IL GREENWASHING: UN’ANALISI GENERALE

di Alessandra Di Giovambattista

 

Da anni ormai, il mondo scientifico ci avvisa del repentino cambiamento climatico che coinvolge il pianeta: ciò in parte è da imputare all’azione dell’uomo, che mai come in questi ultimi decenni ha utilizzato in modo sempre più massiccio ed anche in modo poco attento le risorse del pianeta, in parte al sistema climatico stesso che sempre si è modificato, ad ondate più o meno regolari, per cercare di ritrovare un equilibrio rispetto ai fattori di cambiamento ambientale ed in risposta alle sollecitazioni indotte dalle attività umane. Indubbiamente molto del problema è nell’uso massiccio dei combustibili fossili, ma molto è da imputare anche a sprechi per alimentare spesso beni e servizi di poca utilità (si pensi al costo per energia per mantenere città come Las Vegas il cui fine è legato al solo e puro divertimento) oppure per foraggiare la sete di potere di determinate Nazioni (nessuno ha mai voluto fare un calcolo in temini di impatto ambientale, al di là del danno umano che è incalcolabile, ingiustificabile e insanabile, delle guerre oggi presenti in più parti della terra. Ci sarò un perché? Nessuno però se lo chiede), o ancora per puro interesse economico, legato alla massimizzazione del profitto, di pochi soggetti (si pensi al costante disboscamento della foresta Amazzonica; possibile che non si riesca ad arginare il grande potere delle multinazionali che manovrano ormai tutti i settori economici?).

A fronte di questa drammatica situazione assistiamo ai tentativi di molte aziende di mostrarsi al mercato dei consumatori nella veste di soggetti sensibili ed impegnati nelle questioni ambientali. Questi comportamenti trovano terreno fertile soprattutto nel mercato italiano in cui il numero dei consumatori attenti all’ambiente tende sempre più a crescere. In una ricerca del 2022 condotta dalla rivista Altroconsumo si legge che su 13 Nazioni analizzate, l’Italia si posiziona al sesto posto per quanto riguarda l’indice di stile di vita sostenibile. Risulta che noi italiani, probabilmente anche per un fatto culturale, adottiamo comportamenti sostenibili soprattutto nel rapporto con il cibo, preferendo frutta e verdura di stagione e alimenti a c.d. chilometro zero con la finalità di evitare sprechi alimentari. Anche nel settore non alimentare cerchiamo di preferire l’acquisto di prodotti di qualità che siano utilizzabili più volte e che siano riparabili e riadattabili.

Diversi analisti hanno evidenziato che i cambiamenti climatici hanno ed avranno un impatto sulla domanda di beni e servizi e che modificheranno i comportamenti dei consumatori che rivolgeranno la propria domanda a favore di acquisti rispettosi degli obiettivi ecologici. E’ evidente quindi come le aziende abbiano a cuore che i consumatori percepiscano la loro politica eco compatibile; ma come si può essere sicuri che i prodotti acquistati siano effettivamente rispettosi dell’ambiente? In altre parole le aziende stanno attuando strategie che implichino un serio ed effettivo impegno in tal senso? Ecco che da un po’ di tempo ci troviamo in realtà di fronte a pratiche che la dottrina ha definito con il c.d. termine “greenwashing”, che si sostanzia in un ambientalismo di pura forma, di pura facciata.

Vediamo meglio: molti dei prodotti che oggi acquistiamo sono accompagnati da frasi che riconducono ad aspetti ecologici e che inducono a credere che quella specifica azienda utilizzi processi e prodotti rispettosi dell’ambiente e che cerchi di contrastare i cambiamenti climatici. Il più delle volte, tuttavia, ci si trova di fronte a enunciazioni esclusivamente pubblicitarie, senza che in sostanza vi siano delle vere scelte strategiche da parte delle aziende, a favore dell’ambiente: si parla quindi del c.d. greenwashing. Questo termine nasce come crasi di due parole inglesi: green, cioè verde - aggettivo usato per indicare situazioni e questioni legate all’ecologia - e washing, letteralmente pulire che però, applicato alle strategie aziendali, si può tradurre in nascondere, coprire. Più in generale quindi un’azienda, un marchio o un c.d. brand che fa greenwashing in realtà sta utilizzando una tecnica di marketing e di comunicazione che induce i consumatori a credere che le proprie attività ed i propri prodotti siano totalmente rispettosi dell’ambiente e che l’azienda stessa sia attivamente impegnata in campagne pro ambiente; il più delle volte, invece, la realtà è che sta solo coprendo (washing) l’impatto ambientale negativo che la propria filiera produce.

Quindi siamo di fronte a situazioni che ci presentano aziende, nei più disparati settori, che cercano di costruire ad arte un’immagine della propria attività rispettosa dell’ambiente in considerazione della maggiore propensione dei consumatori all’acquisto di beni e servizi rispettosi della natura. A dirla tutta, in realtà il fenomeno non è nuovo, il primo a definirlo fu l’americano Jay Westerveld, ambientalista; egli nel 1986 evidenziò che la pratica delle catene alberghiere di chiedere ai propri clienti di riutilizzare più volte gli asciugamani per motivazioni di impatto ambientale, aveva in realtà come unico scopo quello di ridurre i costi di gestione. Infatti nessuno ha effettivamente approfondito il problema, di come di fatto poi fosse attuato il processo generale e complessivo di lavaggio della biancheria: con quali prodotti, se biodegradabili o meno, con l’utilizzo di macchinari ad alto o basso assorbimento di energia ed acqua, con prodotti dannosi ed allergizzanti per le persone, con il rispetto dell’equa distribuzione dei vantaggi connessi all’attività economica svolta. Ecco questo è un classico caso di messaggio di forte impatto etico sul consumatore che però non è stato assoggettato ad una rigorosa verifica del fine palesato, cioè quello di attuare una strategia produttiva effettivamente green.

Successivamente nel 2008 si utilizzò un termine forse ancora più rappresentativo del problema qui individuato, il c.d. green sheen, cioè letteralmente: abbaglio, quindi un vero e proprio malinteso del consumatore che lo induce allo sbaglio, all’errore nel considerare ecologico un bene/servizio presente sul mercato. A volerla dire con Valentina Furlanetto, nel suo libro “L’industria della carità” il significato di greenwashing può essere così rappresentato “appropriazione indebita di virtù e di qualità ecosensibili per conquistare il favore dei consumatori o, peggio, per far dimenticare la propria cattiva reputazione di azienda le cui attività compromettono l’ambiente»

In via generale si può evidenziare che nella comunicazione greenwashing si possono individuare le seguenti caratteristiche: - non ci sono informazioni approfondite che supportino quanto indicato nelle etichette e nei messaggi pubblicitari; - i dati sono dichiarati come certificati, tuttavia l’ente certificatore non è riconosciuto come organo autorizzato e quindi non garantisce le c.d. “procedure autorizzative ambientali”, cioè quelle che assicurano che l’attività aziendale sia compatibile con le condizioni per uno sviluppo sostenibile (come enunciato nel Decreto legislativo 152 del 2006); - enfatizzazione di singole e marginali caratteristiche del prodotto con affermazioni ambientali anche false; - le informazioni sono generiche e spesso fuorvianti per il consumatore; - utilizzo di etichette false o contraffatte.  

Con uno sguardo verso gli acquisti delle generazioni più giovani si riscontra che spesso il criterio economico non è l’unico utilizzato e spesso la condivisione dei valori espressi dai vari marchi può fare la differenza. Si è visto infatti che ci sono giovani consumatori che comprano le firme che ad esempio sostengono i rifugiati, oppure che hanno gli imballaggi privi di plastica, o anche che svolgono campagne a favore dell’eliminazione del divario lavorativo tra maschi e femmine, o a favore della salute femminile, o ancora che sostengono l’aborto ed i diritti delle comunità il cui orientamento sessuale non rientra nella classica suddivisione maschio/femmina (c.d. comunità LGBTQ+). Si assiste quindi alla pratica seguita da alcune aziende dei vari settori che per attirare consumatori, specialmente giovani, costruiscono un’immagine di sé stesse attivamente coinvolta nella difesa o prevenzione delle citate situazioni sociali, per cui si sono coniate anche altre parole, come ad esempio quelle c.d. di pinkwashing (a favore del genere femminile in termini di rispetto ed inclusione), genderwashing (a tutela delle pari opportunità) o anche di rainbowwashing (a favore delle comunità LGBTQ+).

Certamente se è possibile riscontrare simili situazioni è perché le normative in vigore non sono stringenti, siamo di fronte alla mancanza di regole certe e applicabili in ambito sia nazionale sia internazionale. Di fronte ad un mercato globale anche le norme dovrebbero coinvolgere più paesi ed essere armonizzate; invece la poca chiarezza e trasparenza rende le tecniche di abbaglio ed induzione all’errore dei consumatori ancora più forti e spesso irriconoscibili. In particolare il messaggio pro natura è spesso poco chiaro e si basa sull’uso di un linguaggio vago ed approssimativo, o all’opposto molto tecnico tanto da risultare quasi incomprensibile, o anche su immagini suggestive con soggetti ed ambienti che richiamano la natura ed inducono a pensare che il prodotto/servizio proposto rispetti davvero i parametri ecologici.

Quindi siamo di fronte ad un’oggettiva difficoltà a riconoscere e capire quanto un’azienda prenda sul serio il problema ambientale e quanti dei suoi proclami siano veramente credibili e fondati su oggettive strategie produttive rispettose dell’ambiente. Oggi capire se si è di fronte ad una pratica di greenwashing è sempre più complicato, soprattutto a causa della facilità e superficialità con cui vengono proposte delle politiche pro ambiente spesso non verificabili a priori, proprio in mancanza di normativa di settore nazionale ed internazionale. Il New Climate Institute ha analizzato gli obiettivi ecologici di 25 multinazionali; secondo quanto comunicato da queste aziende nel 2019 esse hanno contribuito alle emissioni di gas serra per una percentuale pari al 5% delle emissioni a livello mondiale. Tuttavia solo 13 delle 25 aziende spigano nel dettaglio i piani strategici per ridurre le emissioni del 40% circa, laddove il termine “emissioni zero” - che è poi l’obiettivo che ci si è posti per il 2050 - implicherebbe la riduzione del 100% (con l’espressione emissioni zero si intendono le emissioni inquinanti nette, cioè si arriva alla neutralità carbonica quando i gas serra immessi nell’ambiente sono di pari quantità rispetto a quelli che si riescono ad eliminare). Nello studio si evidenzia che solo 3 (Maersk, Vodafone e Deutsche telekom) delle 25 aziende multinazionali hanno obiettivi seri di decarbonizzazione dei processi, in quanto puntano ad un taglio del 90% delle emissioni nei tempi indicati. In definitiva le altre si impegnano a ridurre del solo 20% le emissioni e non accompagnano le loro affermazioni con piani strutturati e con una tavola delle modifiche nel tempo. Si può quindi concludere che, almeno queste aziende prese a base dell’analisi, non sono assolutamente allineate agli obiettivi climatici dell’agenda internazionale; solo alcuni pochi soggetti si stanno realmente impegnando.

Tornando al problema legislativo si evidenzia che nel marzo del 2023 la Commissione europea ha proposto nuovi criteri comuni per arginare il fenomeno del greenwashing e delle asserzioni ecologiste ingannevoli. Il Parlamento europeo li ha poi approvati a maggio 2023. L’obiettivo della Commissione è quello di arginare il problema in quanto, da uno studio condotto dalla stessa Commissione, è risultato che il 53,3% delle affermazioni ambientali da parte delle aziende sono vaghe, fuorvianti o infondate e che il 40% è del tutto infondato e falso. La proposta contiene norme più stringenti sull’uso e sul controllo della veridicità di affermazioni ambientaliste nonché il divieto generale di pubblicità ingannevole. Al fine di valutare se un comportamento è ingannevole, e come tale se può indurre i consumatori nell’errore, è stato formulato un concetto di greenwashing molto stretto e che per valutarne l’effettività occorre individuare due aspetti: l’intenzionalità di fuorviare o indurre in errore il destinatario della dichiarazione di sostenibilità mediante pratiche o enunciazioni ingannevoli e la grave negligenza da parte degli operatori che affermano pratiche o strategie sostenibili in maniera non approfondita e poco chiara, anche qualora non sia ravvisabile l’intenzionalità di fuorviare il consumatore. Altri paesi come l’Australia, Singapore e gli Stati Uniti d’America hanno predisposto delle guide anti-greenwashing che aiutano i consumatori ad essere più consapevoli delle proprie scelte.

L’auspicio è che si riesca a far chiarezza sui veri responsabili dei repentini cambiamenti climatici e che le aziende siano maggiormente controllate nei loro effettivi obiettivi e strategie intraprese perché la posta in gioco è molto alta e occorre porre rimedio nell’immediato senza lasciare spazio ad enunciati ipocriti e falsi; forse sarebbe importante iniziare ad agire anche con il cuore, soprattutto per tutelare le generazioni future!