IL BILANCIO SOCIALE: UNA SINTESI PER GLI ENTI DEL TERZO SETTORE, MA NON SOLO PER ESSI.
di Alessandra Di Giovambattista
29-11-2024
La realtà economico sociale conosciuta come Terzo settore è difficilmente definibile all’interno di uno schema rigido e determinato, presentandosi come un insieme di enti ed associazioni in continua evoluzione sia nella struttura sia nelle finalità. La prima definizione in ambito europeo la si ritrova nella metà degli anni ‘70 e venne utilizzata nel rapporto comunitario del 1978 dal titolo “un progetto per l’Europa”; in esso il terzo settore veniva collocato in modo separato dallo Stato e dal mercato privato produttivo con la finalità di renderlo autonomo ma integrabile tra i diversi ambiti. Ci si trova di fronte a settori diversi posti però non in relazione gerarchica tra di loro, bensì in posizione paritetica e regolati da un rapporto di sussidiarietà. Di fatto le aziende che non hanno finalità di lucro (anche dette no profit) nella loro diversa espressione giuridico economica, come le associazioni, le fondazioni, le ONLUS, le ONG, le associazioni di promozione sociale, oggi vengono tutte ricondotte al terzo settore, con la definizione di “Enti del Terzo Settore” (c.d. ETS), che inizia a prendere piede con la crisi dello stato sociale, meglio conosciuto con il termine anglosassone di welfare.
In Italia il fenomeno inizia la sua crescita verso la fine degli anni ’80 e contestualmente si riesce a definirne meglio il suo ambito di azione; infatti a fianco del significato economico finanziario, che sottolinea la natura meritoria ma privata dell’attività svolta nella produzione di beni e servizi a favore della collettività, si affianca l’accezione sociologica, che intende sottolineare l’approccio solidale ed altruistico basato sul volontariato da parte degli operatori che si impegnano per raggiungere obiettivi di natura etica e/o culturale senza finalità di lucro. Gli ambiti di azione possono essere diversi e riconducibili, ad esempio, a quelli: ambientale, sanitario, di cooperazione e solidarietà, di inserimento di persone diversamente abili, sportivo, turistico, culturale, di finanza etica, del commercio equo e solidale, ecc.
La dottrina economico giuridica he delineato alcune peculiarità del terzo settore che riguardano: la mancanza della finalità di conseguire un surplus di reddito positivo (c.d. profitto) e di distribuire eventuali avanzi di gestione (che si determinano dal confronto tra entrate ed uscite); la natura giuridica essenzialmente privatistica delle aziende facenti parte del terzo settore (anche se in alcuni casi è molto presente il controllo da parte di soggetti di natura pubblica); la presenza di organi interni di governo e di controllo; la costituzione mediante atto giuridico formale che contenga l’oggetto dell’attività svolta, le modalità democratiche di gestione e l’indicazione della quota di lavoro basata su contratti di volontariato.
Dal punto di vista economico è però interessante notare come queste realtà abbiano puntato la loro attenzione anche sui conti di sintesi, e in tale contesto prende forma il “Bilancio Sociale” in cui l’aggregato fondamentale non è il profitto (anche se occorre sin da ora sottolineare che la gestione di tali realtà si basa comunque sull’utilizzo efficace ed efficiente delle risorse, perseguendo il pareggio di bilancio e contestualmente evitando sprechi di risorse), bensì il “valore aggiunto”, inteso, ad esempio, come la capacità di migliorare le situazioni più emarginate presenti in determinate aree attraverso attività di cura, integrazione e sviluppo di fasce deboli della società.
A fianco di questo valore sintetico si pone anche la necessità di indagare e rendere trasparente il problema della ricerca dei finanziamenti - mediante contributi pubblici (statali e di enti pubblici in generale) e contributi provenienti direttamente dalle erogazioni liberali dei privati - che vanno a copertura del fabbisogno di finanziamento. In questo ultimo senso si rammenta la possibilità di destinare una parte delle imposte pagate, il c.d. 5 per mille dell’imposta sul reddito delle persone fisiche (IRPEF), ad attività svolte da ETS. Tale destinazione non implica il pagamento di ulteriori somme ma è semplicemente l’indicazione delle finalità (che sinteticamente sono riconducibili ai settori del volontariato, della ricerca scientifica o universitaria, della ricerca sanitaria, delle attività comunali, delle associazioni sportive dilettantistiche, delle attività di tutela, promozione e valorizzazione dei beni culturali e paesaggistici) che i singoli desiderano conferire alle risorse che lo Stato già percepisce attraverso il sistema tributario. A ciò si aggiunga la possibilità che i singoli contribuenti hanno di poter effettuare erogazioni liberali detraibili e/o deducibili a fini IRPEF direttamente dal reddito prodotto.
Quindi è in tale contesto che si sono iniziate a intravedere le teorie e le metodologie di costruzione dei Bilanci Sociali; questi si sono originati da due situazioni: una relativa all’evoluzione delle discipline contabili sempre più impegnate a fornire un quadro reale e completo dei fattori produttivi presenti in azienda e dei risultati da questi raggiunti, l’altra legata alla responsabilità sociale ed ambientale nei confronti di tutti i soggetti interessati al proficuo utilizzo delle risorse, i c.d. stakeholders (cioè: dipendenti, investitori, clienti fornitori, Stato, Enti pubblici, azionisti, comunità, ecc). Così inquadrato si comprende perfettamente come il Bilancio Sociale possa essere presentato, e di fatto lo è, non solo dagli enti no profit, ma anche dalle aziende che operano con finalità di lucro. Queste ultime affiancano il bilancio d’esercizio (cioè quello tradizionale composto da Conto Economico e Stato Patrimoniale da cui emerge il flusso di reddito positivo e il patrimonio presente in azienda e con le cui risultanze si possono sviluppare delle analisi economico finanziarie basate sulla costruzione di indicatori di economicità) con il Bilancio sociale che espone risultati di natura qualitativa e di misurazione di efficacia (cioè raggiungimento degli obiettivi posti).
Già l’economista italiano Paolo Emilio Cassandro nel 1989 (in Rivista italiana di ragioneria ed economia aziendale) aveva evidenziato che il bilancio sociale dà conto del valore aggiunto creato dall’azienda non solo a livello nazionale ma soprattutto a livello locale andando ad esaminarne tutti i rapporti con dipendenti, fornitori, clienti, investitori, ecc, con lo scopo di individuare le migliori modalità di gestione delle risorse nel rispetto e tutela delle comunità sociali, dell’ambiente e delle generazioni future. Così il bilancio sociale contiene valutazioni riferite alle prestazioni aziendali (performance) non solo nelle aree più tecniche dell’efficienza, ma anche, e soprattutto negli ambiti socio-relazionali dell’efficacia. A titolo di esempio possiamo evidenziare alcune tipiche aree indagate dalle aziende profit mediante il bilancio sociale: valutazione della qualità delle relazioni con i clienti (esaminando ad esempio il grado di fedeltà, di fiducia verso l’azienda, l’attrattiva dei suoi prodotti sul mercato) o sulla qualità delle prestazioni verso il personale (ad esempio le ore di formazione, la conflittualità dipendente-datore di lavoro, servizi alle famiglie). Nelle aziende no profit le aree tematiche sono rivolte alla misurazione di aspetti relativi, ad esempio, al grado di integrazione lavorativa di soggetti emarginati sia per motivi medico sanitari sia sociali, di incremento della scolarizzazione di emigrati, di miglioramento economico sociale delle aree in cui sono presenti gli ETS, di recupero ed integrazione di soggetti provenienti da situazioni di restrizione della libertà per detenzione, di recupero e riciclo di materie prime e loro trasformazione, di tutela dell’ambiente e del patrimonio pubblico, ecc.
In sintesi il bilancio sociale offre un quadro generale del raggiungimento della missione che ogni azienda si pone; nello specifico per gli ETS tale missione si basa essenzialmente sull’integrazione, se non la totale sostituzione, dell’attività di welfare, che dovrebbe essere svolta dallo Stato, con la finalità di soddisfare i bisogni dell’uomo nel rispetto delle peculiarità di ognuno e dell’ambiente nel quale opera: rappresenta un momento di sintesi in cui si vanno ad indagare le necessità di ogni singolo e si coniugano con l’obiettivo della tutela dei diritti della persona.
Quindi l’attuale legislazione, attraverso le linee guida contenute nel decreto del Ministero del lavoro e delle politiche sociali del 4 luglio 2019, e la prassi contabile, individuano nel bilancio sociale uno strumento attraverso il quale si garantisce la trasparenza, l’informazione e la rendicontazione nei confronti di tutti gli interessati alla gestione dell’azienda no profit. Pertanto scopo del bilancio sociale è fornire informazioni, non solo di natura quantitativa, ma soprattutto di natura qualitativa, complementari alle classiche informazioni di natura economico-finanziaria, con l’obiettivo di fornire un quadro complessivo delle attività svolte dall’ente, della loro natura e dei risultati raggiunti. Ulteriori scopi si ritrovano nel processo di comunicazione multidirezionale favorendo così procedure di partecipazione interna ed esterna all’organizzazione; nel dare conto della identità e della natura dell’operato dell’ente esaltandone la missione ed i valori di riferimento sui quali si fonda; nel fornire riscontri (c.d. feedback ) circa gli obiettivi preordinati e gli effettivi risultati raggiunti cercando così di fidelizzare gli investitori già presenti e di trovarne sempre di nuovi; nell’evidenziare strategie attraverso le quali consolidare i risultati raggiunti o indicandone di nuovi e migliorativi; nel palesare le interazioni tra azienda e territorio dando una lettura anche in merito agli impegni assunti ed alle aspettative degli stakeholders; nell’evidenziare il valore aggiunto prodotto in azienda e la sua suddivisione tra i diversi fattori della produzione.
Oltre alla redazione del bilancio sociale occorre anche il deposito di esso presso il registro unico del Terzo settore o presso il registro delle imprese, affinché se ne possa dare ampia pubblicità. Si permette così di verificare il rispetto di norme, regolamenti e linee guida etiche affinché i finanziatori e gli stakeholders in generale possano avere relazioni trasparenti e consapevoli con gli enti del terzo settore.
IL POLO INDUSTRIALE (CLUSTER) DEL LEGNO MADE IN ITALY
di Alessandra Di Giovambattista
27-11-2024
Il 20 luglio del 2023 la rassegna stampa del Ministero dell’agricoltura, della sovranità alimentare e delle foreste ha dato notizia della sottoscrizione del protocollo di intesa che ha avviato il primo cluster italiano del legno. Ma cosa si intende per cluster? Con tale termine si identificano dei poli industriali dove si trovano aziende che svolgono attività in un determinato settore tra loro complementari od omogenee; in tali aree si trovano istituzioni pubbliche, imprese, università che lavorano con l’intento di raggiungere in sinergia obiettivi di massimizzazione economica. Possiamo trovare diversi gruppi di cluster sul nostro territorio in ambiti diversi, dagli elettrodomestici all’abbigliamento, ma tutti con l’obiettivo di creare valore in termini di conoscenza ed innovazione anche mediante l’utilizzo di nuove risorse umane specializzate o la formazione di lavoratori già presenti in azienda. Le istituzioni pubbliche inserite all’interno di questi gruppi di settore fungono da collegamento con le parti politiche, in particolare il Governo, alle quali poter rappresentare in tempi brevi necessità ed istanze che potrebbero rendere più efficaci le attività produttive.
Così il cluster del legno, seguendo le linee generali, è il primo passo verso il raggiungimento degli obiettivi contenuti nel piano strategico nazionale forestale. Il ministro Francesco Lollobrigida ha sottolineato che il polo italiano del legno riuscirà a sfruttare al meglio le sinergie nell’ambito della ricerca, della produzione dei manufatti in legno (filiera del mobilio e di tutte le imprese ad essa collegate) e della sostenibilità ambientale con la crescita di un “sistema foresta sano” che permetta di utilizzare il legno in modo economico. In tal modo l’Italia si pone come apripista per tutta l’Europa per lo sviluppo e l’utilizzo ecocompatibile del legname; la nostra Nazione avrà così una autonomia nella produzione di legno di qualità, senza dipendere più dalle importazioni estere con il vantaggio di utilizzare legname a chilometro zero e con benefici indubbi sull’ambiente. Si raggiungerà così l’obiettivo della sovranità forestale. In tal modo oltre ad utilizzare materia prima nazionale, si riuscirà anche, e soprattutto, ad assorbire maggior monossido di carbonio dall’atmosfera, attraverso la funzione clorofilliana. Obiettivo connesso sarà manutenere il territorio, evitando frane ed esondazioni dei fiumi consentendone invece un deflusso dell’acqua in modo ordinato e controllato.
La strategia forestale così implementata si basa anche sulla collaborazione con il mondo dell’industria della trasformazione del legno e della ricerca con l’obiettivo di raggiungere e garantire la sostenibilità delle foreste e incrementare la bioeconomia circolare. Si è iniziato a parlare di bioeconomia circolare a ridosso del patto verde europeo del 2020 (il c.d. Green Deal) che mira a promuovere il consumo sostenibile e la rigenerazione delle risorse utilizzate per un lasso di tempo che sia il più lungo possibile. In pratica il cambiamento economico che viene richiesto investe l’economia, i temi sociali ed ambientali, il tutto con lo scopo di generare una movimento circolare delle materie prime e dei processi produttivi che garantiscano competitività e nuovi posti di lavoro. Tale cambiamento prende il nome di bioeconomia che si caratterizza per le basse emissioni inquinanti, la salvaguardia dell’agricoltura e della pesca, la garanzia di livelli elevati di sicurezza alimentare, l’utilizzo, da parte delle produzioni industriali, di risorse biologiche rinnovabili che garantiscano la biodiversità e la tutela dell’ambiente. In definitiva l’economia circolare non può essere pienamente sviluppata senza la bioeconomia; infatti tutti i rifiuti organici e gli scarti provenienti dal settore primario possono essere riutilizzati solo in presenza dell’economia circolare alimentata dai processi di bioeconomia. Ma vale anche l’opposto cioè la bioeconomia potrà svilupparsi solo in presenza di circolarità nei prodotti e nelle materie prime.
In tal modo l’industria del legno potrà rappresentare un punto di forza dell’economia italiana introducendo innovazione, bellezza e sostenibilità ambientale; tra i soggetti partecipanti al cluster italiano, che sono quattordici, troviamo: CNA, Confartigianato, CNR, Università di Padova, della Tuscia, della Basilicata, Confcooperative, volendo citarne solo alcuni. Si auspica un lavoro di collaborazione e sinergia tra i diversi cluster omogenei presenti sul territorio che permetta di sviluppare particolarità e specificità locali senza alimentare guerre e comportamenti di concorrenza scorretta. Tra i diversi compiti c’è quello di valorizzare i prodotti italiani derivanti dal legno cercando di certificare qualità, sostenibilità e tracciabilità. Le università hanno l’importante compito di sviluppare ricerca ed innovazione anche per provare a creare delle filiere economiche totalmente italiane al 100 % nella produzione del legno-arredo.
Così il cluster permetterà ai diversi attori pubblici e privati di dialogare tra loro, chi con la ricerca, chi con la legislazione ed il controllo, chi con l’attività produttiva. Inoltre riuscirà ad attuare le linee guida segnate dal Testo unico in materia di foreste e filiere forestali finalizzato al miglior utilizzo delle risorse boschive nel rispetto delle politiche ambientali. I dati prodotti dal rapporto FAO del 2022 presentano un’Italia con il numero delle aree boschive in crescita: in 10 anni sono aumentate di circa 587 mila ettari. Tuttavia dette aree denotano anche un livello elevato di fragilità in quanto sono vulnerabili al dissesto idrogeologico ed agli incendi per la mancanza di opera di prevenzione e manutenzione. Ma c’è di più in quanto il cambiamento climatico ha portato nuovi parassiti e nuovi problemi fitosanitari, come il bostrico che attacca principalmente l’abete rosso o il cinipide galligeno che ha fatto strage di castagni. Pertanto è urgente una gestione attenta dei boschi che controlli costantemente la salute delle piante e del territorio.
Secondo i dati di consuntivo per l’anno 2022 della Federlegno Arredo l’Italia copre circa 11,1 milioni di ettari con bosco ad altro fusto che corrispondono a circa il 36% del territorio nazionale. Le attività legate alla silvicoltura e all’industria del legno e della carta producono circa l’1% del PIL, mentre la produzione della filiera legno-arredo rappresenta circa il 4,6% del fatturato manifatturiero nazionale. Importiamo circa l’80% del legno impiegato nelle nostre produzioni, con un utilizzo di legno nazionale per la sola restante parte del 20%. E’ pertanto su questi numeri che pesa la politica che finora è stata intrapresa sulla gestione delle aree boschive, caratterizzata da una sostanziale incuria: ripensare tutta la filiera rendendo più competitiva l’industria italiana del legno e dei suoi derivati, all’ombra di una bioeconomia sostenibile, potrebbe rappresentare un cambio di passo verso la rinascita economica del settore ed il concreto rispetto del Creato.
LA VALUTAZIONE DELL’IMPATTO SOCIALE DEGLI ENTI DEL TERZO SETTORE
di Alessandra Di Giovambattista
26-11-2024
Il fenomeno delle associazioni senza scopo di lucro (anche conosciute come no profit) ha iniziato a svilupparsi in Italia nel dopoguerra, anche se occorre sottolineare la peculiarità delle attività di volontariato senza finalità di profitto svolte nel nostro Paese soprattutto dalle organizzazioni e confraternite religiose; ad esse deve riconoscersi, nel corso della storia, anche la più lontana, il merito di aver sollevato tanti indigenti dalle situazioni di estrema povertà e precarietà dando vita alle prime vere ed effettive associazioni con scopo benefico (basti ricordare i primi ospedali per i più poveri, le prime scuole per i bambini indigenti, i primi centri di accoglienza per persone con disabilità ed handicap). Invece le esperienze private più importanti, e che fungono da apripista, possiamo ritrovarle negli Stati Uniti dove anche prima della seconda guerra mondiale (all’incirca vero il 1914 con la Fondazione Cleveland), si iniziò a porre attenzione alle situazioni sociali più marginali che richiedevano, in risposta, delle attività di solidarietà. Si crearono pertanto associazioni filantropiche che, entrando in contatto - anche grazie alla diffusione dei mezzi di informazione - con realtà di disagio economico, sociale, sanitario, si ponevano l’obiettivo di provare a rispondere alle necessità spesso primarie di gruppi di soggetti. Infatti gli Stati, e soprattutto quelli basati su un approccio privatistico delle attività economiche, non volevano e non sapevano rispondere alle esigenze dei meno fortunati, così come non erano sensibili alle difficoltà che incontravano i Paesi più arretrati. Quindi queste associazioni, attraverso una politica di solidarietà ed anche di volontariato, cercavano di risollevare le sorti dei più deboli presenti sia all’interno della propria nazione, sia nei Paesi esteri.
Negli anni successivi il fenomeno dell’associazionismo senza scopo di lucro ha visto una rapida crescita e quindi anche gli Stati si sono visti costretti ad interessarsi a queste organizzazioni cercando di darne una chiave di lettura sia giuridica sia fiscale. In tale ultimo ambito, in ragione delle attività meritorie svolte e degli obiettivi etici perseguiti, questi enti, anche definiti enti del terzo settore (ETS), spesso godono di agevolazioni ed esenzioni fiscali o comunque di regimi tributari speciali più leggeri. Nascono così gli ETS - la cui definizione è fornita dalla riforma delle associazioni senza scopo di lucro contenuta nel decreto legislativo n. 117 del 2017 - che si pongono come un qualcosa di altro tra la sfera dello Stato e delle pubblica amministrazione (primo settore) e l’ambito del mercato e delle imprese (individuato come secondo settore). Quindi l’ordimento si arricchisce con un terzo settore formato da enti con finalità benefiche, civiche e di utilità sociale - i cui campi d’azione vanno dalla cura socio sanitaria, all’istruzione, alla formazione, all’aiuto di migranti, all’inserimento economico produttivo di persone con disabilità, vicinanza alle persone fragili e deboli - che, giocoforza, confliggono con l’impostazione classica delle entità a scopo di lucro. Anzi la loro attività è ricondotta al principio di sussidiarietà sancito dalla Costituzione e ne viene incoraggiata l’istituzione. Per le importanti funzioni sociali ed economiche svolte, anche gli ETS, come qualunque realtà associativa, hanno bisogno sia per motivi civilistici sia fiscali di avere un momento di rendicontazione (presentando il bilancio sociale) per fornire informazioni quali-quantitative utilizzabili sia all’interno dell’ente stesso, sia per tutti coloro che presentano degli interessi (c.d. stakeholders) con le finalità di non disperdere risorse e di valutare costantemente la gestione e le strategie migliorandone eventualmente piani e programmi.
È così che, molto rapidamente, si arriva al 12 settembre 2019 giorno in cui in Gazzetta Ufficiale è stato pubblicato il decreto del Ministero del lavoro e delle politiche sociali del 23 luglio 2019, contenente le linee guida per la realizzazione di sistemi di valutazione dell’impatto sociale (VIS) delle attività svolte dagli ETS. In particolare vengono individuati una serie di indicatori (report) per valutare l’opera svolta dagli enti no profit, finalizzata al raggiungimento di obiettivi sociali preordinati e valutati nel breve, medio e lungo periodo: pertanto gli indici di natura quali-quantitativa, sono stati creati per cercare di rappresentare oggettivamente e misurare le attività svolte, la programmazione futura e gli obiettivi raggiunti. Tali indicatori andranno applicati sulle risultanze dei bilanci sociali e messi a disposizione di tutti i soggetti interessati alla gestione degli ETS, i c.d. stakeholders.Questi ultimi sono individuabili tra: finanziatori e donatori (cioè coloro che intendono condividere e raggiungere gli obiettivi attraverso le erogazioni finanziarie liberali); i diretti beneficiari degli interventi (che hanno interesse a comprendere la qualità dell’attività svolta ed il miglioramento sociale raggiunto); i lavoratori, i collaboratori ed i volontari (che prendono consapevolezza del loro operato); i cittadini (che hanno un interesse a comprendere le ricadute sociali delle risorse impiegate in enti benefici); i soggetti pubblici (che hanno l’obbligo di fornire tutte le informazioni circa l’utilizzo delle risorse pubbliche destinate agli ETS beneficiari di eventuali finanziamenti). In termini più tecnici il decreto si esprime nel senso di sottolineare che il sistema di valutazione dell’impatto sociale, implementato in via sperimentale, ha come scopo quello di far emergere e conoscere il valore aggiunto prodotto dagli ETS, la sostenibilità della loro azione individuandone eventuali punti di forza o di debolezza, nonché le modifiche apportate nel contesto collettivo di riferimento dalle politiche sociali.
Un ulteriore aspetto che beneficerà dalla trasparenza derivante del processo di valutazione dell’attività svolta, attraverso gli indicatori di impatto sociale, è rappresentato dalla possibilità che tali enti possano accedere a bandi e finanziamenti pubblici. Pertanto l’obiettivo concreto è quello di poter fornire dati ed informazioni che siano i più oggettivi possibili visto che le attività svolte dagli ETS esulano da approcci di natura strettamente efficientista (valutabili in estrema sintesi con il profitto che nasce dal confronto tra costi e ricavi di periodo) e sono invece indirizzate verso obiettivi di natura qualitativa e pertanto di efficacia (dove conta il raggiungimento di obiettivi di natura sociale, sanitaria, scolastica, ecc) che difficilmente sono rappresentabili in termini di costi e ricavi, e movimenti di attività e passività, di natura esclusivamente economico-finanziaria. Per ora tale valutazione non è però considerata obbligatoria in quanto, come detto, il sistema è implementato in via sperimentale; tuttavia l’utilizzo della VIS, rendendo trasparente l’operato degli ETS, permetterà agli eventuali finanziatori ed agli stakeholders in generale di partecipare con più cognizione e condivisione al raggiungimento degli obiettivi che si pone l’ente, nonché, come già detto, di poter partecipare a bandi di affidamento di servizi di interesse generale emanati da enti locali ed amministrazioni pubbliche in generale. Pur nella sua caratteristica di utilizzo facoltativo, la VIS viene inquadrata all’interno di linee guida, espresse dal decreto stesso, che ne indicano principi e contenuti minimi lasciando quindi un elevato grado di autonomia agli enti che vogliano utilizzarla; in particolare i principi a cui la VIS deve ispirarsi sono: la rilevanza, secondo la quale le informazioni fornite devono essere capaci di dare evidenza degli effettivi obiettivi posti; l’intenzionalità, secondo la quale i dati forniti devono avere un contenuto concreto e funzionale alla programmazione decisa; affidabilità, in ragione della quale le informazioni devono essere precise, veritiere, non di parte e con indicazione delle specifiche fonti di provenienza; misurabilità, secondo cui i parametri quantitativi applicabili ad alcuni aspetti devono essere verificabili e permettere di comporre indici ed indicatori valutabili nel tempo (breve, medio e lungo periodo) e nello spazio (comparabilità con realtà analoghe).
L’obiettivo che il legislatore si è posto è quello di poter valutare all’interno ed all’esterno l’operato degli ETS con la speranza di rendere sempre più efficace e sostenibile l’azione da essi svolta garantendo risultati che evitino di disperdere risorse e cercando di integrare ed inserire nelle comunità gli emarginati, gli esclusi e tutti coloro che per i più disparati motivi si trovano nelle zone più periferiche e deboli delle nostre società e delle nostre esistenze.