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DALLA CRISI DEI MUTUI SUBPRIME ALLA CRISI DEL DEBITO SOVRANO di Alessandra Di Giovambattista

DALLA CRISI DEI MUTUI SUBPRIME ALLA CRISI DEL DEBITO SOVRANO

di Alessandra Di Giovambattista

 8-10.2024

Per contrastare la crisi finanziaria del 2007 abbattutasi sul mercato statunitense in ragione della concessione di mutui a soggetti non aventi adeguate garanzie per la restituzione dei prestiti, meglio conosciuta come la crisi dei mutui subprime (crisi causata da una bolla speculativa immobiliare e da pratiche di azzardo morale da parte degli istituti finanziari che permisero operazioni di cartolarizzazione dei debiti per mutui non sempre adeguatamente garantiti), il Governo americano negli anni dal 2007 al 2009 decise di intervenire. Organizzò un piano di salvataggio delle grandi banche statunitensi che ne vide in parte la nazionalizzazione ed in parte l’acquisto di titoli di debito privati. In particolare la FED consentì l’immissione sul mercato di ingenti quantità di moneta (si parla di circa 7.700 miliardi di dollari complessivi a fronte di una richiesta iniziale di 700 miliardi di dollari!!!) a tassi prossimi allo zero per cento con la finalità di sostenere banche ed assicurazioni statunitensi e consentire l’acquisto dei titoli cartolarizzati che avevano inquinato il mercato nord americano, ma, purtroppo, anche quelli europei e mondiali in generale.

In particolare in Europa la crisi investì inizialmente l’istituto britannico Northern Rock che era specializzato nella concessione di mutui immobiliari; esso fu il primo ad essere preso d’assalto con ingenti richieste di rimborsi dei depositi innescate dal panico che si era scatenato negli USA. Anche in tal caso dovette intervenire il Governo britannico che attuò il salvataggio impegnando circa 110 miliardi di sterline. Ma questo fu solo il primo di successivi interventi che provvidero a ricapitalizzare le banche - al fine di ristabilire l’equilibrio tra riserve e depositi – e ad acquistare obbligazioni per sostenere gli istituti di credito che entravano in crisi perché nei loro portafogli crediti erano presenti titoli cartolarizzati ormai privi di valore.

Anche in Europa furono attuati salvataggi degli istituti di credito presenti in nazioni quali: Germania, Danimarca, Belgio, Grecia, Lussemburgo, Olanda, Svezia e Portogallo. Complessivamente, in tutta Europa (secondo dati forniti nell’analisi dell’ufficio studi di Mediobanca - MBRES del dicembre 2013) furono erogati circa 3.166 miliardi di euro di aiuti finanziari che si concretizzarono in garanzie per circa 2.443 miliardi di euro, in ricapitalizzazioni per circa 472 miliardi di euro e linee di credito e prestiti per 251 miliardi di euro.

Per avere una dimensione del problema basti pensare che in Germania gli aiuti pubblici da parte del Governo interno furono ingenti e riguardarono essenzialmente la sottoscrizione di azioni o titoli subordinati (questi ultimi individuati come titoli di debito subordinati alla prioritaria soddisfazione di altri creditori non subordinati; presentano un alto grado di rischio rispetto alle obbligazioni ordinarie) per un ammontare di circa 56 miliardi di euro (con l’obiettivo di ripatrimonializzare le banche) e la concessione di garanzie sulle passività contratte dagli istituti bancari, per un ammontare totale di circa 380 miliardi di euro.

Gli interventi a favore del sistema bancario e assicurativo iniziarono a gonfiare i debiti pubblici ed il deficit pubblico di diverse nazioni europee; nel maggio del 2010 l’Unione europea (UE), il Fondo monetario internazionale (FMI) e la Banca centrale europea (BCE) vararono un piano di salvataggio per la Grecia, ormai messa in ginocchio dalla crisi, di circa 110 miliardi di euro.

L’anno dopo tutte le nazioni dell’Europa videro una crescita ingente del proprio debito pubblico: si innescò così la crisi del debito sovrano.

Tutte le misure individuate dall’UE per superare la crisi del debito sovrano hanno però influito negativamente sui paesi più deboli, con pregresse esposizioni debitorie pubbliche; dopo il commissariamento della Grecia, fu il turno dell’Irlanda (con aiuti per 85 miliardi di euro), e del Portogallo (con aiuti pari a circa 78 miliardi di euro). La Spagna invece vide l’intervento del Fondo Europeo di salvataggio (EFSF) che nel 2012 erogò un prestito allo Stato di oltre 30 miliardi di euro. Tale flusso di risorse ha rappresentato solo il primo blocco di aiuti che l’Unione Europea ha riconosciuto alla nazione, in quanto l’ammontare totale di erogazioni è stato pari a circa 100 miliardi di euro finalizzati alla capitalizzazione ed alla ristrutturazione del sistema bancario interno fortemente colpito dalla crisi.

Anche l’Italia, nell’agosto del 2011, ricevette una lettera con una serie di raccomandazioni per far rientrare il debito pubblico, modificare le norme sulle pensioni, sui contratti di lavoro e le liberalizzazioni. Tuttavia il sistema bancario non ha potuto usufruire di importanti interventi pubblici; infatti i salvataggi furono per un ammontare di poco più di 4 miliardi di euro per acquistare obbligazioni subordinate emesse da quattro banche. Le difficoltà maggiori in Italia furono registrate a causa della crisi del debito sovrano, successiva a quella dei mutui subprime,per la sua pregressa posizione finanziaria di ingente indebitamento pubblico. In particolare in Italia gli attivi bancari furono indirizzati verso l’acquisto di titoli pubblici nazionali, mentre l’intervento statale si sostanziò nella forma della garanzia pubblica sulle obbligazioni emesse dal sistema finanziario per garantirne l’acquisto da parte della Banca Centrale Europea. Il tutto portò a crisi di liquidità verso i settori produttivi e nel 2009 la contrazione del PIL italiano fu di circa 5 punti, facendo così registrare una delle crisi più gravi del dopoguerra.

Con il senno di poi ci si accorse che il sistema finanziario complessivo non aveva retto alla crisi dei mutui subprime a causa della mancanza di regolamentazione del sistema finanziario, di stringenti requisiti ed indicatori di capitale e di dettagliate norme di natura contabile; per contro si erano sviluppati e rafforzati atteggiamenti di azzardo morale causati da forme distorte e nefaste di deresponsabilizzazione. Il tutto ha portato ad una revisione della disciplina del settore finanziario, che ha individuato norme più dettagliate e stringenti in materia di regole e modalità di gestione delle aziende (c.d. governance) e di gestione dei rischi. Infine si è arrivati a concepire normative e prassi condivise a livello europeo e statunitense per cercare di rendere più forte il sistema finanziario complessivo. Frutto di queste politiche sono state la creazione dell’Autorità bancaria europea (EBA), dell’Autorità europea delle assicurazioni e delle pensioni aziendali e professionali (EIOPA), dell’Autorità europea degli strumenti finanziari e dei mercati (ESMA).

Di fatto i salvataggi bancari attuati obbligarono gli Stati ad indebitarsi per trovare risorse pubbliche per finanziare i sistemi bancari e provare a salvarli; tuttavia il passaggio successivo fu che le banche non concessero più credito alle attività produttive; il risultato fu una recessione a livello globale con cadute del Prodotto interno lordo (PIL) che registrò anche valori di segno negativo.

Le difficoltà di questi paesi si ripercossero su tutto il sistema economico-finanziario europeo; le banche continuarono ad essere le aziende più esposte alle problematiche monetarie a causa dell’acquisto di titoli del debito pubblico. Le problematiche si riscontrarono nella banche dei paesi più vulnerabili in quanto le agenzie di rating,cioè quelle deputate a dare una valutazione dei rischi sugli investimenti, avevano abbassato la classe di merito proprio al debito emesso dai paesi più deboli e ciò implicò un rialzo dei tassi di interesse. E’ evidente che in tale situazione le banche non disponevano di sufficiente liquidità per finanziare l’attività reale, produttiva e così il risultato fu una recessione generalizzata che contagiò tutto il mercato europeo. Il credito fu razionato e ristretto a pochi casi, così che molte economie furono messe in ginocchio e la recessione, già in atto, fu più che amplificata. Si fa ancora memoria dell’innalzamento dello spread, cioè del differenziale di rendimento dei buoni nazionali rispetto a quelli tedeschi, ritenuti i più sicuri, che costò molto caro all’Italia che dovette far fronte ad un incremento del tasso di interesse sul debito pubblico che arrivò al 7%. Tale innalzamento, causato dalla percezione di un grande rischio riguardo al sistema economico italiano (quindi una vera e propria ondata di panico nei confronti del sistema Italia) nonché dalla ricerca di investimenti in titoli più sicuri come quelli emessi dal Governo tedesco, condusse ad aumentare ancora di più il livello di indebitamento dello Stato italiano sul versante del pagamento degli interessi passivi.

Le misure di contenimento attuate dal fondo europeo ebbero però solo effetti momentanei; infatti la fiducia degli operatori economici riguardo agli Stati più vulnerabili era ormai compromessa e tutte le politiche che la BCE cercava di implementare per sostenere l’economia reale attraverso misure di politica monetaria sembravano dover fallire con forti ripercussioni negative in termini di concessione di prestiti e mutui a famiglie ed imprese.

Fu poi all’inizio del 2015 che la BCE varò il programma di acquisto di titoli emessi da aziende private estendendolo anche ai titoli pubblici emessi in euro, immettendo così liquidità sul mercato: il c.d. quantitative easing (letteralmente alleggerimento quantitativo), misura di politica monetaria non convenzionale rispetto alla tipica manovra di variazione del tasso di interesse praticato dalla banca centrale. La misura, avviata dall’allora presidente della BCE, Mario Draghi, era finalizzata ad influenzare direttamente le variabili finanziarie che agiscono sul mercato reale, immettendo liquidità attraverso l’acquisto di titoli del debito pubblico e obbligazioni in generale, e ottenendo coì una diminuzione del tasso di interesse per favorire la concessione di prestiti.

La misura ebbe un buon successo rispetto alle manovre precedenti implementate dalla BCE che si erano basate sulla concessione di aiuti alla banche che solo in seconda battuta avrebbero dovuto migliorare e ristabilire il funzionamento ottimale del mercato reale concedendo prestiti e credito ad aziende e famiglie. Invece il passaggio delle risorse dalle banche agli operatori non accadde perché il sistema bancario era davvero deteriorato. Invece il quantitative easing agì direttamente sugli operatori economici, senza interessare le aziende intermediarie del credito, cercando di far ripartire l’economia e con l’obiettivo, a latere, di far rialzare il tasso di inflazione a livello fisiologico, stimato pari a circa il 2% annuo. Questa misura diretta contribuì ad un aumento della fiducia degli investitori e interruppe l’andamento decrescente dell’economia dei paesi dell’area euro, soprattutto di quelli più deboli, con una diminuzione dello spread e un conseguente recupero di risorse finanziarie pubbliche – come conseguenza della diminuzione degli interessi pagati sul debito – da destinare ad obiettivi di politica economica e sociale.

La crisi del debito sovrano, derivante da quella dei mutui subprime, può così rappresentare un chiaro esempio di come la globalizzazione nei rapporti economico-finanziari possa creare dipendenze e reazioni a catena in tutti i sistemi finanziari del mondo. In precedenza le crisi erano contenute in ambiti geopolitici abbastanza delimitati e con normative e usi abbastanza comuni, invece oggi con gli strumenti informatici di compravendita di titoli, la finanza creativa, i legami finanziari delle grandi multinazionali e l’ingresso di nuovi Paesi sulla scena economica mondiale come Cina, India e i paesi emergenti in generale – che presentano specificità normative e industriali molto diverse da quelle occidentali – si è di fronte a scenari molto più complessi. Conseguentemente si molto più difficile riuscire a trovare soluzioni e correttivi che possano soddisfare tutte le differenti realtà. Una possibile soluzione si può trovare nella creazione di autorità e di norme comuni e condivise che possano aiutare ad affrontare congiuntamente crisi di così vasta portata.

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08 Ottobre 2024

LA ZONA ECONOMICA SPECIALE UNICA SUD: UN’OPPORTUNITA’? di Alessandra Di Giovambattista

LA ZONA ECONOMICA SPECIALE UNICA SUD: UN’OPPORTUNITA’?

di Alessandra Di Giovambattista

06-11-2024

 

Con le modifiche apportate al decreto legge n. 91 del 2017, istitutivo delle 8 aree meridionali indicate come zone economiche speciali (ZES), è stata cambiata la strategia della programmazione dello sviluppo delle zone del Sud; ciò è avvenuto attraverso l’emanazione del decreto legge n. 124 del 2023 che ha proceduto all’individuazione di un’unica zona economica speciale che coinvolge tutto il Meridione italiano. A tale nuova disciplina sono poi state apportate modifiche sia con il collegato alla legge di bilancio per il 2025, in materia fiscale, cioè il decreto legge 155 del 2023, sia con la legge di bilancio stessa. L’obiettivo della ZES unica Sud è di far sviluppare in modo sinergico ed efficiente tutte le attività presenti sul territorio nonché di incentivare anche nuove strutture per valorizzare zone che presentano potenziale economico ma che finora hanno stentato a decollare.

Per provare a fare un’analisi circa l’opportunità dell’organizzazione territoriale e della governance unica per il Sud, bisogna prima di tutto riflettere sulle cause per le quali questa parte d’Italia rappresenta il fanalino di coda del tessuto economico nazionale mentre per la Comunità europea è una zona in cui i risultati e le performancesono lontani dalla media europea. Il recupero produttivo del Meridione d’Italia è una questione che riguarda sia il nostro Paese sia l’Europa: se in Italia il prodotto interno lordo (PIL) pro-capite e l’occupazione nella loro totalità non riescono a crescere è perché la nostra Nazione marcia a due velocità, con un centro-nord che è sulla media europea ed un centro-sud che ne è al di sotto del 75%, ma in alcune zone anche del 100% (per un approfondimento si consulti l’ottavo Rapporto sulla Coesione e lo sviluppo dell’Unione europea presentato nel 2022).

Eppure il Sud produce attualmente il 50% dell’energia rinnovabile italiana e questo potrebbe rappresentare un esempio della concreta possibilità per il Meridione di candidarsi come punto di raccolta e stoccaggio delle energie rinnovabili; ma per far questo occorre efficientare amministrazioni ed infrastrutture, potenziare i porti e stimolare la crescita delle aziende nei territori circostanti che si presentano come aree essenziali nel Mediterraneo per gli approvvigionamenti delle materie prime destinate sia al nostro Paese sia all’Europa.

In prima analisi cerchiamo di valutare sinteticamente la situazione che si era delineata sul finire del 1800 e nei primi decenni del novecento, partendo dalle parole di Francesco Saverio Nitti, Presidente del Consiglio dei Ministri del Regno d’Italia tra il 1919 ed il 1920, che nel suo libro “Scienze delle finanze Nord e Sud” scrisse testualmente: “dal Regno delle due Sicilie furono ritirati ben 443 milioni di monete di vario conio, mentre il Regno di Sardegna ne aveva soltanto 27 milioni”, quindi solo il 6% rispetto al “Regno di Napoli che nel 1857 era lo Stato italiano con la maggiore solidità finanziaria, scarso debito, poche imposte ben armonizzate!”. Questa analisi dei fatti fu confermata, successivamente da Antonio Gramsci (nel suo libro “Temi sulla questione Meridionale” del 1926) il quale evidenziò “l’emigrazione di ogni denaro liquido dal Mezzogiorno al Settentrione per trovare maggiori e più immediati utili nell’industria”. Con questi dati si può quindi concludere che una questione meridionale non sembrava esistere prima dell’unità d’Italia e l’impoverimento del Sud da parte del Nord avvenne con il placet della classe politica, sostanzialmente a favore del Regno Sabaudo, che ne sottovalutò la portata in quanto non voleva assolutamente che si palesasse il problema. Poi con lo scoppio della guerra mondiale furono create aziende di forniture militari localizzate essenzialmente al Nord; ciò generò un ulteriore flusso a senso unico di risorse pubbliche prelevate su tutto il territorio italiano a favore delle attività produttive localizzate sul territorio settentrionale.

Nel ripercorrere rapidamente le misure più recenti e significative che cercarono di colmare il divario che nei primi del novecento si era formato tra Sud e Nord ci si imbatte, dopo la seconda guerra mondiale, e precisamente nel 1950, con la Cassa per il Mezzogiorno - che lavorò per 40 anni, fino al 1984 – creata come un ente con autonomia progettuale e decisionale che doveva andare ad affiancare (anche sostenendo investimenti privati) gli interventi predisposti dallo Stato finalizzati ad eliminare il divario Nord-Sud. In quel periodo furono costruite le prime grandi infrastrutture del Meridione e il progetto partì dal considerare il Sud come un’unica grande area dove le problematiche di base dovevano essere risolte con uno sguardo unitario, andando al di là della visione localistica. L’esperienza della Cassa, che nei primi due decenni dalla sua costituzione aveva effettivamente migliorato le condizioni di vita delle popolazioni meridionali, si concluse negli ultimi 15 anni di attività con inchieste che evidenziarono sprechi, inefficienze e rapporti clientelari tra classe politica, cittadinanza e organizzazioni malavitose presenti sul territorio. Negli anni 90, dopo che la Cassa per il Mezzogiorno fu commissariata per due anni, dal 1984 al 1986, furono poste in essere delle misure che avrebbero dovuto, da una parte, contrastare la disoccupazione con i contratti d’area, dall’altra ammodernare le infrastrutture ed i servizi del Paese attraverso i patti territoriali. Ma furono misure che non sortirono alcun effetto ed anche in questo caso si dispersero risorse attraverso una gestione politico amministrativa diseconomica.

Tralasciando poi misure disorganiche e a macchia di leopardo che si sono succedute negli anni successivi, si arriva agli obiettivi che si pone il PNRR di rilanciare il territorio meridionale alla ricerca del suo efficientamento produttivo e soprattutto burocratico.

L’Unione Europea ha messo in campo molte risorse finanziarie, anche attraverso i fondi europei, ma sembra che finora quelle investite nel Sud Italia non riescano a far decollare la ripresa economica. Si parla così di “trappola dello sviluppo intermedio”, come evidenziato nel citato Rapporto sulla coesione e lo sviluppo dell’Unione europea, in cui nelle regioni meno sviluppate dell’Europa meridionale (tra cui la parte sud dell’Italia) e Sudoccidentale a seguito di investimenti pubblici si assiste dapprima ad una crescita del PIL, ma dopo un certo punto il processo di sviluppo si arresta o addirittura retrocede ai livelli iniziali e si cade nel declino e nella stagnazione. E questo è ancora più evidente se si considera che le aree meno sviluppate dell’Europa orientale, grazie ai fondi europei, stanno invece recuperando terreno rispetto alla media dell’unione europea e ciò è dovuto al fatto che in tali Paesi il costo del lavoro è inferiore rispetto al meridione italiano. Così come è inferiore la produttività del Sud rispetto ai paesi del Nord Europa, ragione per cui gli investitori privati non sono interessati ad investire. Nel rapporto sono esplicitate ulteriori cause del divario che riconducono alle modalità di gestione ed alle strategie implementate dai Governi nazionali. Ed infatti alcuni Stati membri, dopo avere ottenuto fondi europei, smettono di finanziare con risorse pubbliche interne gli investimenti nelle aree depresse. Si assiste quindi un effetto sostituzione (c.d. crowding out) in cui, una volta che ci sono fondi europei destinati alle zone più arretrate, le risorse finanziarie italiane invece che essere distribuite su tutto il territorio, vengono concentrare in poche zone già a vocazione industriale penalizzando ancora di più le aree deboli.

Così operando, il risultano finale è un depotenziamento delle misure in quanto si disperde l’effetto sinergico delle risorse utilizzate ma soprattutto le aziende non hanno lo stimolo a fidelizzare, con risultati performanti, gli investitori, (perché rappresentati da un soggetto istituzionale europeo, sovranazionale riguardo al quale non ci si sente direttamente coinvolti), generando invece un processo di deresponsabilizzazione dell’impresa verso la propria Nazione, la quale, paradossalmente, utilizzerà parte delle imposte prelevate sugli utili prodotti per finanziare aziende di altre zone, spesso non svantaggiate!

Ed è invece nelle zone più deboli che è necessario, dopo l’iniziale ripresa dovuta allo sviluppo delle infrastrutture, passare a curare l’espansione ed il consolidamento dei processi innovativi, della ricerca, della formazione qualificata - anche attraverso campagne di finanziamenti collettivi (c.d. crowfounding) - e il cambiamento di mentalità nella gestione dei servizi pubblici e nei Governi locali che devono essere effettivamente al servizio dei cittadini. Questo con uno sguardo di programmazione di lungo periodo (anche ultra decennale) che permetta di sostenere e consolidare l’andamento migliorativo che si innesca con le politiche di sostegno.

È su questi presupposti che si deve riflettere sulla sfida aperta con la ZES unica Sud affinché questa misura diventi un’effettiva opportunità e non un ulteriore buco nell’acqua con dispendio di risorse e consolidamento di un’immagine di inefficienza del Meridione, ma non solo, bensì di tutto il sistema Italia. Il Sud ogni anno perde circa 130.00 giovani, per la maggioranza laureati, che emigrano verso paesi esteri o verso le zone del nord Italia; eppure la Campania è la terza regione in cui sono presenti start up innovative!

Questi contrasti andrebbero letti con più attenzione. Una prima riflessione va fatta sulla effettiva opportunità degli incentivi fiscali che non andrebbero dati a pioggia, sulla base di programmi che spesso non sono del tutto veritieri circa la sostenibilità ed efficienza degli investimenti o che non sono del tutto ben compresi da una classe burocratica poco avvezza alle questioni pratiche economiche e più orientata verso forme di puro garantismo giuridico che può creare blocchi di procedure attraverso reiterati nulla osta ed autorizzazioni (si pensi alla Conferenza dei servizi dove saranno presenti numerosi ed eterogenei soggetti). Andrebbero invece premiate in corso d’opera le realtà aziendali più meritevoli (eliminando il clientelismo politico che abbiamo visto nell’esperienze precedenti), dove i giovani, affiancati da tutor, possano iniziare la propria idea imprenditoriale e proseguirla con fondi pubblici, adeguatamente remunerati (pena la restituzione), nell’intento di evitare finanziamenti a poche singole aziende e di sfidare e competere con le realtà straniere più efficienti. Il processo di verifica degli obiettivi e risultati andrebbe regolarmente monitorato, da persone capaci e trasparenti, al fine di riflettere sui risultati intermedi (c.d. feedback) ed effettuare modifiche in itinere che permettano di migliorare gli esiti finali e consentire alle neo realtà imprenditoriali del Sud di continuare da sole la corsa verso il successo.

Un altro spunto di riflessione riguarda le politiche fiscali agevolative che, seppur valide nei meccanismi e nei risultati (ad esempio la DIT - Dual Income Tax - che sostanzialmente premiava le forme di autofinanziamento aziendale, sostituita, nel tempo da varie misure temporanee di agevolazione degli investimenti, le c.d.“Tremonti”) ed in base alle quali le aziende programmano i propri piani finanziari, dopo pochi anni vengono totalmente stravolte o abolite. Questa poca coerenza nella gestione della politica fiscale mina la fiducia dei cittadini ed allontana gli investitori, nazionali ed esteri.

Pertanto se si vuole che il modello ZES unica Sud sia un’opportunità positiva e inneschi il processo di sviluppo delle zone del Sud occorre prima di tutto riflettere sugli errori passati e chiedere che la classe politica ed amministrativa faccia molti passi indietro: che siano guide e non ostacoli. La finalità è quella di innescare un processo virtuoso valido per la crescita del Meridione a favore di tutto il tessuto economico della Nazione; un Paese che marcia a velocità diverse è diviso in sé stesso e pertanto non riuscirà mai a raggiungere uno sviluppo armonioso e completo ed anzi genererà astio e incomprensione tra connazionali. In questo senso non sono da condividere posizioni di separatismo territoriale e un’attenzione particolare deve essere rivolta al federalismo differenziato che, come tutti gli strumenti, può nuocere o migliorare a seconda delle modalità utilizzate nella sua gestione.

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05 Novembre 2024

IL FONDO DANNI E PERDITE: L’ITALIA TRA I DONATORI DI RISORSE di Alessandra Di Giovambattista

IL FONDO DANNI E PERDITE: L’ITALIA TRA I DONATORI DI RISORSE

di Alessandra Di Giovambattista

 

8-4-2024

 

Dal 30 novembre al 12 dicembre 2023 si è svolta a Dubai la conferenza sul clima Cop28 finalizzata all’attuazione dell’Accordo di Parigi, firmato il 12 dicembre 2015 e di cui fanno parte 191 Stati che hanno condiviso la prima intesa universale e giuridicamente vincolate sul cambiamento climatico, con un obiettivo comune: contenere nel lungo termine l’aumento della temperatura media globale al di sotto della soglia di 2 gradi centigradi oltre i livelli preindustriali (l’incremento va limitato ad 1,5 gradi centigradi). L’incontro ospitato nel 2023 a Dubai - all’insegna della ricerca, da parte degli Stati partecipanti, di un’azione comune contro la crisi climatica – si organizza ogni anno in una capitale diversa ed ha coinvolto 180 paesi membri dell’Organizzazione delle Nazioni Unite (ONU), alcuni paesi osservatori e svariati enti sovranazionali.

La conferenza di Dubai è la prima che si svolge dopo che la temperatura media della Terra ha superato la soglia dei tanto temuti 2 gradi, anche se solo per pochi giorni, e ciò è sufficiente per fare stimare con oltre il 99% della probabilità che il 2023 sarà l’anno più caldo della storia (almeno di quella finora registrata! Si ricorda che il confronto viene effettuato sugli ultimi dati di riferimento del periodo della seconda metà dell’ottocento), così come peraltro confermato dall’Organizzazione metereologica mondiale. Tra giugno ed ottobre del 2023 i gradi sono stati, in media, al di sopra degli 1,5 gradi centigradi, con settembre che ha fatto registrare una media di ben 1,75 gradi centigradi superiori ai valori di riferimento. Il surriscaldamento proviene dalla quantità di energia che la Terra trattiene e che per il 2023 ha corrisposto a circa 16 bombe atomiche della stessa portata di quella che distrusse Hiroshima.

Sembra che la partita si giochi tutta sulle emissioni derivanti dalle fonti fossili e quindi il messaggio è: stop alla produzione di energia derivante dalle fonti fossili e quindi spinta verso la decarbonizzazione, aumento delle misure e delle risorse per le politiche economiche finalizzate al miglioramento delle condizioni climatiche, incremento delle fonti rinnovabili e spinta verso meccanismi che tentino di assicurare equità e giustizia tra Nord e Sud del mondo migliorando lo standard di vita delle popolazioni.

Tra i grandi assenti il presidente degli Stati Uniti d’America Joe Biden ed il presidente cinese Xi Jinping; ciò ha fatto supporre che l’assenza dei Paesi che ad oggi sono tra i più grandi inquinatori mondiali non rappresenti un buon segno, sia in termini di impegni futuri, sia in termini di riconoscimento delle proprie responsabilità. Altro importate assente, ma per motivi di salute, è stato Papa Francesco che però con un messaggio pubblicato sui social network ha invitato tutti i responsabili “a pensare al bene comune piuttosto che agli interessi di pochi paesi o aziende”.

L’incontro si è concluso con la definizione di macro-obiettivi e con la sottolineatura dell’importanza della diplomazia ambientale e del cambiamento ideologico basato su politica internazionale e governance globale per cercare una cooperazione efficace per contrastare il cambiamento climatico. Per quest’ultimo è stato posto il limite massimo di 1,5 gradi centigradi in media di aumento rispetto al livello di riferimento (seconda metà dell’ottocento). La riflessione profonda si è basata sulla considerazione che l’umanità va protetta e va assicurata una situazione ecologica vivibile per le generazioni future. Il rappresentante del Consiglio Europeo – Charles Michael – ha evidenziato che gli sforzi condivisi dell’Unione Europea dal 1990 hanno permesso: la riduzione delle emissioni di gas ad effetto serra del 30% circa, la produzione tripla di energia rinnovabile raddoppiando nel contempo l’efficienza energetica. Il prossimo obiettivo sarà quello di non dipendere più dai combustibili fossili. Inoltre l’Unione Europea risulta il principale erogatore di finanziamenti pubblici volti a contrastare la crisi climatica con fondi per circa 23 miliardi di euro per il solo 2023.

In termini di definizione di piani d’azione, la Cop28 si è concentrata soprattutto: sulla transizione verso nuove forme di energia con l’obiettivo di creare un sistema energetico completamente o prevalentemente privo di combustibili fossili e di emissioni di carbonio entro il 2030 che incrementi l’energia rinnovabile e l’utilizzo efficiente dell’energia prodotta, sulla definizione di finanza climatica che contiene al suo interno il “Fondo per danni e perdite”, sulla centralità del rispetto dell’ambiente, delle persone e del loro lavoro, sulla piena condivisione e partecipazione degli Stati alle varie iniziative. In tale contesto è stato pensato il citato Fondo per il clima - che in realtà è stato richiesto da tre decenni, che era stato annunciato alla Cop26 del 2021 ed era stato configurato già nella Cop27 del 2022 – che avrebbe come obiettivo il risarcimento dei Paesi vulnerabili economicamente che affrontano perdite e danni causati dai cambiamenti climatici che spesso si esprimono attraverso le devastazioni causate dal crescente numero di eventi atmosferici estremi come inondazioni, siccità, innalzamento del livello del mare. Il Fondo rappresenta il terzo pilastro della finanza climatica e determina le risorse destinate ai Paesi più colpiti dagli eventi naturali, e messe a disposizione dei Paese sviluppati, che si ritiene siano quelli maggiormente responsabili dell’inquinamento del passato che sta causando gli attuali cambiamenti ambientali. La logica del Fondo, che ha una connotazione di giustizia climatica, si basa sulla minore responsabilità che i Paesi più vulnerabili hanno in termini di inquinamento e di surriscaldamento globale rispetto ai paesi più ricchi, e quindi maggiormente inquinanti poiché protagonisti delle rivoluzioni industriali passate. Pertanto il Fondo si basa sulle diverse responsabilità in termini di inquinamento e quindi vengono riconosciuti dei diritti di compenso per qui Paesi che oltre ad essere i più vulnerabili dal punto di vista climatico sono anche quelli più deboli in termini economici. Il ristoro finanziario, a favore di queste Nazioni, è visto come una soluzione alle emergenze climatiche che, sottraendo risorse per la transizione verso forme meno inquinanti di energie alternative, potrebbero impedire lo sviluppo delle economie più deboli che peggiorerebbero così anche le loro già pesanti posizioni di sovraesposizione debitoria.

Il Fondo perdite e danni sarà gestito per i primi quattro anni dalla Banca Mondiale - questo aspetto ha offerto il fianco a critiche legate soprattutto al fatto che il governo della Banca è in mano ai paesi più ricchi, USA al primo posto - e dovrà essere alimentato con almeno 100 miliardi di dollari annui; la contribuzione non è obbligatoria ma volontaria (così come indicato dagli USA nelle precedenti edizioni della convention) e non prevede un limite minimo di finanziamenti. Questo strumento di finanza climatica è inoltre risultato per ora solo una chimera in termini di risorse da raccogliere; infatti gli obiettivi che si erano posti nel 2009 di assicurare ai Paesi a più basso reddito, 100 miliardi di dollari all’anno entro il 2020 non è stato raggiunto. Nel 2021 si sono messi insieme poco meno di 90 miliardi di dollari mancando l’obiettivo annuale; la speranza è quella di raggiungerlo nel prossimo futuro. In più molti sono i dubbi circa la sua effettiva operatività in quanto sono molteplici le questioni pratiche che andranno affrontate e risolte, non ultima proprio la volontarietà del finanziamento del Fondo che lo renderebbe una misura poco incisiva. C’è anche da risolvere il problema dell’ammontare delle risorse disponibili e di quelle necessarie (si parla di circa 100 miliardi di dollari annui, ma i Paesi in via di sviluppo sembra ne chiedano il quadruplo), degli obiettivi da perseguire ed entro quali orizzonti temporali, e della individuazione degli Stati contribuenti del Fondo e di quelli legittimati a ricevere il denaro. Inoltre bisognerebbe attenzionare quelle situazioni che potrebbero di fatto celare una sorta di accordo tra Stati che producono ingenti combustibili fossili (proprio gli Emirati Arabi Uniti) - i quali subirebbero le maggiori perdite in caso di una veloce riconversione a favore delle energie alternative - che potrebbero pertanto spingere verso un rallentamento della transizione energetica.

Nella Cop28 gli Emirati Arabi Uniti, che hanno ospitato l’evento, hanno contribuito con 100 milioni di dollari, anche l’Italia ha messo a disposizione 100 milioni di dollari, gli USA hanno destinato solo 17 milioni di dollari, la Germania ne ha promessi 100 milioni, il Regno Unito 50 milioni, mentre il Giappone ne ha destinati solo 10 milioni. Si sottolinea come l’impegno finanziario dello Stato italiano sia maggiore rispetto a Nazioni molto più forti, finanziariamente parlando, ed anche più responsabili dell’inquinamento ambientale. Ma forse questo impegno, un po’ sproporzionato, vuole in qualche modo andare a bilanciare i danni che si produrranno in termini di inquinamento dalla sottoscrizione di un contratto che l’Italia (con le società Tecnimont e Saipem del gruppo ENI) ha sottoscritto con gli Emirati Arabi (con la compagnia petrolifera nazionale Adnoc) per lo sfruttamento di due giacimenti di gas!

Altro aspetto che andrebbe valutato riguarda la ricerca degli effettivi ed ulteriori eventi che generano danni ambientali: in tal senso non risulta che qualcuno abbia mai stimato i danni derivanti dalle guerre. In particolare sembra che tutte le sofisticate armi messe in campo nei conflitti ormai sparsi in tutto il mondo, non possano generare inquinamento soprattutto nei paesi più poveri che spesso si trovano al centro di guerre non volute, ma solo subite!

Ma ci sono anche altre situazioni che inducono a sottolineare aspetti curiosi e problematici che forse avrebbero dovuto indurre ad una maggiore cautela o quantomeno alla necessità di definire meglio i soggetti beneficiari delle risorse del Fondo. Infatti secondo quanto fu deciso nel 1992 durante la Convenzione quadro delle Nazioni Unite sui cambiamenti climatici, la Cina è stata definita un Paese in via di sviluppo. Ma questo accadeva ben 32 anni fa e le cose oggi sono ben diverse e già da molto tempo. In questa veste quindi la Cina beneficerà delle risorse raccolte dal Fondo danni e perdite, istituito per aiutare i Paesi che subiscono le conseguenze più drammatiche dei cambiamenti climatici, pur essendo lo Stato che oggi emette più anidride carbonica (CO2) ed altri gas serra che sono la principale causa del cambiamento climatico. Ma allora, forse, bisognava essere più cauti e chiedere magari una preventiva revisione e verifica degli Stati che beneficeranno delle risorse, visto che il Fondo dovrebbe rappresentare anche uno strumento di giustizia climatica?

A voi tutte le considerazioni del caso.

 

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08 Aprile 2024

LA FINANZA DELLE REGIONI A STATUTO SPECIALE di Alessandra Di Giovambattista

LA FINANZA DELLE REGIONI A STATUTO SPECIALE

di Alessandra Di Giovambattista

16-12-2023

Le attuali cinque Regioni a statuto speciale, cioè il Friuli-Venezia Giulia, la Sardegna, La Sicilia, il Trentino-Alto Adige/Sud Tirolo diviso nelle due province autonome di Trento e Bolzano, e la Valle d’Aosta, sono previste nella Costituzione italiana all’articolo 116, a differenza dello Statuto Albertino che non ne riconosceva alcuna, alle quali sono state conferite particolari forme di autonomia in ragione di peculiari situazioni storico-geografiche.

Le competenze politico-amministrative e l’ordinamento finanziario sono disciplinati dallo statuto speciale di ogni singola Regione, che ha natura di legge costituzionale, e che ha bisogno di norme di attuazione. La procedura di modifica degli statuti speciali è disciplinata dall’articolo 138 della Costituzione e segue un iter legislativo aggravato di discussione e di maggioranza ed è volto a garantire la più ampia partecipazione degli organi regionali coinvolti. Le norme di attuazione sono invece emanate dal Governo e seguono anche esse un iter peculiare che si basa sulla riserva in via esclusiva degli statuti speciali nelle varie materie di interesse. Per le modifiche delle norme statutarie concernenti la finanza di ciascuna Regione speciale, gli statuti contengono delle disposizioni specifiche in ragione del carattere pattizio delle relazioni di ciascuna Regione autonoma nei confronti dello Stato. In effetti la caratteristica principale della finanza di questi territori si ritrova nel fatto che lo Stato concorda con ciascuna Regione, attraverso degli accordi bilaterali, le misure e le modalità del contributo per ognuna di esse agli obiettivi della finanza pubblica, l’eventuale attribuzione di nuove funzioni, la variazione delle aliquote dei tributi erariali esistenti o di nuova emanazione e la partecipazione attraverso contributi aggiuntivi e speciali per far fronte a specifici problemi.

Più nello specifico le norme statutarie definiscono ambiti e limiti del potere impositivo, tributario, finanziario e contabile di ogni Regione autonoma, riconoscono la titolarità del demanio e del patrimonio regionali, elencano tributi erariali e determinano la quota di gettito devoluta alle casse della Regione, definiscono il potere legislativo ed amministrativo in ambito finanziario.

Con riferimento all’aspetto finanziario poniamo prima l’attenzione sulla parte delle spese, in particolare sul contributo che lo Stato centrale chiede alle autonomie speciali per il risanamento dei conti pubblici, misura che nasce in attuazione di accordi bilaterali con le singole autonomie. In primo luogo lo Stato può predisporre degli accantonamenti a valere sulle risorse destinate alle Regioni a statuto speciale a titolo di compartecipazione ai tributi erariali; in secondo luogo le Regioni possono decidere di assumere oneri per l’esecuzione di funzioni direttamente trasferitegli dallo Stato: è il caso ad esempio delle province autonome di Trento e Bolzano che hanno assunto interamente o pro quota i costi delle università o dei parchi presenti sui propri territori, oppure della regione Valle d’Aosta che ha assunto gli oneri per lo svolgimento dei servizi ferroviari locali che per motivi ecologici vengono forniti utilizzando esclusivamente l’alimentazione elettrica; infine lo Stato applica le regole contenute nel patto di stabilità interno dove viene richiesto il raggiungimento del pareggio di bilancio a tutte le autonomie regionali. Ognuno di questi accordi bilaterali ha individuato il contributo della singola Regione alla finanza pubblica per il raggiungimento di finalità collettive; a titolo di esempio la Regione Valle d’Aosta vi ha contribuito a decorrere dal 2022 con circa 82 milioni di euro, il Friuli-Venezia Giulia ha partecipato con circa 432 milioni di euro a partire dal 2022 e fino al 2026, la regione Siciliana con 800 milioni di euro circa a decorrere dal 2022, la regione Sardegna con 306 milioni di euro a decorrere dal 2022, mentre il Trentino-Alto Adige/Sud Tirolo e le singole province di Trento e Bolzano a decorrere dal 2022 partecipano con un importo di circa 713 milioni di euro annui. Negli ultimi accordi bilaterali bisogna però sottolineare che lo Stato si è riservato la facoltà di modificare unilateralmente il contributo richiesto alle Regioni, quindi senza richiesta preventiva di accordo, ma solo qualora la modifica sia limitata nel tempo, adottata per eccezionali esigenze di finanza pubblica e per un importo non superiore al 10% del valore del contributo stesso. Un esempio in tal senso può essere rinvenuto nella riduzione del concorso alla finanza pubblica da parte delle Regioni e Province autonome a partire dall’anno 2020 per compensare la perdita di entrate tributarie che hanno subito i citati territori autonomi a causa dell’emergenza sanitaria da Covid-19. Per tale situazione è stato istituito nel 2020, con apposito decreto legge, un fondo con una dotazione di 4.300 miliardi di euro suddiviso in 1.700 miliardi di euro per le Regioni a statuto ordinario ed i restanti 2.600 miliardi di euro a favore delle Regioni a statuto speciale e delle Province autonome di Trento e Bolzano. Altra misura di sostegno è stata varata nel 2021, sempre a causa del protrarsi dell’emergenza sanitaria, ed è basata sulla possibilità che tali territori possano utilizzare l’avanzo di amministrazione che è stato accantonato e vincolato negli anni. Ciò con l’obiettivo di ampliare la capacità di spendita delle Regioni autonome sia per le spese correnti, sia per quelle di investimento.

La disciplina della finanza delle Regioni a statuto speciale e delle Province autonome coinvolge anche e soprattutto, il sistema delle entrate. Oltre ai tributi propri che tali Regioni possono istituire nell’ambito di una cornice di tipologie indicata dallo Stato, la fetta più consistente del gettito per tali territori è rappresentata dalle quote di compartecipazione ai tributi erariali maturati e riscossi nei loro territori (cioè il riversamento alle Regioni, pro quota o per intero, del gettito che percepisce lo Stato), che rappresentano delle entrate indirette, e che si presentano di gran lunga più considerevoli nell’ammontare rispetto a quanto di spettanza alle Regioni a statuto ordinario. Questo forte divario spiega il fenomeno della richiesta di migrazione di alcuni Comuni verso i territori autonomi in una sorta di richiesta di annessione (si pensi al caso di Cortina d’Ampezzo e degli altri comuni limitrofi al confine con il Trentino-Alto Adige/Sud Tirolo). La compartecipazione regionale ai tributi erariali, è nata a seguito della soppressione di alcuni trasferimenti statali diretti e viene individuata per ciascuna Regione sulla base della media dei consumi finali delle famiglie rilevati dall’Istat a livello regionale. Essa si sostanzia nella destinazione alle Regioni di una parte delle risorse finanziarie che incassa l’Erario. Ogni statuto speciale elenca la tipologia di imposte erariali di cui una quota deve essere destinata alla Regione autonoma, le diverse aliquote differenziate in ragione della natura del tributo, della base imponibile e delle modalità di attribuzione. È evidente che tali compartecipazioni, anche se definite come “tributi propri” non rappresentano una forma di gettito autonoma in quanto la loro istituzione, regolamentazione, contenzioso, ecc. sono di fatto totalmente gestite dallo Stato.

Tuttavia nella Regione Siciliana, nel Friuli Venezia Giulia e nel Trentino-Alto Adige la riscossione avviene direttamente da parte degli uffici finanziari delle Regioni stesse, mentre la Sardegna ha chiesto di recente di attivare la modalità di riscossione diretta. Invece per la Valle d’Aosta i tributi sono riscossi dallo Stato che provvede poi a devolverglieli nella quota spettante. Conseguentemente al diritto di riscossione, le Regioni partecipano anche all’attività di accertamento dei tributi riscossi sul proprio territorio. È interessante notare le differenti percentuali di compartecipazione al gettito erariale da parte delle quattro Regioni a statuto speciale e delle due Province autonome. In particolare:

  • la Valle d’Aosta ha una compartecipazione del 100% (quindi per la totalità) del gettito IRPEF, IRES, IVA e Accisa sui carburanti; inoltre le sono devoluti anche il 90% delle imposte erariali sugli affari (registro, bollo, ipotecarie, concessioni) e dei proventi del lotto che vengono incassati sul proprio territorio;

  • le due province autonome di Trento e Bolzano hanno una compartecipazione del 90% del gettito per IRPEF, IRES e Accisa sui carburanti, mentre dell’80% degli incassi per IVA, le sono inoltre destinate anche le entrate derivanti dalla raccolta di tutti i giochi con vincita in denaro sia di natura tributaria, sia di natura non tributaria; per completezza si sottolinea che anche alla regione Trentino-Alto Adige vengono devolute alcune altre imposte quali: il 100% del gettito derivante dalle imposte ipotecarie, il 90% delle imposte sulle successioni e donazioni e dei proventi del lotto, infine il 10% dell’IVA;

  • il Friuli Venezia-Giulia ha una compartecipazione del 59% per quanto riguarda IRFEF e IRES del 45% a titolo di IVA, di accisa sull’energia elettrica e sui tabacchi, delle entrate derivanti dai giochi e delle tasse automobilistiche, mentre è del 30% circa la devoluzione dell’accisa sui carburanti;

  • la Regione Siciliana ha una compartecipazione del 71% per IRPEF, del 100% per IRES e per tutte le altre entrate tributarie, del 36% per IVA e nessuna compartecipazione per l’Accisa sui carburanti e per i proventi del lotto;

  • la Sardegna ha una compartecipazione del 70% per IRPEF ed IRES, del 90% a titolo di IVA, di imposte ipotecarie, bollo e registro, concessioni, energia elettrica e le accise, mentre viene devoluto il 50% delle imposte sulle successioni e donazioni.

Si tenga presente poi che sono a carico diretto dello Stato le spese per l’apparato della giustizia, delle forze dell’ordine, per le infrastrutture ferroviarie, autostradali e per la gestione i trafori, per l’erogazione dei servizi INPS e gli oneri per il finanziamento alle istituzioni politiche ed amministrative statali.

Da quanto esposto risulta che le Regioni a statuto speciale hanno prerogative di molto superiori alle Regioni a statuto ordinario le quali sono dotate di minore autonomia finanziaria, non possono introdurre tributi, non hanno potestà legislativa esclusiva, non possono negoziare bilateralmente con lo Stato le modifiche degli statuti e le loro posizioni tributarie, e l’organizzazione amministrativa è direttamente gestita dai Comuni. Queste forti differenze ci introducono al problema della richiesta da parte di tutte le Regioni italiane di maggiore autonomia - nella difesa da posizioni di regionalismo che vedrebbero comunque un accentramento da parte dello Stato - che implicherebbe maggiore responsabilità di governo da parte dei poteri regionali verso la collettività presente sul territorio, anche attraverso la costante verifica delle risorse in loro possesso ed il loro utilizzo per garantire dei servizi efficienti ed efficaci. Ecco perché è entrata in crisi la suddivisione tra Regioni ordinarie e a statuto speciale e si è richiesta la c.d. “autonomia differenziata”, in quanto le diversità che ne avevano giustificato la separazione sembrano essere anacronistiche perché le problematiche di natura sociale ed economica investono oramai, indistintamente, tutto il territorio nazionale.

 

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16 Dicembre 2023

LA TUTELA DEI LAVORATORI CONTRO I RISCHI DERIVANTI DA ESPOSIZIONE AD AGENTI CANCEROGENI: POSSIAMO SPERARE IN UNA LEGISLAZIONE ATTENTA ED APPROFONDITA? di Alessandra Di Giovambattista

LA TUTELA DEI LAVORATORI CONTRO I RISCHI DERIVANTI DA ESPOSIZIONE AD AGENTI CANCEROGENI: POSSIAMO SPERARE IN UNA LEGISLAZIONE ATTENTA ED APPROFONDITA?

di Alessandra Di Giovambattista

29-7-2023

Il 9 marzo 2022 il Parlamento europeo ha varato la direttiva (UE) 2022/431 in tema di protezione dei lavoratori dai rischi derivanti da esposizione ad agenti cancerogeni o mutageni durante il lavoro, che va a modificare la preesistente direttiva 2004/37/CE, nel senso di estendere la protezione dei lavoratori anche alle sostanze tossiche per la riproduzione. La normativa italiana, ad oggi, valuta il rischio per i lavoratori esposti a sostanze tossiche nelle disposizioni contenute nel D.Lgs. 81 del 2008 con riferimento agli agenti chimici. La condizione di esposizione ad agenti cancerogeni e mutageni prevede, tra gli altri obblighi, la predisposizione di un registro che deve contenere informazioni sull’attività svolta dai lavoratori, le loro generalità, i dati relativi agli agenti tossici ed il valore dell’esposizione a tali agenti in termini di intensità, frequenza e durata. Il D.Lgs n. 151 del 2001 interviene invece in materia di sostanze tossiche per la riproduzione con riferimento alle lavoratrici gestanti con la finalità preventiva di dare una valutazione dettagliata delle sostanze più pericolose.

La nuova direttiva dovrà essere recepita dagli stati membri entro il 5 aprile 2024; le novità da essa recate sono così riassumibili:

  • oltre agli agenti cancerogeni e mutageni, si aggiungono, rispetto alla precedente direttiva, anche le sostanze tossiche per la riproduzione.

  • Per le sostanze tossiche per la riproduzione vengono fornite le seguenti definizioni: sostanza o miscela che corrisponde ai criteri di classificazione di categoria 1A o 1B di cui all’allegato I del regolamento CE n. 1272/2008; nell’ambito di questa definizione si differenzia la sostanza priva di soglia (cioè quella per la quale non esiste un livello di esposizione sicuro per la salute dei lavoratori, pertanto la più pericolosa) da quella con valore soglia (cioè quella per la quale esiste un livello di esposizione sicuro al di sotto del quale non vi sono rischi per la salute dei lavoratori). Quindi, i requisiti in materia di minimizzazione dell’esposizione dovrebbero applicarsi solo alle sostanze tossiche per la riproduzione per le quali non è possibile individuare un livello di esposizione sicuro e che sono identificate come “prive di soglia”. Per quanto riguarda tutte le altre sostanze tossiche per la riproduzione i datori di lavoro dovrebbero garantire che il rischio derivante dall’esposizione dei lavoratori sia ridotto al minimo.

  • Ulteriore novità è l’inclusione dei valori limite biologici per proteggere i lavoratori dall’esposizione ad alcuni agenti cancerogeni, mutageni o sostanze tossiche per la riproduzione; parallelamente si aggiungono anche diverse sostanze tossiche ponendo un valore limite espositivo nonché evidenziando le diverse osservazioni riconducibili alle differenti situazioni di utilizzo. Ad esempio per quanto riguarda il piombo ed i suoi composti ionici, la direttiva introduce il valore limite biologico e le idonee misure di sorveglianza sanitaria da implementare.

  • La logica su cui si basa il procedimento di prevenzione per i lavoratori esposti a sostanze tossiche per la riproduzione è quella della sostituzione/eliminazione della sostanza stessa, del ricorso a sistemi chiusi, della riduzione al minimo dei lavoratori esposti, della valutazione dell’esposizione per la verifica del rispetto dei valori di esposizione massima professionale consentiti.

  • È prevista la formazione periodica per i lavoratori esposti alle sostanze in argomento.

  • Si introducono la definizione ed concetti di sostanza tossica, così come sopra definita, e di “valore limite biologico”. Si considera come “valore limite”, se non diversamente specificato, la media ponderata in funzione del tempo del limite di concentrazione di un agente cancerogeno, mutageno o tossico nell’aria entro la zona di respirazione di un soggetto lavoratore in relazione a un periodo di tempo determinato. Per “valore limite biologico” ci si riferisce invece al limite della concentrazione nell’adeguato mezzo biologico del relativo agente, di un suo metabolita o di un indicatore di effetti.

  • Nella modifica all’articolo 18 bis della precedente direttiva si palesa la necessità di cambiare il valore limite per la polvere di silice cristallina respirabile; in particolare entro il 5 aprile 2025, la Commissione, dovrà elaborare una definizione e stilare un elenco indicativo dei farmaci pericolosi o delle sostanze che li contengono conformemente ai criteri per la classificazione come sostanza cancerogena di categoria 1A o 1B di cui all’allegato I del regolamento (CE) n. 1272/2008 o come agente mutageno o sostanza tossica per la riproduzione. Entro il 31 dicembre 2024 la Commissione dovrà proporre un valore limite per il cobalto e i composti inorganici di cobalto.

  • La UE, attraverso la nuova direttiva, analizza anche la produzione di farmaci pericolosi contenenti una o più sostanze che presentano delle caratteristiche che fanno sì che siano classificate come cancerogene, mutagene o tossiche per la riproduzione conformemente al regolamento (CE) n. 1272/2008.

Le disposizioni in tema di minimizzazione all’esposizione delle sostanze tossiche per la riproduzione dovrebbero applicarsi solo alle sostanze per le quali non è possibile individuare un livello di esposizione sicuro e che sono identificate come prive di soglia. Per tutte le altre sostanze i datori di lavoro dovrebbero garantire che il rischio derivante dall’esposizione sia ridotto al minimo, da qui la necessità di definire i valori limite biologici per proteggere i lavoratori dall’esposizione degli agenti cancerogeni, mutageni e tossici. Ovviamente i valori limite di esposizione professionale vincolanti non implicano l’abbandono degli altri obblighi a carico dei datori di lavoro che riguardano la riduzione dell’uso di tali sostanze e la prevenzione o la limitazione dell’esposizione dei lavoratori ai suddetti agenti tossici. Nello specifico sarà necessario, nell’ambito delle possibilità tecniche, sostituire l’agente cancerogeno, mutageno o tossico per la riproduzione con sostanze, o composti o procedimenti che si presentino meno nocivi per la salute dei lavoratori rispetto alla produzione fino a quel momento seguita; altra modalità sarà riconducibile al ricorso ad un sistema chiuso o altre misure volte a ridurre il livello di esposizione dei lavoratori. Si sottolinea poi che i nuovi limiti espositivi dovranno essere riportati nelle schede dati di sicurezza dei prodotti aziendali, sia nell’accezione della materia prima sia in quella del prodotto finito.

La UE dispone che la formazione per i lavoratori debba essere sufficientemente adeguata e approfondita qualora i lavoratori siano o possano essere esposti ad agenti cancerogeni, mutageni o a sostanze tossiche per la riproduzione, compresi quelli contenuti in determinati farmaci potenzialmente pericolosi. In questo senso il datore di lavoro deve fornire una formazione ai propri lavoratori che sia adattabile a nuove tipologie di rischi o a rischi mutati, a cui essi potrebbero essere sottoposti, o anche in caso di mutamento delle circostanze connesse al lavoro.

Vedremo nel prossimo futuro, entro il 5 aprile 2024, come l’Italia recepirà la direttiva in argomento, attraverso l’emanazione della legge di attuazione seguita dagli eventuali decreti applicativi, per aver chiare le ricadute in tema di salute e sicurezza sui luoghi di lavoro.

Oggi la situazione sembra non molto tutelante e forse ci si sarebbe aspettati uno schema di disegno di legge di recepimento della direttiva in esame (contenuto nella legge di delegazione europea 2022/2023) più specifico e più ampio in tema di garanzia dei lavoratori esposti a rischi tossici o cancerogeni o mutageni (di tale argomento si occupa l’articolo 6 della legge di delegazione europea). Si pensi che la stessa direttiva 2022/431, considerando le risultanze scientifiche più recenti, rappresenta che le sostanze tossiche per la riproduzione possono avere effetti nocivi sulla funzione sessuale e riproduttiva sia maschile sia femminile con conseguenze gravi ed irreversibili sulla salute dei lavoratori e della progenie. Ecco perché la nuova direttiva ha esteso i principi e le indicazioni precedentemente previsti nella direttiva 2004/37 in tema di sostanze cancerogene e mutagene con la finalità di garantire coerenza e un minimo livello di protezione alle situazioni che potrebbero essere tossiche per la riproduzione, con riferimento anche ai farmaci.

L’auspicio, in mancanza di un testo pubblico di recepimento da parte dell’Italia da poter verificare anticipatamente, è che gli obblighi dei datori di lavoro siano ampi ed impegnativi sul fronte della formazione ed informazione dei lavoratori - alla luce dei nuovi livelli di rischio individuati e della tipologia di rischi connessi alla funzione riproduttiva - e dell’aggiornamento dell’attuale sistema di sorveglianza sanitaria. Secondo diverse fonti ci si aspetta che l’aggiornamento del sistema di sorveglianza implichi la necessità che i controlli sui lavoratori proseguano anche dopo la cessazione dell’attività lavorativa senza oneri a carico del lavoratore stesso.

Si sottolinea poi che l’articolo 1, paragrafo 10, lett. C) della direttiva 2022/431 pone particolare enfasi sul fatto che tutti “i casi di cancro e di effetti nocivi sulla funzione sessuale e sulla fertilità delle lavoratrici e dei lavoratori adulti o sullo sviluppo della loro progenie che, in conformità delle leggi o delle prassi nazionali, risultino essere stati causati dall’esposizione a un agente cancerogeno, mutageno o a una sostanza tossica per la riproduzione durante l’attività lavorativa, devono essere notificati all’autorità responsabile”. Tale norma obbligherebbe a comunicare all’autorità controllante – in Italia è l’INAIL - tutti i casi con ricadute nocive al fine di potenziare, a fini preventivi, l’applicazione della disciplina in tema di esposizione dei lavoratori ad egenti tossici come finora definiti. In particolare la Commissione europea, prevedendo che gli Stati membri tengano conto delle informazioni fornite alla citata autorità di riferimento nella redazione delle relazioni presentate alla Commissione stessa, intende dare una valutazione circa l’attuazione pratica delle direttive recepite dai diversi Stati membri, nonché di ottenere informazioni quantitative circa i dati disaggregati per genere. Solo così la Commissione potrà effettuare una valutazione complessiva circa l’effettiva attuazione, da parte dei diversi Stati, delle direttive emanate tenendo conto anche delle ricerche e delle nuove conoscenze scientifiche verificatesi nei diversi ambiti. Come ricaduta di tali previsioni si ha che la “Commissione informa il Parlamento europeo, il Consiglio, il Comitato economico e sociale europeo e il comitato consultivo per la sicurezza e la salute sul luogo di lavoro dei risultati di tale valutazione e, se del caso, di tutte le iniziative volte a migliorare il funzionamento del quadro normativo”. In tale senso è anche previsto che gli Stati membri raccolgano dati appropriati e coerenti presso i datori di lavoro per garantire sicurezza ed assistenza ai lavoratori.

Si rammenta che in Italia il processo di riconoscimento delle conseguenze sanitarie dannose per i lavoratori in determinati ambiti, che è iniziato con la sentenza del 1979 della Corte di Cassazione nei confronti dell’IPCA di Ciriè, aveva evidenziato che “il tumore causato dal lavoro deve essere vagliato dal magistrato penale quale possibile reato di lesione personale colposa o omicidio colposo; e, prima ancora, deve essere portato a conoscenza del magistrato penale mediante referto da parte dei medici”. Però solo dopo poco meno di vent’anni con la pronuncia della Cassazione del 19 settembre 1997, n. 10750, si riconobbe la gravità della situazione che consistette nella condanna di un costruttore di un noto palazzo di Torino per omicidio colposo in danno di un lavoratore addetto ad operazioni di coibentazione con uso di prodotto contenente amianto e deceduto per mesotelioma pleurico.

Ad oggi purtroppo sembra che nel nostro Paese si sia abbassata la guardia sul sistema di sorveglianza delle patologie tumorali professionali sia perché si è carenti circa le attività connesse alla registrazione delle neoplasie occupazionali, sia perché mancano le notifiche all’autorità giudiziaria dei casi di tumore professionale certi o sospetti. In tale contesto si rende quindi indispensabile mappare e produrre dati ed informazioni sui luoghi di lavoro che apparentemente sembrano insospettabili di esposizione a rischio di cancro.

Ulteriore aspetto che dovrebbe adeguatamente essere valuto e garantito e che riguarda l’ampliamento dell’ambito di osservazione della direttiva nel settore dei farmaci, è relativo al fatto che spesso lavoratori, datori di lavoro ed autorità preposte all’applicazione della legge non hanno agevole eccesso ad informazioni chiare e aggiornate in merito al fatto che i farmaci rispondano o meno a criteri di non tossicità. Pertanto al fine di fare chiarezza sull’uso e sui rischi connessi alla manipolazione di tali farmaci pericolosi, è necessario esigere che gli operatori ed in particolare i ricercatori dei settori chimico/tecnologici attraverso le aziende, diano adeguate informazioni circa le ricadute cancerogene e tossiche dei componenti e dei principi attivi contenuti nei diversi farmaci utilizzati, ciò al fine di far chiarezza a favore dell’attività di prevenzione e contrasto dei rischi di tossicità per aiutare lavoratori e datori di lavoro ad identificarli e a contrastarli, ove possibile. Non senza contare che, in sede di valutazione dei rischi, il datore di lavoro sarà necessariamente chiamato a garantire che la sostituzione di farmaci pericolosi non vada a scapito della salute dei lavoratori. Un valido suggerimento potrebbe essere quello di mappare i diversi prodotti usati nelle aziende, isolando le sostanze riconducibili a quelle cancerogene contenute nell’allegato della direttiva in argomento al fine di valutarne la gestione e contrastarne gli effetti.

Attendiamo fiduciosi che il recepimento della direttiva nel nostro Paese possa contribuire a fare chiarezza circa l’uso di prodotti con ricadute cancerogene e mutagene nonché compromettenti la riproduzione con la speranza che tutto il settore produttivo si renda conto che determinate sostanze prive di soglia non vanno utilizzate essendo altamente pericolose sia per chi le maneggia ma, il più delle volte, anche per i consumatori che utilizzano prodotti e derivati di queste sostanze. Un’attenzione rilevante andrà posta anche sulla tossicità dei farmaci, e mi sento di sottolineare che in tale ambito la sperimentazione di farmaci e/o vaccini di nuova generazione ritrovi gli adeguati tempi di verifica e di approfondimento circa la ricaduta sugli esseri umani, tutti.

 

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29 Luglio 2023

LA VALUTAZIONE DELL’IMPATTO SOCIALE DEGLI ENTI DEL TERZO SETTORE di Alessandra Di Giovambattista

LA VALUTAZIONE DELL’IMPATTO SOCIALE DEGLI ENTI DEL TERZO SETTORE

di Alessandra Di Giovambattista

 26-11-2024

Il fenomeno delle associazioni senza scopo di lucro (anche conosciute come no profit) ha iniziato a svilupparsi in Italia nel dopoguerra, anche se occorre sottolineare la peculiarità delle attività di volontariato senza finalità di profitto svolte nel nostro Paese soprattutto dalle organizzazioni e confraternite religiose; ad esse deve riconoscersi, nel corso della storia, anche la più lontana, il merito di aver sollevato tanti indigenti dalle situazioni di estrema povertà e precarietà dando vita alle prime vere ed effettive associazioni con scopo benefico (basti ricordare i primi ospedali per i più poveri, le prime scuole per i bambini indigenti, i primi centri di accoglienza per persone con disabilità ed handicap). Invece le esperienze private più importanti, e che fungono da apripista, possiamo ritrovarle negli Stati Uniti dove anche prima della seconda guerra mondiale (all’incirca vero il 1914 con la Fondazione Cleveland), si iniziò a porre attenzione alle situazioni sociali più marginali che richiedevano, in risposta, delle attività di solidarietà. Si crearono pertanto associazioni filantropiche che, entrando in contatto - anche grazie alla diffusione dei mezzi di informazione - con realtà di disagio economico, sociale, sanitario, si ponevano l’obiettivo di provare a rispondere alle necessità spesso primarie di gruppi di soggetti. Infatti gli Stati, e soprattutto quelli basati su un approccio privatistico delle attività economiche, non volevano e non sapevano rispondere alle esigenze dei meno fortunati, così come non erano sensibili alle difficoltà che incontravano i Paesi più arretrati. Quindi queste associazioni, attraverso una politica di solidarietà ed anche di volontariato, cercavano di risollevare le sorti dei più deboli presenti sia all’interno della propria nazione, sia nei Paesi esteri.

Negli anni successivi il fenomeno dell’associazionismo senza scopo di lucro ha visto una rapida crescita e quindi anche gli Stati si sono visti costretti ad interessarsi a queste organizzazioni cercando di darne una chiave di lettura sia giuridica sia fiscale. In tale ultimo ambito, in ragione delle attività meritorie svolte e degli obiettivi etici perseguiti, questi enti, anche definiti enti del terzo settore (ETS), spesso godono di agevolazioni ed esenzioni fiscali o comunque di regimi tributari speciali più leggeri. Nascono così gli ETS - la cui definizione è fornita dalla riforma delle associazioni senza scopo di lucro contenuta nel decreto legislativo n. 117 del 2017 - che si pongono come un qualcosa di altro tra la sfera dello Stato e delle pubblica amministrazione (primo settore) e l’ambito del mercato e delle imprese (individuato come secondo settore). Quindi l’ordimento si arricchisce con un terzo settore formato da enti con finalità benefiche, civiche e di utilità sociale - i cui campi d’azione vanno dalla cura socio sanitaria, all’istruzione, alla formazione, all’aiuto di migranti, all’inserimento economico produttivo di persone con disabilità, vicinanza alle persone fragili e deboli - che, giocoforza, confliggono con l’impostazione classica delle entità a scopo di lucro. Anzi la loro attività è ricondotta al principio di sussidiarietà sancito dalla Costituzione e ne viene incoraggiata l’istituzione. Per le importanti funzioni sociali ed economiche svolte, anche gli ETS, come qualunque realtà associativa, hanno bisogno sia per motivi civilistici sia fiscali di avere un momento di rendicontazione (presentando il bilancio sociale) per fornire informazioni quali-quantitative utilizzabili sia all’interno dell’ente stesso, sia per tutti coloro che presentano degli interessi (c.d. stakeholders) con le finalità di non disperdere risorse e di valutare costantemente la gestione e le strategie migliorandone eventualmente piani e programmi.

È così che, molto rapidamente, si arriva al 12 settembre 2019 giorno in cui in Gazzetta Ufficiale è stato pubblicato il decreto del Ministero del lavoro e delle politiche sociali del 23 luglio 2019, contenente le linee guida per la realizzazione di sistemi di valutazione dell’impatto sociale (VIS) delle attività svolte dagli ETS. In particolare vengono individuati una serie di indicatori (report) per valutare l’opera svolta dagli enti no profit, finalizzata al raggiungimento di obiettivi sociali preordinati e valutati nel breve, medio e lungo periodo: pertanto gli indici di natura quali-quantitativa, sono stati creati per cercare di rappresentare oggettivamente e misurare le attività svolte, la programmazione futura e gli obiettivi raggiunti. Tali indicatori andranno applicati sulle risultanze dei bilanci sociali e messi a disposizione di tutti i soggetti interessati alla gestione degli ETS, i c.d. stakeholders.Questi ultimi sono individuabili tra: finanziatori e donatori (cioè coloro che intendono condividere e raggiungere gli obiettivi attraverso le erogazioni finanziarie liberali); i diretti beneficiari degli interventi (che hanno interesse a comprendere la qualità dell’attività svolta ed il miglioramento sociale raggiunto); i lavoratori, i collaboratori ed i volontari (che prendono consapevolezza del loro operato); i cittadini (che hanno un interesse a comprendere le ricadute sociali delle risorse impiegate in enti benefici); i soggetti pubblici (che hanno l’obbligo di fornire tutte le informazioni circa l’utilizzo delle risorse pubbliche destinate agli ETS beneficiari di eventuali finanziamenti). In termini più tecnici il decreto si esprime nel senso di sottolineare che il sistema di valutazione dell’impatto sociale, implementato in via sperimentale, ha come scopo quello di far emergere e conoscere il valore aggiunto prodotto dagli ETS, la sostenibilità della loro azione individuandone eventuali punti di forza o di debolezza, nonché le modifiche apportate nel contesto collettivo di riferimento dalle politiche sociali.

Un ulteriore aspetto che beneficerà dalla trasparenza derivante del processo di valutazione dell’attività svolta, attraverso gli indicatori di impatto sociale, è rappresentato dalla possibilità che tali enti possano accedere a bandi e finanziamenti pubblici. Pertanto l’obiettivo concreto è quello di poter fornire dati ed informazioni che siano i più oggettivi possibili visto che le attività svolte dagli ETS esulano da approcci di natura strettamente efficientista (valutabili in estrema sintesi con il profitto che nasce dal confronto tra costi e ricavi di periodo) e sono invece indirizzate verso obiettivi di natura qualitativa e pertanto di efficacia (dove conta il raggiungimento di obiettivi di natura sociale, sanitaria, scolastica, ecc) che difficilmente sono rappresentabili in termini di costi e ricavi, e movimenti di attività e passività, di natura esclusivamente economico-finanziaria. Per ora tale valutazione non è però considerata obbligatoria in quanto, come detto, il sistema è implementato in via sperimentale; tuttavia l’utilizzo della VIS, rendendo trasparente l’operato degli ETS, permetterà agli eventuali finanziatori ed agli stakeholders in generale di partecipare con più cognizione e condivisione al raggiungimento degli obiettivi che si pone l’ente, nonché, come già detto, di poter partecipare a bandi di affidamento di servizi di interesse generale emanati da enti locali ed amministrazioni pubbliche in generale. Pur nella sua caratteristica di utilizzo facoltativo, la VIS viene inquadrata all’interno di linee guida, espresse dal decreto stesso, che ne indicano principi e contenuti minimi lasciando quindi un elevato grado di autonomia agli enti che vogliano utilizzarla; in particolare i principi a cui la VIS deve ispirarsi sono: la rilevanza, secondo la quale le informazioni fornite devono essere capaci di dare evidenza degli effettivi obiettivi posti; l’intenzionalità, secondo la quale i dati forniti devono avere un contenuto concreto e funzionale alla programmazione decisa; affidabilità, in ragione della quale le informazioni devono essere precise, veritiere, non di parte e con indicazione delle specifiche fonti di provenienza; misurabilità, secondo cui i parametri quantitativi applicabili ad alcuni aspetti devono essere verificabili e permettere di comporre indici ed indicatori valutabili nel tempo (breve, medio e lungo periodo) e nello spazio (comparabilità con realtà analoghe).

L’obiettivo che il legislatore si è posto è quello di poter valutare all’interno ed all’esterno l’operato degli ETS con la speranza di rendere sempre più efficace e sostenibile l’azione da essi svolta garantendo risultati che evitino di disperdere risorse e cercando di integrare ed inserire nelle comunità gli emarginati, gli esclusi e tutti coloro che per i più disparati motivi si trovano nelle zone più periferiche e deboli delle nostre società e delle nostre esistenze.



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26 Novembre 2024

LE AGEVOLAZIONI FISCALI PER LA ZONA ECONOMICA SPECIALE UNICA SUD di Alessandra Di Giovambattista

LE AGEVOLAZIONI FISCALI PER LA ZONA ECONOMICA SPECIALE UNICA SUD

di Alessandra Di Giovambattista

04-11-2024

Con le modifiche apportate al decreto legge n. 91 del 2017, istitutivo delle 8 aree meridionali indicate come zone economiche speciali (ZES), è stata cambiata la strategia della programmazione dello sviluppo delle zone del Sud; ciò è avvenuto attraverso l’emanazione del decreto legge n. 124 del 2023 che ha proceduto all’individuazione di un’unica zona economica speciale che coinvolge tutto il Meridione italiano. A tale nuova disciplina sono poi state apportate modifiche sia con il collegato alla legge di bilancio per il 2025, in materia fiscale, cioè il decreto legge 155 del 2023, sia con la legge di bilancio stessa. L’obiettivo della ZES unica Sud è di far sviluppare in modo sinergico ed efficiente tutte le attività presenti sul territorio nonché di incentivare anche nuove strutture per valorizzare zone che presentano potenziale economico ma che finora hanno stentato a decollare.

Per provare a fare un’analisi circa l’opportunità dell’organizzazione territoriale e della governance unica per il Sud, bisogna prima di tutto riflettere sulle cause per le quali questa parte d’Italia rappresenta il fanalino di coda del tessuto economico nazionale mentre per la Comunità europea è una zona in cui i risultati e le performancesono lontani dalla media europea. Il recupero produttivo del Meridione d’Italia è una questione che riguarda sia il nostro Paese sia l’Europa: se in Italia il prodotto interno lordo (PIL) pro-capite e l’occupazione nella loro totalità non riescono a crescere è perché la nostra Nazione marcia a due velocità, con un centro-nord che è sulla media europea ed un centro-sud che ne è al di sotto del 75%, ma in alcune zone anche del 100% (per un approfondimento si consulti l’ottavo Rapporto sulla Coesione e lo sviluppo dell’Unione europea presentato nel 2022).

Eppure il Sud produce attualmente il 50% dell’energia rinnovabile italiana e questo potrebbe rappresentare un esempio della concreta possibilità per il Meridione di candidarsi come punto di raccolta e stoccaggio delle energie rinnovabili; ma per far questo occorre efficientare amministrazioni ed infrastrutture, potenziare i porti e stimolare la crescita delle aziende nei territori circostanti che si presentano come aree essenziali nel Mediterraneo per gli approvvigionamenti delle materie prime destinate sia al nostro Paese sia all’Europa.

In prima analisi cerchiamo di valutare sinteticamente la situazione che si era delineata sul finire del 1800 e nei primi decenni del novecento, partendo dalle parole di Francesco Saverio Nitti, Presidente del Consiglio dei Ministri del Regno d’Italia tra il 1919 ed il 1920, che nel suo libro “Scienze delle finanze Nord e Sud” scrisse testualmente: “dal Regno delle due Sicilie furono ritirati ben 443 milioni di monete di vario conio, mentre il Regno di Sardegna ne aveva soltanto 27 milioni”, quindi solo il 6% rispetto al “Regno di Napoli che nel 1857 era lo Stato italiano con la maggiore solidità finanziaria, scarso debito, poche imposte ben armonizzate!”. Questa analisi dei fatti fu confermata, successivamente da Antonio Gramsci (nel suo libro “Temi sulla questione Meridionale” del 1926) il quale evidenziò “l’emigrazione di ogni denaro liquido dal Mezzogiorno al Settentrione per trovare maggiori e più immediati utili nell’industria”. Con questi dati si può quindi concludere che una questione meridionale non sembrava esistere prima dell’unità d’Italia e l’impoverimento del Sud da parte del Nord avvenne con il placet della classe politica, sostanzialmente a favore del Regno Sabaudo, che ne sottovalutò la portata in quanto non voleva assolutamente che si palesasse il problema. Poi con lo scoppio della guerra mondiale furono create aziende di forniture militari localizzate essenzialmente al Nord; ciò generò un ulteriore flusso a senso unico di risorse pubbliche prelevate su tutto il territorio italiano a favore delle attività produttive localizzate sul territorio settentrionale.

Nel ripercorrere rapidamente le misure più recenti e significative che cercarono di colmare il divario che nei primi del novecento si era formato tra Sud e Nord ci si imbatte, dopo la seconda guerra mondiale, e precisamente nel 1950, con la Cassa per il Mezzogiorno - che lavorò per 40 anni, fino al 1984 – creata come un ente con autonomia progettuale e decisionale che doveva andare ad affiancare (anche sostenendo investimenti privati) gli interventi predisposti dallo Stato finalizzati ad eliminare il divario Nord-Sud. In quel periodo furono costruite le prime grandi infrastrutture del Meridione e il progetto partì dal considerare il Sud come un’unica grande area dove le problematiche di base dovevano essere risolte con uno sguardo unitario, andando al di là della visione localistica. L’esperienza della Cassa, che nei primi due decenni dalla sua costituzione aveva effettivamente migliorato le condizioni di vita delle popolazioni meridionali, si concluse negli ultimi 15 anni di attività con inchieste che evidenziarono sprechi, inefficienze e rapporti clientelari tra classe politica, cittadinanza e organizzazioni malavitose presenti sul territorio. Negli anni 90, dopo che la Cassa per il Mezzogiorno fu commissariata per due anni, dal 1984 al 1986, furono poste in essere delle misure che avrebbero dovuto, da una parte, contrastare la disoccupazione con i contratti d’area, dall’altra ammodernare le infrastrutture ed i servizi del Paese attraverso i patti territoriali. Ma furono misure che non sortirono alcun effetto ed anche in questo caso si dispersero risorse attraverso una gestione politico amministrativa diseconomica.

Tralasciando poi misure disorganiche e a macchia di leopardo che si sono succedute negli anni successivi, si arriva agli obiettivi che si pone il PNRR di rilanciare il territorio meridionale alla ricerca del suo efficientamento produttivo e soprattutto burocratico.

L’Unione Europea ha messo in campo molte risorse finanziarie, anche attraverso i fondi europei, ma sembra che finora quelle investite nel Sud Italia non riescano a far decollare la ripresa economica. Si parla così di “trappola dello sviluppo intermedio”, come evidenziato nel citato Rapporto sulla coesione e lo sviluppo dell’Unione europea, in cui nelle regioni meno sviluppate dell’Europa meridionale (tra cui la parte sud dell’Italia) e Sudoccidentale a seguito di investimenti pubblici si assiste dapprima ad una crescita del PIL, ma dopo un certo punto il processo di sviluppo si arresta o addirittura retrocede ai livelli iniziali e si cade nel declino e nella stagnazione. E questo è ancora più evidente se si considera che le aree meno sviluppate dell’Europa orientale, grazie ai fondi europei, stanno invece recuperando terreno rispetto alla media dell’unione europea e ciò è dovuto al fatto che in tali Paesi il costo del lavoro è inferiore rispetto al meridione italiano. Così come è inferiore la produttività del Sud rispetto ai paesi del Nord Europa, ragione per cui gli investitori privati non sono interessati ad investire. Nel rapporto sono esplicitate ulteriori cause del divario che riconducono alle modalità di gestione ed alle strategie implementate dai Governi nazionali. Ed infatti alcuni Stati membri, dopo avere ottenuto fondi europei, smettono di finanziare con risorse pubbliche interne gli investimenti nelle aree depresse. Si assiste quindi un effetto sostituzione (c.d. crowding out) in cui, una volta che ci sono fondi europei destinati alle zone più arretrate, le risorse finanziarie italiane invece che essere distribuite su tutto il territorio, vengono concentrare in poche zone già a vocazione industriale penalizzando ancora di più le aree deboli.

Così operando, il risultano finale è un depotenziamento delle misure in quanto si disperde l’effetto sinergico delle risorse utilizzate ma soprattutto le aziende non hanno lo stimolo a fidelizzare, con risultati performanti, gli investitori, (perché rappresentati da un soggetto istituzionale europeo, sovranazionale riguardo al quale non ci si sente direttamente coinvolti), generando invece un processo di deresponsabilizzazione dell’impresa verso la propria Nazione, la quale, paradossalmente, utilizzerà parte delle imposte prelevate sugli utili prodotti per finanziare aziende di altre zone, spesso non svantaggiate!

Ed è invece nelle zone più deboli che è necessario, dopo l’iniziale ripresa dovuta allo sviluppo delle infrastrutture, passare a curare l’espansione ed il consolidamento dei processi innovativi, della ricerca, della formazione qualificata - anche attraverso campagne di finanziamenti collettivi (c.d. crowfounding) - e il cambiamento di mentalità nella gestione dei servizi pubblici e nei Governi locali che devono essere effettivamente al servizio dei cittadini. Questo con uno sguardo di programmazione di lungo periodo (anche ultra decennale) che permetta di sostenere e consolidare l’andamento migliorativo che si innesca con le politiche di sostegno.

È su questi presupposti che si deve riflettere sulla sfida aperta con la ZES unica Sud affinché questa misura diventi un’effettiva opportunità e non un ulteriore buco nell’acqua con dispendio di risorse e consolidamento di un’immagine di inefficienza del Meridione, ma non solo, bensì di tutto il sistema Italia. Il Sud ogni anno perde circa 130.00 giovani, per la maggioranza laureati, che emigrano verso paesi esteri o verso le zone del nord Italia; eppure la Campania è la terza regione in cui sono presenti start up innovative!

Questi contrasti andrebbero letti con più attenzione. Una prima riflessione va fatta sulla effettiva opportunità degli incentivi fiscali che non andrebbero dati a pioggia, sulla base di programmi che spesso non sono del tutto veritieri circa la sostenibilità ed efficienza degli investimenti o che non sono del tutto ben compresi da una classe burocratica poco avvezza alle questioni pratiche economiche e più orientata verso forme di puro garantismo giuridico che può creare blocchi di procedure attraverso reiterati nulla osta ed autorizzazioni (si pensi alla Conferenza dei servizi dove saranno presenti numerosi ed eterogenei soggetti). Andrebbero invece premiate in corso d’opera le realtà aziendali più meritevoli (eliminando il clientelismo politico che abbiamo visto nell’esperienze precedenti), dove i giovani, affiancati da tutor, possano iniziare la propria idea imprenditoriale e proseguirla con fondi pubblici, adeguatamente remunerati (pena la restituzione), nell’intento di evitare finanziamenti a poche singole aziende e di sfidare e competere con le realtà straniere più efficienti. Il processo di verifica degli obiettivi e risultati andrebbe regolarmente monitorato, da persone capaci e trasparenti, al fine di riflettere sui risultati intermedi (c.d. feedback) ed effettuare modifiche in itinere che permettano di migliorare gli esiti finali e consentire alle neo realtà imprenditoriali del Sud di continuare da sole la corsa verso il successo.

Un altro spunto di riflessione riguarda le politiche fiscali agevolative che, seppur valide nei meccanismi e nei risultati (ad esempio la DIT - Dual Income Tax - che sostanzialmente premiava le forme di autofinanziamento aziendale, sostituita, nel tempo da varie misure temporanee di agevolazione degli investimenti, le c.d.“Tremonti”) ed in base alle quali le aziende programmano i propri piani finanziari, dopo pochi anni vengono totalmente stravolte o abolite. Questa poca coerenza nella gestione della politica fiscale mina la fiducia dei cittadini ed allontana gli investitori, nazionali ed esteri.

Pertanto se si vuole che il modello ZES unica Sud sia un’opportunità positiva e inneschi il processo di sviluppo delle zone del Sud occorre prima di tutto riflettere sugli errori passati e chiedere che la classe politica ed amministrativa faccia molti passi indietro: che siano guide e non ostacoli. La finalità è quella di innescare un processo virtuoso valido per la crescita del Meridione a favore di tutto il tessuto economico della Nazione; un Paese che marcia a velocità diverse è diviso in sé stesso e pertanto non riuscirà mai a raggiungere uno sviluppo armonioso e completo ed anzi genererà astio e incomprensione tra connazionali. In questo senso non sono da condividere posizioni di separatismo territoriale e un’attenzione particolare deve essere rivolta al federalismo differenziato che, come tutti gli strumenti, può nuocere o migliorare a seconda delle modalità utilizzate nella sua gestione.

 

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04 Novembre 2024

EUROPA E ITALIA PER LA SOSTENIBILITA’ IN AFRICA E NEL MEDITERRANEO

EUROPA E ITALIA PER LA SOSTENIBILITA’ IN AFRICA E NEL MEDITERRANEO

 

Lunedì 4 marzo 2024 a Roma presso la sede del Parlamento e della Commissione europea in Italia, Enrico Molinaro, Segretario Generale della “Rete Italiana per il Dialogo Euro-Mediterraneo” (Rete Italiana per il Dialogo Euro-Mediterraneo - Capofila della Fondazione Anna Lindh in Italia),), ha aperto i lavori della Conferenza Internazionale “L'Unione europea e l'Italia per la sostenibilità in Africa e nel Mediterraneo allargato”, assieme ai rappresentanti istituzionali. La RIDE ha promossotale conferenza in collaborazione con la Rappresentanza della Commissione Europea in Italia e Prospettive Mediterranee, con il contributo dell’Ufficio del Parlamento Europeo in Italia, laFondazione PRIMA (Segretariato italiano), il Dipartimento delle Scienze Sociali, Politiche e Cognitive dell'Università di Siena (UNISI), Euro-Gulf Information Center (EGIC).

La conferenza in oggetto costituisce la prima di una Trilogia di conferenze in Italia su Sostenibilità e la Cucina Identitaria, seguito da un evento a Roma Lunedì 20 Maggio 2024, e un evento a Scicli, in Sicilia, Giovedì 12 Settembre 2024, nel contesto dell'iniziativa annuale inter-istituzionale Euro-Med diMedi-Jer, quest’anno alla VI edizione.

 

Tra i temi affrontati, innanzitutto si sottolinea l’importanza della salute del territorio del vicino Continente africano che è primaria per la diffusione dell’acqua, delle emergenze e dell’emigrazione. Curare la terra significa alimentarsi senza aiuti. L’impegno continuo deve essere teso dunque allosviluppo sostenibile ed al ciclo produttivo economico.

Inoltre, l’Italia al centro del Mediterraneo è in posizione strategica con l’Africa.

Cooperazione poi significa supportare i Paesi africani, per una nuova sostenibilità nostra e loro.

L’Europa non ha fatto molto per gli investimenti, la sicurezza e la prevenzione.

La cooperazione complessiva per l’estensione di un euro-piano può partire dal Mediterraneo, serbatoio di risorse e relazioni.

Sono questi anni difficili, di crisi economica, crisi sanitaria, crisi militare: dunque Europa e Africa devono interagire in un dialogo continuo ed aperto, per la salvezza del pianeta.

Da considerare che l’Italia ha una conoscenza millenaria con il Nord Africa, con la cultura, la storia e le tradizioni.

E’ necessario dunque un approccio nuovo con i Paesi africani, non tralasciando le dolorose vicende coloniali, per rappresentare mutua assistenza per una transizione possibile.

Esistono divari tra Nord Africa e Africa subsahariana, dove si assiste ad una fuga costante dalla campagna alla città e l’emigrazione dal continente per tensioni e povertà diffusa. I Paesi più poveri richiedono dunque una pianificazione agricola.

L’irrogazione dell’acqua può registrare falle nello scorrimento idrico.

Il recupero delle terre degradate deve andare poi a beneficio delle comunità locali, dove non vi è una produzione su larga scala.

Le piante indigene salvaguardano i terreni per l’ombra e l’umidità.

La partecipazione alla coltivazione dei terreni contribuirà a rendere accessibile a tutti la risorsa alimentare nell’ambito di una certa sostenibilità ambientale. L’insediamento dalle aree rurali in città determina agglomerati di costruzioni urbane, dove parte della popolazione vive in condizioni precarie.

Ma la cultura multietnica però è molto lontana ancora.

L’Africa ha una grande variazione ambientale ed un clima differente. Ed a tale proposito si discute dei meccanismi che regolano gli eventi estremi, di medio-lungo periodo per i cambiamenti climatici.

Dunque più ragioni spingono ai movimenti all’interno ed all’esterno di un Paese. Tra questi la mancanza di coesione interna accelera l’instabilità in Africa. Quindi l’obiettivo è di migliorare l’esistenza, gli approvvigionamenti e viaggi culturali e socio-economici.

Bisogna dunque pianificare l’emigrazione e l’immigrazione comuni.

I problemi d’altronde non sono di oggi, stanno sul tappeto da più di un decennio. Ma il Governo meloni è il primo ad aver preso posizione netta nella situazione incresciosa e difficile nella quale versa il nostro Paese sia per quanto riguarda il versante immigrazione clandestina che si registra da una parte all’altra delle sponde del Mediterraneo, sia nei confronti dell’Africa e dei Paesi afro mediterranei, sia nei confronti dei Peasi europei, il tutto reso più difficile dall’approvvigionamento di energia fino ad oggi giunte dalla Russia di Putin. Che oggi la guerra Ucraina Russia ha reso impossibile. Dunque il governo Meloni si è precipitato ad aprire negoziati di partnenariato con i Paesi d’Africa. Ne è testimonianza il Vertice Italia Africa che si è tenuto lo scorso 29 gennaio presso il Senato. Per la primavolta infatti il Vertice si è tenuto presso il Parlamento, di qui il carattere politico istituzionale che havisto il coinvolgimento di tutte le rappresentanze istituzionali, dal presidente della Repubblica Mattarella che ha ospitato i Capi di Stato africani presso il Quirinale il 28 gennaio ai rappresentantiistituzionali politici, in primis Giorgia Meloni e Tajani, ministro degli affari esteri, che hanno aperto i lavori del vertice alla presenza delle istituzioni europee ivi presenti.

Bisogna incrementare le relazioni per l’emergenza che viviamo, che deve vedere in primo piano Italia, Europa e Africa interagire con rapporti di partenariato tra Stati.

La cultura è molto importante ed investire sui giovani è fondamentale: saremmo pronti ad una cooperazione con gli studenti delle università del Mediterraneo. Lo studio delle arti, dell’opera lirica potrebbero essere oggetto di studio per conoscere un patrimonio di tradizioni. A tale proposito si registra la presenza della ormai famosa cantante lirica, Felicia Bongiovanni, che tra l’altro ha portato la musica lirica italiana in Africa, in partcolare in Etiopia in occasione dell'inaugurazione dell'Auditorium "Giuseppe Verdi" dove la soprano si è esibita in concerto, alla presenza del Presidente della Repubblica italiano.

Il patrimonio culturale marittimo euromediterraneo è stato caratterizzato negli ultimi tempi da azioni tese alla conservazione e valorizzazione socio-ambientale.

Questa consapevolezza comune diviene strumento per valorizzare il territorio e il paesaggio e per dareforza al lato economico e sociale.

L’interesse al patrimonio archeologico subacqueo è oggetto di un piano partenariale di consorzi, grazie a progetti di partner istituzionali e territoriali di sette Paesi dell’area euromediterranea.

Importante è la visione del patrimonio culturale marittimo con l’idea di integrare il patrimonio materiale e immateriale con le filiere tradizionali artistiche, dell’artigianato e della gastronomia.

Diversi attori sono interpreti dei processi di una possibile valorizzazione del patrimonio culturale marittimo su base locale, nazionale e internazionale: coloro che hanno strutture e servizi per la protezione del patrimonio nazionale e/o regionale ed i soggetti dalla comprovata esperienza tecnica e scientifica.

Partendo dalla situazione dei Paesi nello spazio geografico, dal limite delle acque e dal programma di attuazione è stato possibile accertare esperienze significative, per l’area euromediterranea.

Punti di forza del progetto sono studi e ricerche, come supporto ad interventi mirati.

Bisogna promuovere mostre, convegni sulla cultura e storia del mare per sensibilizzare il pubblico, promuovere il patrimonio turistico, garantire la protezione delle coste marine per conservare lo stato dei luoghi.

Bisogna promuovere tutte le conoscenze che danno visione del patrimonio culturale euromediterraneo per valorizzare il rapporto socio economico tra i Paesi del Mediterraneo.

Davide Dionisi, già responsabile del Servizio internazionale de L’Osservatore Romano e per oltre 25 anni a Radio Vaticana - Vatican News, inviato speciale del Governo italiano per la libertà religiosa, infine risponde a questioni poste per AfricanPeoplenews, per cercare un dialogo che esalti, enfatizzi una diplomazia della pace fondamentale in questo momento per la questione che si è riaperta in Medio Oriente, di pari passo con la diplomazia religiosa e diplomazia primaria , dove bisogna salvaguardare i civili poiché la perdita di vite umane è incolmabile. La religione non può essere utilizzata come pregiudizio. Di qui l’importanza di un appello che apra una via alla soluzione del conflitto nel riconoscimento delle minoranzereligiose, dove la tutela della vita offre possibilità di redenzione a chi ha compiuto atti gravissimi.







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01 Aprile 2024

LE CURE PALLIATIVE COME POSSIBILE ALTERNATIVA ALL’EUTANASIA di Alessandra Di Giovambattista

LE CURE PALLIATIVE COME POSSIBILE ALTERNATIVA ALL’EUTANASIA
di Alessandra Di Giovambattista

08-02-2024


Il suicidio assistito come tecnica utilizzata per procurare anticipatamente la morte di un malato che non ha possibilità di guarigione, e che pertanto si trova di fronte ad una patologia irreversibile, non è regolamentato nello Stato italiano. Ad oggi non esiste una legge nazionale bensì solo una sentenza della Corte Costituzionale (la n. 242 del 2019) che ha dichiarato non punibile colui che agevola la richiesta di suicidio assistito, ma solo nel caso ricorrano quattro condizioni: che il soggetto sia capace di formulare in modo consapevole, autonomo e libero il proposito di suicidarsi, che il malato sia tenuto in vita da trattamenti di sostegno vitale e sia affetto da patologia irreversibile, che tale stato sia fonte di sofferenze fisiche o psicologiche che il malato reputa intollerabili, e che le modalità di esecuzione siano verificate da una struttura pubblica del servizio sanitario nazionale (SSN), previo parere del Comitato etico territorialmente competente.
Occorre sottolineare che, nonostante la sentenza della Corte Costituzionale, il SSN così come i Comitati etici territoriali spesso non sono in grado di fornire risposte immediate alle richieste di morte volontaria assistita ed impiegano mesi prima di verificare la presenza delle quattro condizioni. Per tali motivi alcune regioni hanno ritenuto che, in presenza della citata sentenza e vista la difficoltà di operatività nazionale, la disciplina possa passare alla competenza della normativa regionale; così sono 12 le Regioni che hanno iniziato l’iter di leggi regionali ad iniziativa popolare che predispongano la richiesta di suicidio assistito e garantiscano tempi adeguati affinché i controlli necessari vengano svolti dai soggetti competenti.
Secondo l’Associazione “Luca Coscioni”, che porta avanti la battaglia per il diritto al suicidio assistito, nel 2023 sono state tre le persone che hanno avuto accesso alla pratica della morte volontaria assistita nelle regioni Veneto, Friuli-Venezia Giulia e Toscana. Invece altri tre malati si sono recati in Svizzera per la pratica dell’eutanasia. E’ di questi giorni, tuttavia, la notizia che in Veneto la legge sul fine vita, spaccando il voto dei rappresentanti di centro destra contrari alla norma, non sia stata approvata mancando il quorum della maggioranza assoluta.
Questa in sintesi la situazione in Italia; si potrebbe dire una situazione di stallo che dovrebbe per conseguenza, predisporre ad un’apertura e ad un incentivo verso l’organizzazione ed il finanziamento di forme di cure palliative che si potrebbero porre come valido sostituto alle pratiche dell’eutanasia. Queste ultime presentano sicuramente un impatto psicologico, etico e medico molto dirompente e sicuramente difficile da accettare da parte dei diversi attori coinvolti in questa pratica estrema, primo fra tutti il malato.
Vediamo nello specifico: in Italia il diritto fondamentale alla tutela della salute è garantito dall’articolo 32 della Carta Costituzionale. La legge n. 38 del 2010, sulla scia di tale norma e delle sollecitazioni formulate dall’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS), ha sottolineato il diritto ad accedere alle cure palliative ed alla terapia del dolore, modalità di cura spesso fornite da Enti del terzo settore e da varie realtà associative, che hanno come obiettivi sia il sollievo dal dolore sia di evitare nella maniera più efficace, inutili sofferenze. In tale legge le cure palliative non sono associate al momento prossimo alla fine della vita, ma sono concepite prima di tutto come cure iniziali di malattie inguaribili con evoluzione infausta al fine di accompagnare sin da subito il paziente, anche pediatrico, ed i propri familiari in un percorso di terapia, affiancata a quella più strettamente medica e specialistica. Questo percorso dovrebbe consentire di affrontare in modo più sereno e condiviso il decorso della patologia, anche in coerenza con lo sviluppo della ricerca scientifica e la crescente disponibilità di farmaci che siano in grado di permettere un prolungamento dell’aspettativa di vita in condizioni umane dignitose. Le cure palliative sono da intendersi nell’accezione più ampia del termine dove, pur nella consapevolezza che molte situazioni croniche non possono essere guarite, si cerca di lenirle e curarle non solo negli ultimi momenti di vita, ma anche durante percorsi di durata pluriennale.
In tale ambito la carta europea dei diritti del malato del 2002 così recita: ”Ogni individuo ha il diritto di evitare quanta più sofferenza possibile in ogni fase della sua malattia. I servizi sanitari devono impegnarsi ad assumere tutte le misure utili a questo fine, fornendo ad esempio cure palliative e semplificando l’accesso dei pazienti ad esse”.
Ma quando sono nate le cure palliative e in cosa consistono? Si deve all’infermiera e medico Dott.ssa Cicely Saunders, di origine inglese, la nascita delle moderne cure palliative portate avanti dal movimento “hospice”. Fu promotrice di un metodo innovativo con il quale dimostrò che c’è sempre qualcosa che si può fare per alleviare il dolore del malato, a prescindere dalla speranza di vita, rispettando dignità e decoro, ma soprattutto sottolineando che fare del bene può cambiare la vita non solo di chi riceve ma anche di chi dona.
In particolare il movimento “hospice”, che ha origine nel XIX secolo a Lione (in Francia) dove per la prima volta viene utilizzato il termine Hospice, si prende cura dell’assistenza dei malati in fase terminale. Il principio su cui si basa questo movimento è quello che la persona anche se gravemente malata ed inguaribile, può comunque essere curata, cioè le possono essere somministrate delle cure che vanno aldilà delle terapie mediche fino ad arrivare ai supporti psicologici, etici e sanitari a favore del malato, dei familiari e degli amici. La Saunders fondò nel 1967 il St. Christopher hospice dopo circa venti anni di ricerche e studi; è non solo un luogo di accoglienza e assistenza ma è anche un luogo in cui la cura si connette con l’esperienza della ricerca e dell’insegnamento. Da qui parte il moderno modello di hospice che si diffonderà in Europa ed in diversi altri paesi del mondo.
In Italia le cure palliative hanno fatto il loro ingresso intorno al 1980, grazie alla spinta del Dott. Vittorio Ventafridda (fondatore della Società italiana di cure palliative) e della Fondazione Floriani (di cui il Dott. Ventafridda fu direttore scientifico); da quel momento si sono sviluppate nel nostro paese soprattutto organizzazioni non-profit che hanno provveduto, con la loro attività a colmare le lacune del servizio sanitario ospedaliero in questo ambito. Solo nel 1999 le cure palliative sonno state riconosciute ufficialmente ed inserite tra gli obiettivi del nostro SSN e da allora la crescita degli hospice è stata esponenziale. Da sottolineare che con la legge n. 12 del 2001 si è agevolata la prescrizione di farmaci oppiacei per il trattamento del dolore severo utilizzati per la terapia del dolore. Ma è grazie alla citata legge n. 38 del 2010 che si sono definite le cure palliative e la terapia del dolore come un diritto inviolabile di ogni cittadino, ampliando la tipologie di patologie su cui intervenire – non solo quelle oncologiche – e riferendosi a tutte le malattie ad andamento cronico evolutivo per le quali non vi è possibilità di guarigione.
Ma il profondo significato delle cure palliative lo si può ritrovare in un interessante passaggio dell’intervista rilasciata dal dott. Ventafridda prima della sua scomparsa nel 2008 dove riassume il senso della medicina palliativa e il suo netto contrasto all’eutanasia. “Le cure palliative guardano alla qualità della vita residua, non alla sua soppressione. Noi come medici abbiamo il dovere di capire le cause di questa richiesta e di cercare di risolverle. Il malato che chiede di essere aiutato a porre fine alla propria esistenza, nella maggior parte dei casi, è in preda al dolore, non ha supporto psicologico e spirituale, si sente di peso. Vive un’ esperienza umana disperata e insostenibile. Il lavoro di questi anni come medici palliativisti ci ha insegnato che quando si elimina la sofferenza fisica utilizzando in modo appropriato la morfina, si garantisce un’ assistenza infermieristica adeguata, si riempie il vuoto di comunicazione che si crea intorno a questi malati (la morte oggi è un tabù), la richiesta eutanasica scompare o si attenua”.
Ed è allora in questo senso le cure palliative sostengono la vita, e guardano alla morte come ad un processo naturale e non la anticipano o la pospongono ma piuttosto aiutano ad affrontare l’evento attraverso un approccio curativo sinergico. Meglio, attraverso un approccio olistico nella cura del malato dove sono coinvolti familiari e persone care nel momento più delicato dell’esistenza, quello in cui si prende coscienza che la vita sta sfuggendo via.
Volendo poi dare un’impronta statistica a questa breve riflessione si sottolinea che - secondo l’indagine “I numeri della long-term care” condotta nel 2022 da Italia Longeva, Associazione nazionale per l’Invecchiamento e la longevità attiva - solo una persona su tre, malata di tumore, ha ricevuto assistenza con cure palliative; tuttavia l’offerta di cure palliative a domicilio ed in hospice ha continuato ad aumentare seppur con notevoli differenze tra sud e nord del Paese. Nel Veneto sono stati circa il 57% i pazienti che hanno ricevuto cure palliative, nell’Emilia Romagna la percentuale è stata del 53%, in Toscana del 50%, in Lombardia del 49% e a Bolzano del 47%; per contro in Calabria hanno avuto accesso a tali cure solo il 12% dei malati, in Campania il 16% e nel Lazio il 17%.
Un ulteriore aspetto - evidenziato invece nella ricerca condotta da IPSOS e dall’associazione VIDAS dal titolo “Conoscenza, percezioni, opinioni sulle cure palliative in Italia” pubblicata ad ottobre 2023 - è dato dal fatto che il 57% circa degli intervistati non sa assolutamente se questo tipo di terapie sono somministrate sul proprio territorio di residenza, mentre il 60% è però a conoscenza del fatto che tali terapie possano essere erogate sia a domicilio, sia in ospedale sia in hospice. Per la maggioranza degli intervistati il luogo di cura prescelto in questi casi è la propria casa, anche se nel 20% dei casi questo desiderio non è possibile da soddisfare.
Dal punto di vista della formazione di personale specializzato si sottolinea che, a decorrere dall’anno accademico 2021-2022, nelle università italiane è stata istituita la scuola di specializzazione in “Medicina e cure palliative” ed il corso di cure palliative pediatriche nell’ambito dei corsi obbligatori delle scuole di specializzazione in pediatria. In tal modo si è quindi riconosciuta la specificità delle conoscenze e delle abilità mediche dei professionisti che intraprendono il percorso delle cure palliative; alla disciplina possono accedere gli specialisti in ematologia, geriatria, malattie infettive e tropicali, medicina interna, neurologia, oncologia, pediatria, radioterapia, anestesiologia, rianimazione e terapia intensiva, terapia intensiva e del dolore, medicina di comunità e delle cure primarie.

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08 Febbraio 2024

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