emissioni inquinanti, la salvaguardia dell’agricoltura e della pesca, la garanzia di livelli elevati di sicurezza alimentare, l’utilizzo, da parte delle produzioni industriali, di risorse biologiche rinnovabili che garantiscano la biodiversità e la tutela dell’ambiente. In definitiva l’economia circolare non può essere pienamente sviluppata senza la bioeconomia; infatti tutti i rifiuti organici e gli scarti provenienti dal settore primario possono essere riutilizzati solo in presenza dell’economia circolare alimentata dai processi di bioeconomia. Ma vale anche l’opposto cioè la bioeconomia potrà svilupparsi solo in presenza di circolarità nei prodotti e nelle materie prime. 

In tal modo l’industria del legno potrà rappresentare un punto di forza dell’economia italiana introducendo innovazione, bellezza e sostenibilità ambientale; tra i soggetti partecipanti al cluster italiano, che sono quattordici, troviamo: CNA, Confartigianato, CNR, Università di Padova, della Tuscia, della Basilicata, Confcooperative, volendo citarne solo alcuni. Si auspica un lavoro di collaborazione e sinergia tra i diversi cluster omogenei presenti sul territorio che permetta di sviluppare particolarità e specificità locali senza alimentare guerre e comportamenti di concorrenza scorretta. Tra i diversi compiti c’è quello di valorizzare i prodotti italiani derivanti dal legno cercando di certificare qualità, sostenibilità e tracciabilità. Le università hanno l’importante compito di sviluppare ricerca ed innovazione anche per provare a creare delle filiere economiche totalmente italiane al 100 % nella produzione del legno-arredo. 

Così il cluster permetterà ai diversi attori pubblici e privati di dialogare tra loro, chi con la ricerca, chi con la legislazione ed il controllo, chi con l’attività produttiva. Inoltre riuscirà ad attuare le linee guida segnate dal Testo unico in materia di foreste e filiere forestali finalizzato al miglior utilizzo delle risorse boschive nel rispetto delle politiche ambientali. I dati prodotti dal rapporto FAO del 2022 presentano un’Italia con il numero delle aree boschive in crescita: in 10 anni sono aumentate di circa 587 mila ettari. Tuttavia dette aree denotano anche un livello elevato di fragilità in quanto sono vulnerabili al dissesto idrogeologico ed agli incendi per la mancanza di opera di prevenzione e manutenzione. Ma c’è di più in quanto il cambiamento climatico ha portato nuovi parassiti e nuovi problemi fitosanitari, come il bostrico che attacca principalmente l’abete rosso o il cinipide galligeno che ha fatto strage di castagni. Pertanto è urgente una gestione attenta dei boschi che controlli costantemente la salute delle piante e del territorio. 

 Secondo i dati di consuntivo per l’anno 2022 della Federlegno Arredo l’Italia copre circa 11,1 milioni di ettari con bosco ad altro fusto che corrispondono a circa il 36% del territorio nazionale. Le attività legate alla silvicoltura e all’industria del legno e della carta producono circa l’1% del PIL, mentre la produzione della filiera legno-arredo rappresenta circa il 4,6% del fatturato manifatturiero nazionale. Importiamo circa l’80% del legno impiegato nelle nostre produzioni, con un utilizzo di legno nazionale per la sola restante parte del 20%. E’ pertanto su questi numeri che pesa la politica che finora è stata intrapresa sulla gestione delle aree boschive, caratterizzata da una sostanziale incuria: ripensare tutta la filiera rendendo più competitiva l’industria italiana del legno e dei suoi derivati, all’ombra di una bioeconomia sostenibile, potrebbe rappresentare un cambio di passo verso la rinascita economica del settore ed il concreto rispetto del Creato. 

 



 



Dettagli
Emanuela Scarponi logo
27 Novembre 2024

IL BILANCIO SOCIALE: UNA SINTESI PER GLI ENTI DEL TERZO SETTORE, MA NON SOLO PER ESSI. di Alessandra Di Giovambattista

IL BILANCIO SOCIALE: UNA SINTESI PER GLI ENTI DEL TERZO SETTORE, MA NON SOLO PER ESSI. 

di Alessandra Di Giovambattista

 29-11-2024

La realtà economico sociale conosciuta come Terzo settore è difficilmente definibile all’interno di uno schema rigido e determinato, presentandosi come un insieme di enti ed associazioni in continua evoluzione sia nella struttura sia nelle finalità. La prima definizione in ambito europeo la si ritrova nella metà degli anni ‘70 e venne utilizzata nel rapporto comunitario del 1978 dal titolo “un progetto per l’Europa”; in esso il terzo settore veniva collocato in modo separato dallo Stato e dal mercato privato produttivo con la finalità di renderlo autonomo ma integrabile tra i diversi ambiti. Ci si trova di fronte a settori diversi posti però non in relazione gerarchica tra di loro, bensì in posizione paritetica e regolati da un rapporto di sussidiarietà. Di fatto le aziende che non hanno finalità di lucro (anche dette no profit) nella loro diversa espressione giuridico economica, come le associazioni, le fondazioni, le ONLUS, le ONG, le associazioni di promozione sociale, oggi vengono tutte ricondotte al terzo settore, con la definizione di “Enti del Terzo Settore” (c.d. ETS), che inizia a prendere piede con la crisi dello stato sociale, meglio conosciuto con il termine anglosassone di welfare. 

In Italia il fenomeno inizia la sua crescita verso la fine degli anni ’80 e contestualmente si riesce a definirne meglio il suo ambito di azione; infatti a fianco del significato economico finanziario, che sottolinea la natura meritoria ma privata dell’attività svolta nella produzione di beni e servizi a favore della collettività, si affianca l’accezione sociologica, che intende sottolineare l’approccio solidale ed altruistico basato sul volontariato da parte degli operatori che si impegnano per raggiungere obiettivi di natura etica e/o culturale senza finalità di lucro. Gli ambiti di azione possono essere diversi e riconducibili, ad esempio, a quelli: ambientale, sanitario, di cooperazione e solidarietà, di inserimento di persone diversamente abili, sportivo, turistico, culturale, di finanza etica, del commercio equo e solidale, ecc. 

La dottrina economico giuridica he delineato alcune peculiarità del terzo settore che riguardano: la mancanza della finalità di conseguire un surplus di reddito positivo (c.d. profitto) e di distribuire eventuali avanzi di gestione (che si determinano dal confronto tra entrate ed uscite); la natura giuridica essenzialmente privatistica delle aziende facenti parte del terzo settore (anche se in alcuni casi è molto presente il controllo da parte di soggetti di natura pubblica); la presenza di organi interni di governo e di controllo; la costituzione mediante atto giuridico formale che contenga l’oggetto dell’attività svolta, le  modalità democratiche di gestione e l’indicazione della quota di lavoro basata su contratti di volontariato. 

Dal punto di vista economico è però interessante notare come queste realtà abbiano puntato la loro attenzione anche sui conti di sintesi, e in tale contesto prende forma il “Bilancio Sociale” in cui l’aggregato fondamentale non è il profitto (anche se occorre sin da ora sottolineare che la gestione di tali realtà si basa comunque sull’utilizzo efficace ed efficiente delle risorse, perseguendo il pareggio di bilancio e contestualmente evitando sprechi di risorse), bensì il “valore aggiunto”, inteso, ad esempio, come la capacità di migliorare le situazioni più emarginate presenti in determinate aree attraverso attività di cura, integrazione e sviluppo di fasce deboli della società. 

A fianco di questo valore sintetico si pone anche la necessità di indagare e rendere trasparente il problema della ricerca dei finanziamenti - mediante contributi pubblici (statali e di enti pubblici in generale) e contributi provenienti direttamente dalle erogazioni liberali dei privati - che vanno a copertura del fabbisogno di finanziamento. In questo ultimo senso si rammenta la possibilità di destinare una parte delle imposte pagate, il c.d. 5 per mille dell’imposta sul reddito delle persone fisiche (IRPEF), ad attività svolte da ETS. Tale destinazione non implica il pagamento di ulteriori somme ma è semplicemente l’indicazione delle finalità (che sinteticamente sono riconducibili ai settori del volontariato, della ricerca scientifica o universitaria, della ricerca sanitaria, delle attività comunali, delle associazioni sportive dilettantistiche, delle attività di tutela, promozione e valorizzazione dei beni culturali e paesaggistici) che i singoli desiderano conferire alle risorse che lo Stato già percepisce attraverso il sistema tributario. A ciò si aggiunga la possibilità che i singoli contribuenti hanno di poter effettuare erogazioni liberali detraibili e/o deducibili a fini IRPEF direttamente dal reddito prodotto.  

Quindi è in tale contesto che si sono iniziate a intravedere le teorie e le metodologie di costruzione dei Bilanci Sociali; questi si sono originati da due situazioni: una relativa all’evoluzione delle discipline contabili sempre più impegnate a fornire un quadro reale e completo dei fattori produttivi presenti in azienda e dei risultati da questi raggiunti, l’altra legata alla responsabilità sociale ed ambientale nei confronti di tutti i soggetti interessati al proficuo utilizzo delle risorse, i c.d. stakeholders (cioè: dipendenti, investitori, clienti fornitori, Stato, Enti pubblici, azionisti, comunità, ecc). Così inquadrato si comprende perfettamente come il Bilancio Sociale possa essere presentato, e di fatto lo è, non solo dagli enti no profit, ma anche dalle aziende che operano con finalità di lucro. Queste ultime affiancano il bilancio d’esercizio (cioè quello tradizionale composto da Conto Economico e Stato Patrimoniale da cui emerge il flusso di reddito positivo e il patrimonio presente in azienda e con le cui risultanze si possono sviluppare delle analisi economico finanziarie basate sulla costruzione di indicatori di economicità) con il Bilancio sociale che espone risultati di natura qualitativa e di misurazione di efficacia (cioè raggiungimento degli obiettivi posti). 

Già l’economista italiano Paolo Emilio Cassandro nel 1989 (in Rivista italiana di ragioneria ed economia aziendale) aveva evidenziato che il bilancio sociale dà conto del valore aggiunto creato dall’azienda non solo a livello nazionale ma soprattutto a livello locale andando ad esaminarne tutti i rapporti con dipendenti, fornitori, clienti, investitori, ecc, con lo scopo di individuare le migliori modalità di gestione delle risorse nel rispetto e tutela delle comunità sociali, dell’ambiente e delle generazioni future. Così il bilancio sociale contiene valutazioni riferite alle prestazioni aziendali (performance) non solo nelle aree più tecniche dell’efficienza, ma anche, e soprattutto negli ambiti socio-relazionali dell’efficacia. A titolo di esempio possiamo evidenziare alcune tipiche aree indagate dalle aziende profit mediante il bilancio sociale: valutazione della qualità delle relazioni con i clienti (esaminando ad esempio il grado di fedeltà, di fiducia verso l’azienda, l’attrattiva dei suoi prodotti sul mercato) o sulla qualità delle prestazioni verso il personale (ad esempio le ore di formazione, la conflittualità dipendente-datore di lavoro, servizi alle famiglie). Nelle aziende no profit le aree tematiche sono rivolte alla misurazione di aspetti relativi, ad esempio, al grado di integrazione lavorativa di soggetti emarginati sia per motivi medico sanitari sia sociali, di incremento della scolarizzazione di emigrati, di miglioramento economico sociale delle aree in cui sono presenti gli ETS, di recupero ed integrazione di soggetti provenienti da situazioni di restrizione della libertà per detenzione, di recupero e riciclo di materie prime e loro trasformazione, di tutela dell’ambiente e del patrimonio pubblico, ecc. 

In sintesi il bilancio sociale offre un quadro generale del raggiungimento della missione che ogni azienda si pone; nello specifico per gli ETS tale missione si basa essenzialmente sull’integrazione, se non la totale sostituzione, dell’attività di welfare, che dovrebbe essere svolta dallo Stato, con la finalità di soddisfare i bisogni dell’uomo nel rispetto delle peculiarità di ognuno e dell’ambiente nel quale opera: rappresenta un momento di sintesi in cui si vanno ad indagare le necessità di ogni singolo e si coniugano con l’obiettivo della tutela dei diritti della persona. 

Quindi l’attuale legislazione, attraverso le linee guida contenute nel decreto del Ministero del lavoro e delle politiche sociali del 4 luglio 2019, e la prassi contabile, individuano nel bilancio sociale uno strumento attraverso il quale si garantisce la trasparenza, l’informazione e la rendicontazione nei confronti di tutti gli interessati alla gestione dell’azienda no profit. Pertanto scopo del bilancio sociale è fornire informazioni, non solo di natura quantitativa, ma soprattutto di natura qualitativa, complementari alle classiche informazioni di natura economico-finanziaria, con l’obiettivo di fornire un quadro complessivo delle attività svolte dall’ente, della loro natura e dei risultati raggiunti. Ulteriori scopi si ritrovano nel processo di comunicazione multidirezionale favorendo così procedure di partecipazione interna ed esterna all’organizzazione; nel dare conto della identità e della natura dell’operato dell’ente esaltandone la missione ed i valori di riferimento sui quali si fonda; nel fornire riscontri (c.d. feedback ) circa gli obiettivi preordinati e gli effettivi risultati raggiunti cercando così di fidelizzare gli investitori già presenti e di trovarne sempre di nuovi; nell’evidenziare strategie attraverso le quali consolidare i risultati raggiunti o indicandone di nuovi e migliorativi; nel palesare le interazioni tra azienda e territorio dando una lettura anche in merito agli impegni assunti ed alle aspettative degli stakeholders; nell’evidenziare il valore aggiunto prodotto in azienda e la sua suddivisione tra i diversi fattori della produzione. 

 Oltre alla redazione del bilancio sociale occorre anche il deposito di esso presso il registro unico del Terzo settore o presso il registro delle imprese, affinché se ne possa dare ampia pubblicità. Si permette così di verificare il rispetto di norme, regolamenti e linee guida etiche affinché i finanziatori e gli stakeholders in generale possano avere relazioni trasparenti e consapevoli con gli enti del terzo settore.

Dettagli
Emanuela Scarponi logo
29 Novembre 2024

DAL BILANCIO SOCIALE AL BILANCIO INTEGRATO di Alessandra Di Giovambattista

DAL BILANCIO SOCIALE AL BILANCIO INTEGRATO

di Alessandra Di Giovambattista

 

01-12-2024

Quando si vuol analizzare sinteticamente l’attività economico finanziaria di un’azienda, qualunque essa sia, si ricorre all’analisi del conto di sintesi per eccellenza: il Bilancio di esercizio. Negli ultimi 50 anni questo documento, che all’origine riportava essenzialmente le risultanze economico-finanziarie, con il tempo si è arricchito di dati ed informazioni in ragione del sempre più complesso grado di approfondimento richiesto sia dalle aziende stesse sia dal mercato e da tutti gli interessati alla gestione dell’impresa (i c.d. stakeholders).

E’ così che la prassi contabile ha individuato diverse forme di bilancio che la dottrina ha esaminato nel tempo: il primo, il più tradizionale, definito come Bilancio di esercizio (strutturato secondo il principio della competenza economica in cui tutti i costi ed i ricavi sono imputati all’esercizio in ragione dei postulati della realizzazione dei ricavi - quando un ricavo si riferisce ad un ciclo della produzione concluso - e dell’inerenza ad essi dei costi) che consente di dare una valutazione sintetica delle più importanti risultanze economico-finanziarie e patrimoniali.

Successivamente è stata posta molta attenzione al Bilancio sociale (si sottolinea che, mentre per le aziende di produzione questo era facoltativo, per le aziende del terzo settore, ora definite Enti del terzo settore, è oggi uno strumento obbligatorio, almeno per quelle che hanno entrate per almeno 1 milione di euro) con il quale, cercando di indagare il comportamento socialmente responsabile delle aziende, si rappresentano strategie e politiche adottate al fine di far conoscere a tutti gli attori interessati alla gestione dell’azienda - quali gli investitori, i dipendenti, i clienti, i fornitori, ma anche lo Stato, gli Enti Locali, le associazioni di diverso tipo, ecc. - gli obiettivi ed i risultati conseguiti nel tempo in termini non solo quantitativi, ma soprattutto qualitativi (quali ad esempio il miglioramento nelle relazioni interne tra personale e direttivo, azienda e sindacati, valore aggiunto prodotto dai dipendenti, strategie per rendere fedeli clienti e fornitori, ore di straordinari e loro costi e benefici, inserimento e formazione di persone diversamente abili, numero di soggetti ritornati alla scolarizzazione, e via dicendo anche considerando i diversi settori di azione delle aziende). E’ pertanto un conto di sintesi che intende evidenziare il valore creato dall’impresa a favore della collettività, con la finalità di tutelare i diritti delle persone ed il valori riconosciuti come meritevoli di tutela.

L’aggregato successivo, indagato dalla prassi contabile, è stato il Bilancio di sostenibilità che offre alle aziende dati ed informazioni che consentono di costruire gruppi di indicatori utili per far conoscere e misurare le proprie capacità in ambito economico, finanziario, sociale e ambientale. E’ quindi un bilancio che cerca di coniugare i diversi aspetti considerati dalle precedenti tipologie di conti di sintesi. Rispetto al bilancio sociale quello di sostenibilità indaga, oltre al comportamento ed alle ricadute sociali dell’azione aziendale, l’ambito della sostenibilità, fornendo una analisi di medio lungo periodo circa la sopravvivenza dell’azienda non solo in termini economico-finanziari, ma soprattutto in termini di miglioramento della società presente sul territorio (mediante la misurazione del valore aggiunto, cioè il valore prodotto da un’azienda, attraverso la vendita di beni e servizi, al netto dei consumi dei fattori acquisiti all’esterno; quindi, secondo un’altra angolazione, lo si può definire anche come un fondo dal quale attingere per remunerare tutti i fattori della produzione, quali il lavoro ed il capitale e comprendendo anche lo Stato, gli Enti di qualunque genere e le banche) e di scelta di azioni che siano compatibili con il rispetto dell’ambiente e dell’utilizzo attento ed efficace delle risorse cercando di escludere produzioni e strategie inefficienti, dispendiose e non ecologiche. E’ ormai noto che gli obiettivi posti dai piani di sviluppo sostenibile cercano di coniugare le diverse dimensioni finora viste, cioè quella economica, finanziaria, sociale ed ambientale, che sono legate ed interdipendenti l’una con l’altra in quanto una scelta effettuata in un determinato ambito avrà necessariamente ripercussioni anche sugli altri in una sorta di azione che si propaga in modo ineluttabile poiché l’azienda si presenta come un organismo che influisce sull’ambiente ma che a sua volta ne è anche condizionata. Come si può pensare che una scelta basata esclusivamente su considerazioni e presupposti economici non abbia ripercussioni anche in termini sociali ed ambientali? Ad esempio, la scelta di una produzione che utilizzi fonti di energia non rinnovabili (perché si presenta più economica rispetto ad un’altra alternativa) potrà avere impatti negativi sulla collettività, in termini di utilizzo di risorse limitate, e sul livello di inquinamento ambientale. In questo senso si può affermare che il bilancio di sostenibilità offre informazioni alle aziende ed aglistakeholders circa l’impatto che una strategia gestionale genera nelle diverse aree di analisi in virtù di un processo di interazione.

Si giunge così, in ultima istanza, almeno per ora, alla determinazione di un Bilancio integrato, meglio definito e conosciuto come Report integrato che ha come obiettivo quello di rendicontare in modo coniugato informazioni sia di natura finanziaria, sia di differente tipologia (come quelle ambientali, sociali e di governo aziendale, c.d. governance). Con questo tipo di rendiconto si vede l’ampliamento, rispetto alle precedenti tipologie di bilancio, delle informazioni che si vogliono evidenziare; infatti il focus è incentrato sul valore che l’azienda genera nel breve, medio e lungo periodo, per garantire la sua capacità di perdurare nel tempo. Tale caratteristica è connessa alle strategie di natura economico finanziaria che devono però essere coniugate alla capacità di generare valore apprezzabile da tutti gli stakeholders in modo da renderli fedeli ai prodotti ed alle scelte di gestione aziendale. Ecco che nella complessità delle informazioni necessarie per rispondere alle diverse richieste dei destinatari dei dati occorre fornire il maggior numero di informazioni (stando però ben attenti a non cadere nella trappola di dare un ingente numero di notizie, alcune volte inutili e non funzionali, che indurrebbe a non centrare l’obiettivo della proficua informazione che si basa sui dati necessari ed attinenti, cioè capaci di dare risposte esaustive alle problematiche che si intende indagare, senza appesantire la rappresentazione conoscitiva), che siano però adeguate alle richieste provenienti dal mercato (rappresentato da fornitori, clienti, enti pubblici, associazioni, dipendenti, azionisti, investitori, ecc) che chiede risposte trasparenti e complete sul valore effettivo dell’azienda e sulle sue capacità di creare valore aggiunto.

Questo report permette di utilizzare le diverse informazioni, prima disseminate in diversi documenti tra loro non integrati, e le rende capaci di risposte sinergiche alle problematiche di conoscenza che il mercato si pone. In particolare si presenta come uno strumento di comunicazione che indaga ambiti che permettono di dare una visione complessiva delle scelte strategiche, dei risultati raggiunti (c.d. performance), degli obiettivi futuri e degli eventuali rischi di gestione ad esse connessi. In termini più concreti il report integrato permette una visione generale dell’attività aziendale fornendo notizie su: come si presenta l’azienda al suo interno e rispetto all’ambiente esterno sottolineando eventuali effetti di intersezione e sinergia; i diversi principi e modi di gestione e le procedure adottate per il governo delle società, che generano delle ricadute sociali (la c.d. governance); le diverse strategie ed i modelli di affari (meglio conosciuti come modelli di business) descrivendo in tal modo le logiche organizzative e strategiche attraverso le quali l’impresa crea, distribuisce e utilizza il valore prodotto cercando di ottenere un vantaggio competitivo non solo in termini finanziari ma anche sociali, ambientali e strutturali; le risorse utilizzate (in particolare per risorse si intendono non solo quelle finanziarie e materiali ma anche, e soprattutto quelle relative al capitale umano, intellettuale, sociale e ambientale-ecologico) e le relazioni che tra esse si intrattengono; gli obiettivi raggiunti (c.d. performance) analizzati come risultati non solo economico-finanziari ma anche di impatto ambientale e sociale.

La scelta del report integrato permetterà alle aziende che lo implementano di raggiungere dei vantaggi; infatti fornire notizie in modo trasparente, evidenziando utilizzi efficienti dei capitali e delle risorse a disposizione, consente di aumentare la fiducia degli stakeholders e di sottolineare la capacità dell’azienda di vivere nel tempo. In tale ultimo ambito un’analisi integrata permetterà di offrire strategie per gestire le sfide sui cambiamenti climatici e sulle disuguaglianze sociali, di indirizzare verso le attività più meritorie le risorse finanziarie messe a disposizione dagli investitori, di evidenziare e meglio dividere il valore aggiunto prodotto dall’azienda, di intraprendere strategie di medio lungo termine che consentano all’azienda di durare e svilupparsi nel tempo attraverso una visione complessiva efficiente ed efficace della gestione dei rischi, delle opportunità e dell’organizzazione di governo interno.

Sul fronte dei vantaggi per gli stakeholders si evidenzia che: gli investitori avranno una visione più chiara e consapevole dell’efficienza degli investimenti effettuati; i dipendenti avranno una visione trasparente della stabilità aziendale e ciò contribuirà allo sviluppo della fedeltà e del senso di appartenenza all’azienda; le società avranno una migliore capacità di comprendere l’uso delle risorse nel rispetto della sostenibilità e dell’ambiente sociale in cui operano.

Questo è un processo non di mero assemblaggio di notizie precedentemente racchiuse nei diversi documenti di sintesi, ma è piuttosto il risultato di un’analisi di dati e di informazioni che permette di trovare rapporti biunivoci e di interazione tra informazioni di diversa natura, finanziaria e non, così da offrire un quadro completo e trasparente sull’impegno futuro, sulle reali attività e sui risultati di impatto dell’azienda al suo interno e nell’ambiente circostante, alla ricerca del rispetto delle necessità sociali, di sostenibilità e di creazione di valore.

 

Dettagli
Emanuela Scarponi logo
01 Dicembre 2024

IL REPORT INTEGRATO: LA SINTESI PIU’ RECENTE DELL’ATTIVITA’ DI IMPRESA di Alessandra Di Giovambattista

IL REPORT INTEGRATO: LA SINTESI PIU’ RECENTE DELL’ATTIVITA’ DI IMPRESA

di Alessandra Di Giovambattista

 05-12-2024

Le diverse tipologie di rendicontazione aziendale - dal bilancio di esercizio al bilancio di sostenibilità, passando per il bilancio sociale – finora utilizzate dalla prassi contabile, evidenziano dati ed informazioni numerose ma non forniscono un quadro integrato di sintesi, bensì evidenziano notizie parziali e frammentarie che solo in apparenza sembrano tra loro non collegate. Quindi le strategie relative al cambiamento climatico, alle questioni dello sviluppo nel rispetto dei principi sociali ed umani e in generale alla ricerca delle soluzioni circa le problematiche concernenti la crescita armoniosa dell’azienda rispetto all’ambiente che la circonda non sono mai state trattate in modo complessivo; ciò non ha permesso di fornire una comprensione chiara ed univoca delle strategie aziendali. Tale situazione ovviamente genera disorientamento tra gli interessati alla gestione dell’azienda (c.d. stakeholders) che non riescono ad avere una visione trasparente circa le più concrete capacità dell’azienda di perdurare nel tempo, nel rispetto del principio di economicità, da raggiungere attraverso strategie e pratiche di governo aziendale (c.d. governance).

E’ a causa di questi presupposti che la prassi e la dottrina contabile hanno cercato di ricorrere ad un pensiero e ad una visione integrali che riuscissero a coniugare informazioni finanziarie e non finanziarie, alla ricerca di un modello di governo delle strategie (modello di business) complessivo. Si è arrivati a pensare quindi a tipologie di analisi che esaminassero in modo interdipendente e connesso i diversi fattori produttivi materiali ed immateriali. Nasce dunque il report integrato le cui linee guida sono dettate da un’articolata struttura regolamentare internazionale (il c.d. integrated reporting framework- IRF). Uno dei vantaggi principali di tale tipologia di informazioni mediante indicatori di diversa natura (il c.d. reporting) è la sua capacità di adattabilità ai continui cambiamenti delle normative globali e dei valori normali di riferimento (c.d. standard) che si basano su principi e concetti condivisi. L’obiettivo è comunque univoco e mira a comunicare in modo accurato e sintetico le motivazioni e gli scopi che spingono un’organizzazione ad agire sul mercato nonché le modalità con cui crea, preserva o erode valore nel breve, medio e lungo periodo, per sé stessa e per tutti gli stakeholders. Naturalmente avendo fornito le linee guida di costruzione del report integrato saranno le aziende stesse, in ragione della propria attività, del proprio modello di gestione e degli obiettivi che intendono raggiungere, a creare e a gestire uno specifico sistema di indicatori, che funzioni come un pannello di controllo. In esso sono palesati il modello di business, le strategie, i rischi e le opportunità in modo da fornire un’attenta disamina dei valori che permetteranno agli osservatori di indagare sulla capacità dell’azienda di sopravvivere sul mercato e di rispettare l’ambiente in cui essa opera.

Dal punto di vista storico si evidenzia che il primo Stato che chiese di utilizzare una rendicontazione integrata fu il Sud Africa nel 2011; nel particolare chiese alle aziende di applicare il nuovo report integrato e per contro, qualora avessero deciso di non accettarne la compilazione, di motivare la scelta di rifiuto. Per quanto riguarda invece le prime aziende che hanno utilizzato dei report integrati di dati finanziari e informazioni di diverso tipo troviamo, in Europa, due aziende danesi, la Novozymes e la Novo Nordisk, mentre nel continente americano la brasiliana Natura. Il loro obiettivo era quello fornire una modalità efficace per comunicare aglistakeholders la propria capacità di raggiungere risultati in grado di garantire lo sviluppo nel lungo periodo dell’attività produttiva in termini non solo economico-finanziari ma anche di sostenibilità e di rispetto dei principi e dei diritti sociali ed umani.

Con riferimento agli organismi che hanno contribuito a costruire il report integrato occorre partire dal Global Reporting Initiative (GRI) che è un’organizzazione internazionale indipendente che ha sviluppato un insieme di norme e regolamenti che le aziende di qualsiasi dimensione e settore possono seguire per la redazione di report sull’economicità aziendale, sulla sostenibilità e sul rispetto dei principi sociali ed umani per fornire una visione complessiva ed olistica dell’attività imprenditoriale. Altre organizzazioni sono: la Susteinabilty Accounting Standards Board (SASB), con sede negli Stati Uniti, che opera come azienda no profit per creare sistemi basati sugli standard di sostenibilità e per condividere con le imprese stesse gli impatti derivanti dalle strategie in ambito economico, sociale ed ambientale; la Climate Disclosure Standards Board (CDSB) organizzazione che nel 2011 presentò delle previsioni sugli eventi riguardanti i cambiamenti climatici, e su come questi avrebbero coinvolto direttamente gli investitori e indirettamente i risultati finanziari delle aziende, che si dimostrarono dei perfetti esempi del modo come le previsioni contenute nel report integrato possano dirigere le strategie aziendali; la Global Initiative for Sustenaibility Ratings (GISR) che ha redatto un insieme di indicatori validi per le aziende che vogliano confrontare politiche e strategie con i risultati attesi e le performance effettivamente sostenibili e raggiungibili; l’Association of Chartered Certified Accountants (ACCA) che, inserendo il report integrato nell’insieme della documentazione da produrre per ottenere la certificazione finale di sostenibilità, ha introdotto il tema della cultura complessiva aziendale e delle ricadute delle scelte attuali rispetto alle generazioni future ed alla loro tutela; ed infine la Task Force on Climate-related Financial Disclosures (TCFD) un’organizzazione che sotto la guida di Michael Bloomberg si pone come obiettivo di incentivare la rendicontazione oggettiva sull’andamento del clima e delle sue modificazioni così che gli investitori dispongano in modo trasparente di tutti i dati necessari per scegliere consapevolmente come dirigere i propri investimenti a favore delle aziende più meritorie.

Le aziende che, a partire dal 2011/2012, hanno presentato il report integrato hanno individuato quattro benefici riconducibili a questo sistema di indicatori: il primo riguarda l’esplicitazione della relazione tra elementi finanziari ed elementi che riguardano aspetti quali lo sviluppo, la crescita e la continuità nel tempo, la sostenibilità ambientale, il rispetto dei diritti umani e sociali, la possibilità di garantire un lavoro adeguato e duraturo nel tempo ai lavoratori delle aziende; il secondo riguarda la trasparenza e la chiarezza delle strategie implementate in ambito di sostenibilità ambientale. Altro beneficio riconducibile al report integrato riguarda la formazione di un legame con gli stakeholders di qualunque tipo essi siano, sia quelli interessati direttamente alla gestione efficiente dell’impresa (quali ad esempio gli investitori) sia quelli più coinvolti dalla ricaduta positiva delle politiche strategiche sull’ambiente e la collettività (come le associazioni, lo Stato, gli Enti locali, i clienti in generale). In questo senso il report permette di colloquiare in modo unitario con le diverse parti tutte differenti tra di loro, con diversi interessi ma, con un obiettivo comune: la prosperità dell’azienda nel tempo per garantire i legami positivi che si sono costruiti. Infine altro beneficio concerne il fatto che diminuisce il rischio di possibili scandali o di compromissione della reputazione in quanto il report integrato espone diversi indicatori di differente natura, le cui variabili permettono di monitorare costantemente le varie situazioni rendendo quindi più difficile registrare problemi di errata valutazione da parte degli analisti del mercato. In sintesi è possibile evidenziare che un reportintegrato, oltre a fornire differenti modalità di aggregazione dei valori – come fanno il bilancio di esercizio, consolidato, di sostenibilità, sociale - di fatto rende chiara e trasparente la connessione delle informazioni tra loro, in un moto circolare, bidirezionale e di azione e reazione, così da permettere di conoscere, o quantomeno di rendere più esplicito, il percorso che l’azienda intende intraprendere per garantire la formazione di valore nel medio lungo periodo.

Quindi partendo da quanto affermato dalle aziende che hanno presentato il report integrato si può sinteticamente sostenere che tale documento tende a fornire informazioni approfondite sull’ambiente esterno, sulle risorse utilizzate e le relazioni create con tutti i soggetti interessati alla gestione aziendale per poter valutare e validare la missione di lungo periodo che l’impresa cerca di perseguire. In tale ottica l’aspetto più importante è monitorare la creazione di valore che consegue dall’attività aziendale e che genera la variazione del capitale; occorre così valutare il valore creato e che rimane interno all’azienda (che genera autofinanziamento e remunerazione diretta degli investitori) rispetto a quello che viene diretto verso l’esterno (attraverso il pagamento dei lavoratori, dei manager, la vendita di beni e servizi, il consumo ed il riciclo delle materie prime, il tasso di inquinamento, i tributi versati, la variazione socio-ambientale della collettività). Ed in effetti con il termine capitale si individuano diverse tipologie: capitale finanziario (derivante dagli investimenti da parte di terzi esterni o di soci interni all’azienda), produttivo (beni strumentali quali macchinari, edifici, impianti), intellettuale (marchi, brevetti, proprietà intellettuali, software), umano (capacità profuse in azienda dai diversi soggetti che vi lavorano), di relazione sociale e ambientale (l’insieme delle relazioni create all’interno ed all’esterno dell’azienda) e se ne studiano le variazioni dello stock dovute all’attività aziendale. Tali mutazioni sono variabili nel tempo con riferimento alla loro destinazione ed ammontare, nonostante rimangano sicuramente inalterati i flussi verso ciascuna tipologia di capitale.

Alla luce di quanto detto non può che sottolinearsi l’importanza della reportistica, intesa come momento di sintesi espressiva dell’andamento di variabili che governano l’attività e le strategie aziendali; tuttavia manca ancora un momento di rappresentazione sintetica condivisa da tutti i Paesi che consenta la massima comparabilità e la migliore misurabilità di risorse che divengono sempre più limitate. Inoltre bisogna spesso cercare di infrangere l’atteggiamento di diffidenza delle aziende, specialmente quelle di media piccola dimensione (che presentano indubbiamente degli equilibri più vulnerabili rispetto alle grandi aziende, spesso multinazionali) dimostrando invece come il report integrato possa aiutarle nella scelta delle strategie più consone alle proprie possibilità nel rispetto dell’ambiente e della società al fine di garantire la sopravvivenza del sistema produttivo e sociale nel tempo. In una collettività che si basa sempre di più sulla comunicazione, spesso anche falsa e di parte, diviene quindi importante offrire la giusta visibilità alle realtà più meritorie, alle produzioni più rispettose, in modo che tutti gli interessati possano scegliere con consapevolezza verso chi dirigere i propri capitali e le proprie preferenze. Pertanto il report integrato si presenta come uno strumento verso l’affermazione di una cultura aziendale basata sulla responsabilità e la sostenibilità di medio lungo termine (intendendo per lungo termine anche la prospettiva ultraventennale) che, nel contempo, soddisfi le richieste e le attese di tutti gli stakeholders e renda la gestione dell’azienda consapevole degli impatti socio ambientali, creando così i presupposti per il suo continuo miglioramento interno ed esterno, a garanzia delle generazioni future.

Dettagli
Emanuela Scarponi logo
05 Dicembre 2024

Kathe Kollwitz la pittrice del dolore di Alessandra Di Giovambattista

Kathe Kollwitz la pittrice del dolore

di Alessandra Di Giovambattista

 

10-12-2024

Copenaghen 5 dicembre 2024, mattinata grigia, fredda ed umida come nella maggioranza dei giorni di autunno e inverno danesi dove il periodo di luce è inferiore al nostro di circa due ore complessive: 45 minuti circa la mattina e più di un’ora nel pomeriggio. La strategia dei giorni uggiosi e freddi del turista solitario è di vagare per musei; e la scelta è caduta sulla Galleria Nazione della Danimarca. Il primo impatto positivo ha riguardato l’affluenza e la tipologia delle persone: adulti e molti giovani studenti e non. La Galleria offre in visione permanente dipinti e sculture a partire dal 1300 con diverse opere di artisti fiamminghi, olandesi (massimo esponente nella mostra è Rembrandt), francesi (presenti anche con diverse tele di Matisse), scandinavi, spagnoli (alcune tele di Pablo Picasso) e alcune opere di artisti italiani - la maggior parte dei quali di minore fama - tra le quali però spiccano una tela del Parmigianino, del Tiepolo, del Tintoretto, un busto di bronzo scolpito da Gianlorenzo Bernini, alcune tele di Salvator Rosa, e due tele di Amedeo Modigliani.

Ma la sorpresa maggiore sono state due mostre temporanee ospitate dalla Galleria, la prima dal titolo “Against all odds” tradotto in “Contro ogni aspettativa” che ha portato all’attenzione dei visitatori diversi quadri di 24 artiste femminili nordiche che durante un quarantennio, dal 1870 al 1910, hanno dipinto opere ed avuto successo, appunto al di là di ogni aspettativa, considerando il clima ancora fortemente maschile e maschilista presente nel settore dell’arte pittorica. Il successo nella loro epoca è legato come ad un filo rosso che le ha condotte tutte lontano dalla propria patria, alla ricerca di miglioramento e di riconoscimento artistico, portandole dal freddo nord Europa verso paesi come la Germania, la Francia, l’Italia, la Grecia. In tali ambienti, sicuramente all’epoca più vivaci dal punto di vista culturale, hanno avuto modo di confrontarsi con altre artiste che vivevano la loro stessa condizione di emarginazione professionale. Ma come il più delle volte accade le donne - che hanno una naturale inclinazione verso l’accoglienza, la condivisione, l’attenzione verso l’altro e la capacità di riuscire a conciliare problematiche diverse offrendo soluzioni originali e rispettose dei diritti delle persone – sono capaci di darsi solidarietà e di andare oltre ogni aspettativa; all’epoca hanno fatto rete tra di loro e uscendo dalle loro zone di origine hanno potuto migliorare e lavorare come artiste riconosciute nel mondo dell’arte pittorica. Nonostante la fama riscossa nel loro tempo le 24 artiste sono poi però state tutte dimenticate dalla storia in una sorta di oblio non facilmente giustificabile. Probabilmente dopo la prima guerra mondiale, si assiste ad una reazione conservatrice verso le donne, particolarmente le artiste, di cui non è facile comprendere le ragioni. Ed è su questa incapacità di dare risposte che all’interno della mostra si vive un colpo di scena inatteso, almeno per me: la scelta di cercare attraverso l’intelligenza artificiale di dare immortalità artistica alle opere ed alle vite delle 24 donne pittrici utilizzando le nuove frontiere dell’informatica. La sfida riguarda non tanto la possibilità di restituire loro il giusto peso nell’ambito della storia dell’arte pittorica, quanto quello di dar loro vita nella storia pittorica del futuro, attraverso modi differenti di riscrivere gli eventi passati. È così che le opere d’arte, attraverso il linguaggio informatico, vengono destrutturate e ricondotte a punti di colore che si uniscono tra loro in reti neurali, quasi a formare delle sinapsi, che assumono forme astratte e che circondano il visitatore e reagiscono ai suoi movimenti (se si è interessati si può visitare il sito di Ix Shells, l’artista che ha curato la rappresentazione informatica).

Siamo poi passate nel salone dove era allestita la seconda mostra temporanea, dedicata sempre ad una donna; l’artista tedesca Kathe Kollwitz (1867 – 1945). È su di lei che intendo soffermarmi non perché ne conosca vita ed opere, anzi era per me una perfetta sconosciuta, ma perché i suoi lavori hanno fatto vibrare nel profondo la mia anima e hanno suscitato un sentimento di compassione mai provato fino ad ora. Le sue opere, per la maggior parte quadri in bianco e nero, litografie e sculture in metallo, generano nel cuore dell’osservatore un sentimento di grande tristezza e di sbigottimento nel vedere rappresentato in modo magistrale e diretto il dolore di persone, spesso genitori ma soprattutto madri, che perdono per sempre i loro affetti più grandi: i figli. L’autrice disegna la sofferenza quotidiana, lo strazio della perdita, del distacco, del lutto in una Germania prima dell’avvento del partito nazional socialista. Racconta la situazione delle classi più povere e la loro miseria che porta uomini e donne spesso a somigliare a degli animali, abbrutiti da una vita senza speranza e senza gioie. La quasi totale assenza di colore nelle sue opere rende ancora più aspra la realtà di miseria che vivevano i tedeschi all’inizio del secolo XX. Il suo messaggio lo affida essenzialmente ai tratti della matita giocando su contrasti di nero e sfumature di grigio, senza però escludere la luminosità del colore bianco che spesso viene utilizzato per mettere in evidenza i corpi ormai esanimi delle vittime. Vittime di un periodo storico dove la rivoluzione industriale, l’accentramento dei lavoratori nei grandi agglomerati urbani, l’anonimato e l’egoismo, dettato dalla necessità di sopravvivenza, di ciascuno nei confronti dell’altro rendono la vita difficile e distaccata da qualsiasi sentimento umano.

Lei poteva rappresentare bene la tristezza ed i volti privi di speranza di persone immerse nel quotidiano sconforto perché aveva sposato un medico che lavorava a Berlino e aiutava, per quanto poteva, le persone in stato di totale indigenza e vedeva quindi scorrere davanti ai suoi occhi, ogni giorno, le più diverse forme di strazio che la maggior parte delle volte era inconsolabile per l’impossibilità di fornire cure sia mediche sia affettive. Ma arriva il giorno in cui anche lei, pur facendo parte della Germania borghese, incontra il lutto, la disperazione, la depressione per la perdita di uno dei suoi figli nella prima guerra mondiale. In un periodo storico dove si sviluppano le correnti pittoriche dell’astrattismo lei sceglie la strada dell’arte cruda raffigurativa e realista, cercando, e secondo me cogliendo in pieno l’obiettivo, di far immergere e comunicare allo spettatore il dolore dell’essere umano, specialmente quello femminile, e della classe operaia. I suoi ritratti di donna sono spesso autoritratti dove le linee del nero ed i suoi chiaroscuri irrompono negli occhi e passano immediatamente al cuore generando un sentimento di forte coinvolgimento nella vita di persone disperate, anonime ma tra le quali potremmo riconoscere ognuno di noi. La sua produzione artistica è un contributo significativo per l’impegno a favore degli ultimi e contro ogni totalitarismo. Coinvolta anche in tal ultimo senso poiché il marito, prima della vittoria del nazional socialismo, aveva scritto una lettera aperta sottoscritta da altre 33 autorevoli firme, tra cui anche Albert Einstein, nella quale si evidenziava il pericolo dell’ascesa dei governi estremisti e dittatoriali; per tale aperto contrasto e per le sue idee solidali e di difesa della classe operaia, Kathe perderà il suo lavoro di insegnante presso l’accademia femminile dell’Associazione delle artiste di Berlino. Il suo è soprattutto un messaggio di pace e di solidarietà che non può che passare attraverso il dolore e la sofferenza perché l’uomo (che creatura strana!) si rende prossimo all’altro solo nelle condizioni più estreme perdendo di vista la bellezza e l’appagamento della condivisione e della solidarietà in tutti i momenti della propria esistenza.

Di fronte alla sue opere le mie percezioni più profonde sono state quelle di voler essere lì, provare a sentire la stretta ultima di una madre disperata, provare a condividere quell’immenso dolore cercando di consolare con la presenza silenziosa ma carica di compassione: vivere un dolore attraverso interposte persone è forse il modo migliore per cercare di non volerlo mai provare o provocare! Indubbiamente per me l’opera più coinvolgente è stata quella della “donna con il figlio morto” (rappresentato qui sotto) in cui la protagonista stringe con intensità straziante il corpicino del bimbo e ne annusa l’odore che è rimasto sul suo collo, un ultimo gesto per cercare di trattenere i ricordi non solo visivi e tattili, ma anche olfattivi, in un modo molto istintivo così come usano fare anche gli animali per riconoscere i propri cuccioli. Vedere questi spaccati di dolore attraverso il ricordo di giorni neri e bui, per ora passati almeno nella gran parte dell’Europa, dovrebbe servire come monito per cercare di comprendere quanto il male faccia male, quanto ogni azione che genera dolore nella propria e nell’altrui vita non produce luce ma tenebra e cattiveria e che ognuno di noi non dovrebbe volerla né per sé né per gli altri. La solidarietà, la generosità, l’altruismo sono atteggiamenti che creano una condizione di benessere che forse l’autrice prova a far passare attraverso le tinte chiare; ed in effetti una mia personalissima lettura del messaggio che ho percepito nell’intensità pittorica delle sue opere sta proprio nell’analisi delle tinte più chiare in alcuni casi anche sfolgoranti. Nella tristezza c’è sempre speranza; la mia speranza l’ho trovata in quelle tinte più luminose dove i corpi, ormai privi di vita, si rivestono come di una veste bianca sfolgorante, in un passaggio verso un aldilà, una vita ultraterrena che distacca dal peso della tristezza e del dolore più profondo. In definitiva un bellissimo e luminoso messaggio di sintesi tra istinto e soprannaturalità divina che ben rappresenta la vera essenza dell’uomo!

 

 

 

Dettagli
Emanuela Scarponi logo
10 Dicembre 2024

Altri articoli...

  1. LE NUOVE NORME ANTIRICICLAGGIO di Alessandra Di Giovambattista
  2. ALCUNI CASI DI SPIN OFF UNIVERSITARI IN ITALIA di Alessandra Di Giovambattista
  3. GLI SPIN OFF UNIVERSITARI UN NUOVO MODO DI FARE IMPRESA di Alessandra Di Giovambattista
  4. LE SOCIETÀ TRA PROFESSIONISTI di Alessandra Di Giovambattista
Pagina 18 di 56
  • Inizio
  • Indietro
  • 13
  • 14
  • 15
  • 16
  • 17
  • 18
  • 19
  • 20
  • 21
  • 22
  • Avanti
  • Fine
  1. Sei qui:  
  2. Home

Più letti

Giovedì, 03 Maggio 2018
read
Venerdì, 10 Maggio 2019
Exco fiera di Roma
Lunedì, 07 Ottobre 2019
La primavera di Belgrado
Martedì, 14 Maggio 2019
Exco 2019 15-16.17 maggio 2019
Lunedì, 09 Dicembre 2019
Progetto Africa di Emanuela Scarponi

Ultime news

Mercoledì, 18 Giugno 2025
Riflessioni e possibilità di cooperazione e di scambi culturali tra Cina ed Italia e nell'ambito dell'Unione Europea, tra PMI italiane ed europee ed imprese cinesi, alla luce del nuovo scenario internazionale.”.
Giovedì, 29 Maggio 2025
belt and road cooperation center
Giovedì, 29 Maggio 2025
Belt and Road International Cooperation Center
Sabato, 24 Maggio 2025
AFRICA-EUROPE TOURISM EXCHANGE FORUM (AETEF) 2025
Venerdì, 23 Maggio 2025
"I coperchi del diavolo su Aldo Moro" di Raffaele Di Ruberto
Copyright © 2025 silkstreet. Tutti i diritti riservati. Project informatica virtualproject.it. Joomla! è un software libero rilasciato sotto licenza GNU/GPL.
Bootstrap is a front-end framework of Twitter, Inc. Code licensed under Apache License v2.0. Font Awesome font licensed under SIL OFL 1.1.