ASCESA E DECLINO DELLA CASSA PER IL MEZZOGIORNO: LE CAUSE.

di Alessandra Di Giovambattista

 12-11-2024

L’Italia del dopo guerra ha visto una crescita economica a ritmi elevati arrivando a collocarsi tra i Paesi più avanzati, grazie al c.d. miracolo economico che ha industrializzato ed innovato, anche nella cultura e nella mentalità, il nostro tessuto sociale e produttivo ed in cui la Cassa per il Mezzogiorno può essere considerata, almeno per l’attività svolta nei primi 15 anni, l’attore fondamentale della crescita industriale nel territorio Meridionale e non solo. In quel periodo si era ben compreso che lo sviluppo doveva essere omogeneo e riguardare tutti i territori italiani in quanto una nazione è solida solo quando c’è equa distribuzione delle risorse e pari opportunità che consentono di tenere un passo sincrono in tutte le zone del Paese.

La rinascita del Mezzogiorno passava necessariamente attraverso un processo di industrializzazione ed ammodernamento con l’obiettivo di creare nuovi posti di lavoro e cercare di trattenere il fenomeno della emigrazione. I primi lavori della Cassa, all’inizio degli anni 50, riguardarono le infrastrutture fondamentali cioè “sistemi coerenti di opere straordinarie”, che dovevano garantire salubrità e sicurezza del territorio; si iniziò quindi dalle grandi bonifiche territoriali, dalla sistemazione dei territori montani, degli acquedotti e delle fognature. Si costruirono strade e ferrovie che erano alla base di quelle opere civili che avrebbero dovuto sostenere il successivo processo di crescita industriale in tutti i settori. Successivamente infatti la Cassa si concentrò sul potenziamento dell’industria, armonizzandola con la crescita economica complessiva del Paese, attraverso la concessione di prestiti a tasso agevolato e di sovvenzioni a favore delle aziende che avessero installato a Sud i propri impianti; fu curata anche l’istruzione, soprattutto quella professionale.

Così sul finire degli anni 50 con il boom economico inizia il processo di industrializzazione con un’attenzione particolare ai territori dove già esistevano degli agglomerati produttivi, una posizione economica favorevole agli scambi ed un gruppo ampio di Comuni limitrofi ad un centro principale, in grado di garantire mano d’opera. Pertanto la strategia si concentrò sui “poli di sviluppo”, cioè aree in grado di utilizzare le sinergie garantite da reti industriali formate da nuove fabbriche complementari al polo centrale, da infrastrutture di collegamento e di servizi, da lavoratori con mansioni e capacità diversificate. Così sul territorio Meridionale furono create le “aree di sviluppo industriale” ed i “nuclei dell’industrializzazione”; per implementarne la crescita furono devoluti incentivi finanziari per l’installazione di impianti e strutture. Dapprima le risorse finanziarie furono garantite a piccole imprese essenzialmente territoriali, ma dopo furono devoluti anche ad imprese di più grandi dimensioni provenienti dal Nord Italia. Inoltre per incrementare il decollo economico le normative esistenti obbligavano le imprese di proprietà statale ad ubicare i nuovi investimenti e le relative attività per il 60% nel Meridione.

Secondo le relazioni fornite dalla Cassa per il Mezzogiorno, alla fine degli anni 70 la maggior parte degli investimenti nei poli di sviluppo erano stati finanziati con prestiti agevolati e sovvenzioni e direzionati verso attività ad alta intensità di capitale (capital intensive) nel settore chimico, metallurgico, ed ingegneristico. Solo una quota pari al 10% era stato devoluto ad altre attività a maggior intensità lavorativa (labour intensive) come i settori tessile, dell’abbigliamento, calzaturiero, del legno e dei mobili, della carta, del cuoio, praticamente tutte le attività più artigianali e che avrebbero potuto garantire una maggior sinergia ed armonia tra capitali, territorio e lavoratori. Così in quel periodo circa il 70% della forza lavoro del meridione fu impiegata nelle due grandi aziende private, la FIAT e la MONTEDISON.

Tuttavia quello che poteva sembrare un punto di forza e sicurezza si dimostrò, dopo breve tempo, un grande limite durante la crisi di stagflazione degli anni 70 (fenomeno di natura economica mai osservato prima delloshock petrolifero del 1973/1974. Con tale termine si definisce la contemporanea presenza di mancanza di crescita produttiva e aumento dei prezzi costante, due fenomeni che non si potevano giustificare se non in presenza di cartelli oligopolistici tra produttori di materie prime e di energia) e con i rapidi processi di innovazione tecnologica. Di fatto la presenza di grandi aziende, peraltro molto moderne per l’epoca, aveva sicuramente attivato il processo di sviluppo ma non può negarsi che le modalità con cui esse operavano sul territorio erano decisamente avulse dal tessuto produttivo della zona. Infatti non riuscirono, o forse non vollero, costruire le reti dell’indotto e sviluppare le sinergie territoriali e quindi quelle gigantesche realtà industriali furono ben presto definite “cattedrali nel deserto” perché da poli di attrazione di capitale e lavoro divennero, da lì a pochi anni, concentrazioni industriali abbandonate, a causa della recessione, con conseguente aumento della disoccupazione e distruzione del territorio. Così iniziò il declino dell’attività della Cassa - e con essa di tutto il sistema produttivo del Mezzogiorno - che non riuscì a contrastare la depressione economica con valide politiche pubbliche. Ciò fu il prodotto dell’inclusione degli interessi dei politici, sia statali sia regionali, nella gestione degli interventi e dei finanziamenti e del cambiamento dei vertici e di tutto il personale della Cassa per accontentare clientele personali e partitiche. Passarono in secondo piano gli interventi civili e strutturali legati direttamente al territorio, come i trasporti, la costruzione di ospedali civili, gli interventi in agricoltura. Anche in questo caso aveva vinto l’ingordigia di pochi potenti soggetti politici, amministrativi e rappresentanti di organizzazioni malavitose che si spartirono grandi fette di denaro pubblico in cambio di progetti mai realizzati o di costruzioni inutilizzabili.

Volendo quindi trarre delle conclusioni si evidenzia che nei primi due decenni di vita l’attività della Cassa, anche grazie alla supervisione di soggetti esteri ed alla effettiva autonomia dagli interessi politici (che permise anche di scegliere come responsabili della struttura un gruppo di professionisti valutati per merito), contribuì a rendere industrializzato e produttivo il meridione riducendo notevolmente il divario Nord-Sud. Ma all’inizio degli anni 70, complice anche la depressione economica, si assistette a sprechi di risorse in termini di errate strategie di investimento e di veri e propri fenomeni di appropriazione indebita di fondi pubblici. Una importante iniziativa, nata dall’intuizione di notevoli politici di allora, tra cui Pasquale Saraceno e Alcide De Gasperi (volendo citarne solo alcuni), fu travolta e sconvolta da interessi personalistici di politici che foraggiarono clientele e corruzione e dispersero in tal modo risorse destinate ad un territorio che ancora oggi è caratterizzato dalla arretratezza pur avendo risorse, soprattutto umane, di notevole spessore.

L’analisi delle cause dell’infausta fine dell’esperienza dell’attività della Cassa per il mezzogiorno possono aiutare a mettere a fuoco alcuni aspetti che potrebbero far riflettere in termini di politiche per il Mezzogiorno che ora si intende affrontare con la ZES unica Sud. L’esperienza passata dovrebbe indurre prima di tutto a tenere fuori dalla gestione delle risorse pubbliche politici statali e locali; questi dovrebbero limitarsi a dettare le linee guida degli interventi di potenziamento del tessuto produttivo del Meridione. In seconda battuta sarebbe opportuno creare un organo superiore di controllo serio, trasparente e professionalmente adeguato capace di valutare le attività in corso d’opera e di modificare le strategie in caso di scostamenti dagli obiettivi preordinati. Sarebbe poi auspicabile - invece che aumentare i soggetti che possono inserirsi nel processo di pianificazione e gestione fino a considerare anche le singole associazioni portatrici di interessi locali e particolari (si pensi in tal senso alla cabina di regia della ZES) – creare strutture di gestione snelle e composte da validi tecnici italiani, scelti con modalità meritocratiche e non attraverso procedure clientelari (così forse si potrebbe anche arrestare un po’ la fuga all’estero dei nostri giovani professionisti altamente qualificati), che dovrebbero agire con rapidità e capacità di risoluzione dei problemi: solo così si potranno creare le basi per una sfida competitiva internazionale che restituisca il giusto peso al Sud Italia.

Un’attenzione particolare va poi posta alle attività che si presentano culturalmente e tradizionalmente legate al territorio tutelando pertanto: il settore primario (agricoltura, pastorizia, silvicoltura, viticoltura), i cui prodotti si collocano sul mercato interno e mondiale con caratteristiche di unicità e di elevato livello qualitativo; le attività artigianali ed artistiche tipiche di alcune zone del Meridione (si pensi, potendo fare pochi esempi, al patrimonio artistico e culturale presente nel Leccese dove si lavora la cartapesta, o la lavorazione del corallo nelle zone della Campania, la lavorazione del cuoio e del pellame dei ricami e dei tessuti della Sardegna); le attività industriali di produzione di beni finiti e semilavorati gestite da aziende locali nei diversi settori: alimentare, tessile, del legno e del mobilio, vinicolo, ecc. La tutela e la cura di queste produzioni locali aiuterà il territorio a diversificare le attività, a creare rete ed indotto con le attività produttive principali, a garantire una crescita armoniosa e partecipata, e soprattutto consentirà di creare attività che permettono lo sviluppo creativo ed innovativo dei singoli soggetti presenti sul territorio coinvolgendoli così direttamente nello sviluppo produttivo locale. E’ infatti importante, per chi vive in zone di sottoccupazione, sentirsi protagonista del proprio riscatto socio-economico ponendo fine a stereotipi e classificazioni spesso false e produttrici solo di rabbia e divisione nel popolo italiano.

Andrebbe infine fatta una profonda analisi sulla strategia finanziaria e di politica economica: spesso offrire incentivi fiscali o prestiti agevolati può rappresentare una valida strategia nella fase iniziale di decollo economico, ma successivamente le attività industriali devono saper camminare con le proprie gambe: garantire un livello adeguato di remunerazione del capitale ma anche una capacità di autofinanziamento che possa far investire in innovazione tecnologica e ricerca, affrontare il mercato finanziario con attenzione e capacità cercando di attirare nuovi investitori - nazionali e esteri – creare un processo di fidelizzazione nei lavoratori e in generale in tutti i portatori di interesse (i c.d. stakeholders). Infatti l’esperienza passata della Cassa ha evidenziato che ricevere sussidi non stimola le imprese a migliorarsi costantemente, ma anzi le fa sentire in una confort zone, e che occorrerebbe anche evitare deflussi di risorse che, a dir la verità - così come peraltro dimostra la storia e a differenza di quanto affermi la comune narrazione – sembrerebbero aver preso la via verso le attività produttive del Nord, invece che restare al Sud. Così infatti si è poi conclusa l’esperienza della Cassa per il Mezzogiorno: le risorse finanziarie pubbliche hanno foraggiato essenzialmente le imprese del settentrione che ad un iniziale processo di attività produttiva hanno fatto seguire un disinteresse verso il perdurare nel tempo delle imprese create al Sud (concetto che si pone alla base della sopravvivenza di qualsiasi azienda) che sono di fatto collassate di fronte alle difficoltà della crisi degli anni 70 ed hanno prodotto licenziamenti dei lavoratori, smantellamento delle fabbriche (ritornando però a produrre esclusivamente nel Nord, forti anche degli incentivi ottenuti per il Sud in esso utilizzati solo in parte) e creazione di falsi miti di arretratezza ed incapacità culturale e produttiva dei connazionali meridionali!

 

 

BREVE STORIA DELLA CASSA PER IL MEZZOGIORNO

di Alessandra Di Giovambattista

09-11-2024 

Ragionare sulla questione meridionale è sempre molto interessante se si pensa alle cause che, dopo la nascita del nuovo regno d’Italia nel 1870, hanno condizionato il perdurare di una nazione sostanzialmente depressa ed arretrata. In sintesi si può dire che i diversi tentativi di modernizzazione del Paese hanno di fatto generato una crescente spaccatura tra le diverse regioni. Se è vero che l’inizio dell’industrializzazione parte generalmente da zone ben delineate di una Nazione, è anche vero che il processo poi si dovrebbe allargare a macchia d’olio per effetto del movimento dei lavoratori, del progresso tecnologico e degli investimenti di capitale. Tuttavia ciò non avvenne perché dopo l’Unificazione d’Italia furono prese delle decisioni che si può senza alcun dubbio definire come penalizzanti per il Meridione.

Infatti il Regno di Napoli aveva introdotto delle tariffe protezionistiche proprio per tutelare il proprio tessuto imprenditoriale; ovviamente con l’unificazione le tariffe vennero abolite, ma ciò avvenne in modo drastico, senza un periodo di transizione e ciò provocò numerosi fallimenti delle aziende presenti sul territorio. In particolare collassarono le aziende tessili collocate in diverse zone del Sud; in particolare fallirono le aziende tessili della seta del rinomato complesso di San Leucio (in provincia di Caserta), con l’aggravio che i suoi macchinari furono portati a Valdagno dove si creò la prima fabbrica tessile del Veneto! Una domanda è d’obbligo: perché non furono investiti i capitali nella stessa zona di San Leucio e le attrezzature lasciate dove erano? Quello che fu fatto a Valdagno perché non si poteva fare a San Leucio? La risposta è ben evidente: motivi territoriali e di mentalità ancora chiusa e medievale ancorata al potere dei territori italiani del nord che volevano una supremazia rispetto ai territori meridionali. Stessa sorte toccò alle cartiere di Sulmona e alle ferriere di Mongiana i cui macchinari furono smantellati e reinstallati in Lombardia. E anche qui le considerazioni sono le medesime: perché non sono state potenziate e innovate le strutture già esistenti al Sud? Perché si è preferito spostare a Nord le produzioni lasciando che il territorio meridionale si impoverisse sempre di più? Ulteriore conseguenza fu la forte emigrazione verso paesi esteri perché al Sud non era più possibile trovare lavoro. A ciò si aggiunse il fatto che gli appalti per la costruzione delle infrastrutture nel mezzogiorno furono tutti affidati ad imprese settentrionali, in particolare piemontesi e lombarde che furono pagate attraverso l’utilizzo di risorse essenzialmente prese dal Sud a cui furono imposte tasse molto pesanti. Il tutto provocò grande scontento tra le popolazioni meridionali che videro traditi i principi ispiratori dell’unificazione italiana; ormai i piemontesi erano visti come sfruttatori e depredatori di risorse.

Ma c’è di più; il governo della giovane nazione italiana pensò bene di ripristinare la tassa sul macinato, fu aumentato il prezzo del sale e dei tabacchi, le riserve d’oro del Banco di Napoli e di diversi altri istituti bancari del Sud furono versate nelle casse del Banco di Sardegna, i beni della Chiesa vennero venduti all’incanto e diversi rappresentanti del clero furono deportati o arrestati, negli uffici pubblici furono occupate solo persone piemontesi. In poche parole dopo l’unificazione il modello economico, politico, amministrativo e sociale che soppiantò tutte le differenti organizzazioni presenti sugli altri territori fu il modello piemontese, ispirato da Cavour, secondo una non verificata credenza che il modello francese fosse di fatto il più efficiente e senza provare ad immaginare un modello italiano originale. Tra le altre innovazioni egli proposte una politica liberista di commercio con la Francia che ebbe il solo fine di garantire il riconoscimento dell’Italia nel contesto internazionale; infatti dal punto di vista economico ciò costò molto sia al Nord, che non era ancora in grado di competere con le imprese presenti nelle nazioni più sviluppate (Francia ed Inghilterra), sia al Sud che vide ancora più acuirsi la sua condizione di arretratezza ed il divario con il Settentrione. Ulteriore risultato fu l’ingresso di imprese straniere sul territorio italiano. Bisogna poi sottolineare che sul finire del XIX secolo i territori più sviluppati, anche per le attività agricole, erano soprattutto i territori della pianura lombardo-piemontese che furono di fatto i grandi beneficiari delle azioni di politica economica del Regno d’Italia: in definitiva le risorse finanziarie erariali erano destinate tutte al nord Italia, lasciando di fatto sguarnito il Meridione.

Il divario Sud-Nord continuò così ad aumentare e iniziò anche lo sfruttamento delle masse contadine alimentato dalle baronie latifondiste rafforzate dalla riforma fondiaria sabauda. Fu così che per disperazione e rabbia crebbero le rivolte e si alimentò il fenomeno del brigantaggio; così il Sud non ebbe la forza di innovarsi, o meglio non gli furono offerte opportunità e risorse per cercare di sconfiggere il fenomeno del latifondismo e dello sfruttamento della piccola proprietà agricola. La situazione era così drammatica che non restava che emigrare verso paesi stranieri. Tuttavia l’arretratezza non riguardava solo l’ambito economico, ma soprattutto quello sociale, dovuto ad una popolazione per lo più analfabeta, dove l’istruzione pubblica era poco diffusa e non omogeneamente distribuita sul territorio. Quindi nel momento dell’unificazione l’Italia si presentava come una nazione nel suo complesso arretrata, con poche zone più moderne.

Facendo un balzo in avanti, e sorvolando sul periodo delle due grandi guerre, si arriva al periodo postbellico in cui si assiste ad un vero e proprio miracolo economico, con una crescita ad un tasso elevatissimo, persino più alto di quello registrato negli Stati Uniti d’America e nel Regno Unito. Effettivamente, negli anni 50 i nostri politici si accorsero che il Sud si presentava in una condizione di forte arretratezza e posero la sua rinascita tra i primi obiettivi della Repubblica. I danni provocati dal conflitto mondiale riguardavano soprattutto le vie di comunicazione; erano andati distrutti strade, ponti, ferrovie, linee elettriche, porti. Anche i settori agricolo ed industriale erano stati pesantemente danneggiati. Quasi tutti i rappresentanti dei partiti di allora si sentirono coinvolti a favore della crescita del Sud: i democristiani, i liberali, i repubblicani, i socialisti, ed i rappresentanti del partito d’azione.

Così, nel 1950 fu costituita un’Agenzia chiamata “Cassa per il Mezzogiorno” che aveva l’obiettivo di effettuare investimenti nel Meridione per farne decollare l’economia; alla redazione del progetto partecipò direttamente l’allora Governatore della Banca d’Italia (Donato Menichella). Fu così che le imprese statali iniziarono ad investire ma anche le imprese private, incentivate da ingenti sussidi, iniziarono a creare aziende impiegando notevoli capitali. La Cassa nacque con la legge n. 646 del 10 agosto del 1950, nella veste di ente autonomo, con personalità giuridica e un territorio da amministrare composto dalle regioni del Sud: Abruzzo, Molise, Campania, Puglia, Basilicata, Calabria, Sicilia e Sardegna; ad esse si aggiunsero porzioni di territorio nel sud del Lazio, alcuni comuni di Roma e di Rieti, alcune aree delle Marche e della Toscana.

Durante i primi anni di vita la Cassa usufruì di autonomia sia nella pianificazione degli interventi che nella gestione delle risorse finanziarie, anche se per onestà di cronaca occorre sottolineare l’influenza degli Stati Uniti nella determinazione dei progetti strutturali. La Cassa fu dotata di un capitale iniziale che proveniva dal finanziamento della Banca internazionale per la ricostruzione e lo sviluppo (IBRD) creata dall’Organizzazione delle Nazioni unite (ONU). Le risorse furono concesse sotto la condizione che la loro gestione non fosse affidata a burocrati assoggettabili a pressioni politiche, bensì ad organismi che avrebbero operato sotto la supervisione della IBRD. E di fatto nei primi anni di vita della Cassa si vide l’importanza dell’autonomia della struttura e della competenza tecnica. La legge istitutiva stessa aveva come obiettivo l’eliminazione di ritardi burocratici o ingerenze di diverso genere, soprattutto di natura politica, che avrebbero potuto neutralizzare gli effetti positivi di natura straordinaria, in quanto si dovevano creare rapidamente nuove strutture per ampliare e consolidare il tessuto industriale del Sud. Agli occhi degli osservatori esteri l’esperienza della Cassa nei primi anni di attività apparve positiva, anche se non possono nascondersi difficoltà causate dalla mancanza di collaborazione da parte delle amministrazioni statali e locali le quali peraltro non disponevano di personale qualificato.

Era tuttavia il suo carattere speciale che aveva permesso di creare un’organizzazione con uffici decentrati, precisamente a Roma (per evitare ingerenze locali), di elevato livello tecnico: infatti furono assunti tecnici (con percentuali di laureati pari a circa il 95%) altamente qualificati in diversi settori: agronomi, geologi, ingegneri, geometri, architetti. Il loro compito era quello di programmare e pianificare gli investimenti in infrastrutture mediante l’utilizzo delle risorse a disposizione della Cassa. Gli osservatori esteri inviati dalla IBRD testimoniarono che i tecnici posti alla direzione della struttura era di elevato spessore professionale e questo non poteva che garantire la bontà dell’azione e l’efficienza nel raggiungimento degli obiettivi.

Purtroppo però l’indipendenza e le capacità tecniche della Cassa non furono mantenute a lungo; dopo 15 anni la politica voleva riprendersi il suo dominio sull’attività di ricostruzione del Sud e assegnò la supervisione dei programmi al Ministero per l’intervento straordinario per il Mezzogiorno che poteva arrivare a dichiarare lo scioglimento dell’Agenzia in caso di inosservanza delle linee guida impartite dal dicastero. Fu così che tutti i ministri per il Mezzogiorno dai primi anni settanta, usarono i loro poteri amministrativi in modo invasivo: la Cassa aveva smesso di essere un ente autonomo! Inoltre negli anni 70 con la creazione delle Regioni e l’attribuzione ad esse di poteri sostanziali si frammentò l’azione della Cassa e ne iniziò così il collasso. Infatti le Regioni aumentarono l’ingerenza politica sull’operato dell’Agenzia, che peraltro si suddivise in diverse realtà locali; tutti i tecnici furono sostituiti da personale di fiducia partitica.

Praticamente all’inizio degli anni 80 le risorse devolute come trasferimento di reddito per sostenere le condizioni di vita nel breve periodo (praticamente clientele dirette) superarono quelle destinate agli investimenti. Si persero così l’autonomia e l’indipendenza delle scelte strategiche che avevano guidato la Cassa nei primi 15 anni e ne avevano garantito l’efficienza dell’operato. Così lo Stato dimostrò la totale inadeguatezza nella gestione delle risorse per il Sud che furono dirottate, attraverso una amministrazione poco trasparente delle risorse, verso clientele partitiche nazionali e locali. A ciò si affiancò non solo una diminuzione dei sussidi ordinari all’industria in questa zona del Paese rispetto alle altre aree, ma anche l’invio di aiuti industriali al Sud a favore di imprenditori locali che ottennero risorse pubbliche ma non produssero alcun tipo di risultato sul piano economico industriale.

La missione della Cassa per il Mezzogiorno, dopo un biennio di commissariamento (dal 1984 al 1986) fu affidata all’Agensud, che rimase operativa fino al 1993, anno in cui se ne dichiarò il fallimento. Le cause del totale collasso furono l’incapacità di gestire con trasparenza, tempestività ed economicità le risorse destinate al sud: almeno 21 miliardi di vecchie lire, destinate al Sud, non arrivarono mai!

 

LA ZONA ECONOMICA SPECIALE UNICA SUD: CARATTERISTICHE

di Alessandra Di Giovambattista

26-10-2024 

Dal progetto iniziale, contenuto nell’articolo 4 del decreto-legge n. 91 del 2017 (c.d. decreto Sud), che prevedeva la creazione di diverse zone economiche speciali (ZES) individuate in specifici territori dell’Italia meridionale, si è passati, con il recente decreto-legge n. 124 del 19 settembre 2023, all’individuazione dell’unica macroarea del Meridione dove applicare le disposizioni a favore delle ZES. La zona unica Sud ha sostituito le 8 zone del Mezzogiorno che erano state individuate dal precedente decreto-legge del 2017 e che riguardavano le Regioni: Abruzzo, Molise, Campania, Puglia, Basilicata, Calabria, Sicilia e Sardegna. La loro istituzione era finalizzata ad incentivare investimenti da parte di aziende già operanti o di nuovi investitori, attraverso benefici di tipo fiscale, nonché facilitazioni ed alleggerimenti di procedure burocratico-amministrative (come ad esempio l’autorizzazione unica per l’avvio delle attività produttive), nelle zone portuali e limitrofe ad esse. Per tali interventi il Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza (PNRR) ha destinato risorse per 630 milioni di euro per investimenti in infrastrutture dedicate ai collegamenti con le reti trans-europee di trasporto (TEN-T) e 1,2 miliardi di euro per interventi da destinare a favore dei principali porti del Meridione.  Tuttavia l’avvio di tali nuovi incentivi legati solo a determinate zone del Paese ha fatto ripensare la misura nella sua interezza e, per favorire una programmazione integrata in tutto il territorio e coordinata con le varie attività, si è preferito costituire una ZES unica per il Mezzogiorno. E in tal senso si è cercato quindi di massimizzare e rilanciare sullo scenario economico mondiale la produzione, la competitività e la specificità di tutte le realtà produttive del Sud d’Italia, che rappresentano oggi un tessuto vivo ma che ha bisogno di essere valorizzato al meglio sia in ambito territoriale, sia settoriale. Così si cerca di far crescere al medesimo passo ed offrendo le stesse opportunità, tutte le aziende già presenti sul territorio e tutte quelle che vorranno insediarsi per utilizzare al meglio queste opportunità.

L’unità della ZES è anche spiegata dalla complessiva e generale difficoltà territoriale dell’intera area del Mezzogiorno che si presenta in costante ritardo nello sviluppo e negli investimenti rispetto alla media dell’Unione Europea. In particolare, secondo la pubblicazione DESI 2022 (compendio europeo che analizza l’Indice di Digitalizzazione dell’economia e della società, in inglese Digital Economy and Society Index - DESI), la stagnazione economica del Mezzogiorno è causata dal ritardo tecnologico e da una basso livello di scolarizzazione e tale gap non solo rappresenta un problema per l’Italia, ma assume rilevanza anche per tutta l’area europea, andando ad ostacolare il raggiungimento dell’obiettivo della coesione sociale, economica e territoriale a cui punta l’intera Europa. Pertanto l’estensione della zona ammessa ai benefici, a tutta l’area del mezzogiorno, cerca di colmare la differenza di risultati e performance che il Sud non riesce a garantire: non solo attraverso un’attenzione alle zone portuali e a quelle ad esse limitrofe, ma anche a tutto il territorio meridionale alla ricerca della razionalizzazione e dello sviluppo complessivo di tutta l’area e di tutti i settori affinché le politiche fiscali, basate essenzialmente sulle agevolazioni, possano svolgere al meglio la propria attività di motore dell’economia e dello sviluppo.

Il nuovo decreto-legge pone così un focus particolare anche sulla modalità di governo, cosiddetta governance delle realtà produttive presenti nelle ZES che deve essere adeguato all’unicità dell’ambito territoriale pur nel rispetto di ogni specificità locale. La strategia di sviluppo deve pertanto essere univoca e permettere il rilancio delle regioni del Sud seguendo un percorso unitario ma al contempo differente per ogni settore e territorio: ciò rende la governance complessa ed articolata. Pertanto la ZES unica prevede una Struttura di missione specifica, nell’ambito della Presidenza del consiglio dei Ministri, che raccoglie l’eredità della precedente impostazione legislativa e cerca di agire sui fattori critici delle aziende operanti nel Mezzogiorno. Quindi tutte le misure agevolative fiscali ed amministrative saranno coordinate a livello unitario al fine di gestire in modo coeso ed efficiente tutti i fondi e gli strumenti posti in gioco dalle amministrazioni europee, mediante il PNRR, e nazionali con lo sguardo rivolto verso la crescita armoniosa e sinergica di tutto il territorio meridionale. La sfida si gioca anche sull’impatto che il Sud d’Italia potrà avere per la nazione e per l’Europa tutta, con lo scopo di risvegliare il progresso delle aziende già esistenti ed attrarre le nuove attività produttive. A tal fine è disposto che la struttura di missione possa avvalersi del supporto e delle conoscenze professionali dell’Agenzia nazionale per l’attrazione degli investimenti e lo sviluppo d’impresa S.p.A - INVITALIA.

Viene prevista quindi l’apertura, presso la struttura di missione, di un portale unico telematico della ZES (portale web) e la predisposizione di una nuova procedura autorizzatoria basata sulla unicità del territorio della ZES. Il portale informatico, anch’esso strutturato presso la Presidenza del Consiglio dei Ministri, fornirà tutte le informazioni necessarie alle imprese per poter godere dei benefici messi a disposizione e creerà i presupposti per accedere allo Sportello unico digitale S.U.D. ZES. Ad esso le aziende dovranno presentare istanze, documenti, programmi e progetti per attivare la procedura tecnica-amministrativa che verificherà i presupposti e rilascerà apposite autorizzazioni, nulla osta e pareri per poter realizzare i progetti presentati sotto l’egida delle normative amministrative e fiscali agevolative. L’obiettivo è quello di gestire all’unisono tutte le procedure autorizzative così da poter rafforzare il processo di efficientamento dell’attività burocratica svolta dalla pubblica amministrazione. Ed infatti l’unica procedura permetterà di non dover duplicare autorizzazioni, documenti, e decisioni; con il coinvolgimento poi di tutti i responsabili dei diversi procedimenti la decisione che verrà presa, giocoforza, in modo univoco troverà la sua naturale composizione nella definizione di un unico parere, decisione e/o autorizzazione che consentirà un’efficace azione ammnistrativa volta all’attuazione dei progetti presentati per la ZES unica per il mezzogiorno. Il portale web dovrà operare cercando di utilizzare i migliori standard tecnologici e rispettando la normativa prevista in materia di transizione digitale. Per ogni azienda verrà così costruito un fascicolo informatico d’impresa dove trovare tutti i documenti presentati per perfezionare il procedimento unico autorizzatorio; in via transitoria le richieste di autorizzazione saranno evase dallo sportello unico per le attività produttive (SUAP) territorialmente competente il quale provvederà ad inviare tutta la documentazione alla struttura di missione ZES.

È stata creata anche una cabina di regia per la ZES, senza oneri aggiuntivi per l’erario, presso la Presidenza del Consiglio dei Ministri con compiti di controllo, monitoraggio, indirizzo e coordinamento; è composta da diversi ministri rappresentanti più settori e vi prendono parte anche i Presidenti delle regioni interessate dalla ZES unica. Tuttavia, con finalità di collaborazione e miglioramento degli obiettivi e delle azioni poste in essere, possono essere invitati a partecipare anche rappresentanti di enti pubblici locali e nazionali ed i portatori di interessi collettivi o diffusi. Nello specifico si parla di interessi collettivi quando vi è un interesse difeso da un’organizzazione, in quanto l’interesse per sua natura non è riconducibile ad un singolo soggetto. Pertanto sarà salvaguardato l’interesse omogeneo riconducibile ad un gruppo di soggetti e come tale è tutelabile esclusivamente attraverso la mediazione di un soggetto collettivo organizzato. L’interesse diffuso è invece riferibile a un complesso di persone non facilmente individuabili nella loro posizione di soggetti portatori di un interesse specifico. Si parla così di azioni intraprese, ad esempio, dai consumatori, o dai rappresentanti delle famiglie, o dagli utenti dei servizi pubblici, a tutela di tutta la categoria, di cui ognuno fa parte, che si muovono in gruppo perché singolarmente non avrebbero una forza contrattuale capace di poter contrastare la parte a cui rivendicare la tutela dei diritti lesi.

Questi quindi, in estrema sintesi gli obiettivi posti dalla nuova legislazione per sfidare la competitività internazionale sempre più forte e basata soprattutto sui processi di innovazione e ricerca che necessitano prima di tutto di ingenti capitali sia umani e sia finanziari.

Non rimane quindi che ragionare sulle eventuali difficoltà e criticità che potrebbero influire sullo sviluppo e l’evoluzione della misura qui descritta che se ben valutate ed analizzate potrebbero trasformarsi in opportunità, ma questa è un’altra tematica da approfondire.

LA ZONA ECONOMICA SPECIALE UNICA SUD: UN’OPPORTUNITA’?

di Alessandra Di Giovambattista

06-11-2024

 

Con le modifiche apportate al decreto legge n. 91 del 2017, istitutivo delle 8 aree meridionali indicate come zone economiche speciali (ZES), è stata cambiata la strategia della programmazione dello sviluppo delle zone del Sud; ciò è avvenuto attraverso l’emanazione del decreto legge n. 124 del 2023 che ha proceduto all’individuazione di un’unica zona economica speciale che coinvolge tutto il Meridione italiano. A tale nuova disciplina sono poi state apportate modifiche sia con il collegato alla legge di bilancio per il 2025, in materia fiscale, cioè il decreto legge 155 del 2023, sia con la legge di bilancio stessa. L’obiettivo della ZES unica Sud è di far sviluppare in modo sinergico ed efficiente tutte le attività presenti sul territorio nonché di incentivare anche nuove strutture per valorizzare zone che presentano potenziale economico ma che finora hanno stentato a decollare.

Per provare a fare un’analisi circa l’opportunità dell’organizzazione territoriale e della governance unica per il Sud, bisogna prima di tutto riflettere sulle cause per le quali questa parte d’Italia rappresenta il fanalino di coda del tessuto economico nazionale mentre per la Comunità europea è una zona in cui i risultati e le performancesono lontani dalla media europea. Il recupero produttivo del Meridione d’Italia è una questione che riguarda sia il nostro Paese sia l’Europa: se in Italia il prodotto interno lordo (PIL) pro-capite e l’occupazione nella loro totalità non riescono a crescere è perché la nostra Nazione marcia a due velocità, con un centro-nord che è sulla media europea ed un centro-sud che ne è al di sotto del 75%, ma in alcune zone anche del 100% (per un approfondimento si consulti l’ottavo Rapporto sulla Coesione e lo sviluppo dell’Unione europea presentato nel 2022).

Eppure il Sud produce attualmente il 50% dell’energia rinnovabile italiana e questo potrebbe rappresentare un esempio della concreta possibilità per il Meridione di candidarsi come punto di raccolta e stoccaggio delle energie rinnovabili; ma per far questo occorre efficientare amministrazioni ed infrastrutture, potenziare i porti e stimolare la crescita delle aziende nei territori circostanti che si presentano come aree essenziali nel Mediterraneo per gli approvvigionamenti delle materie prime destinate sia al nostro Paese sia all’Europa.

In prima analisi cerchiamo di valutare sinteticamente la situazione che si era delineata sul finire del 1800 e nei primi decenni del novecento, partendo dalle parole di Francesco Saverio Nitti, Presidente del Consiglio dei Ministri del Regno d’Italia tra il 1919 ed il 1920, che nel suo libro “Scienze delle finanze Nord e Sud” scrisse testualmente: “dal Regno delle due Sicilie furono ritirati ben 443 milioni di monete di vario conio, mentre il Regno di Sardegna ne aveva soltanto 27 milioni”, quindi solo il 6% rispetto al “Regno di Napoli che nel 1857 era lo Stato italiano con la maggiore solidità finanziaria, scarso debito, poche imposte ben armonizzate!”. Questa analisi dei fatti fu confermata, successivamente da Antonio Gramsci (nel suo libro “Temi sulla questione Meridionale” del 1926) il quale evidenziò “l’emigrazione di ogni denaro liquido dal Mezzogiorno al Settentrione per trovare maggiori e più immediati utili nell’industria”. Con questi dati si può quindi concludere che una questione meridionale non sembrava esistere prima dell’unità d’Italia e l’impoverimento del Sud da parte del Nord avvenne con il placet della classe politica, sostanzialmente a favore del Regno Sabaudo, che ne sottovalutò la portata in quanto non voleva assolutamente che si palesasse il problema. Poi con lo scoppio della guerra mondiale furono create aziende di forniture militari localizzate essenzialmente al Nord; ciò generò un ulteriore flusso a senso unico di risorse pubbliche prelevate su tutto il territorio italiano a favore delle attività produttive localizzate sul territorio settentrionale.

Nel ripercorrere rapidamente le misure più recenti e significative che cercarono di colmare il divario che nei primi del novecento si era formato tra Sud e Nord ci si imbatte, dopo la seconda guerra mondiale, e precisamente nel 1950, con la Cassa per il Mezzogiorno - che lavorò per 40 anni, fino al 1984 – creata come un ente con autonomia progettuale e decisionale che doveva andare ad affiancare (anche sostenendo investimenti privati) gli interventi predisposti dallo Stato finalizzati ad eliminare il divario Nord-Sud. In quel periodo furono costruite le prime grandi infrastrutture del Meridione e il progetto partì dal considerare il Sud come un’unica grande area dove le problematiche di base dovevano essere risolte con uno sguardo unitario, andando al di là della visione localistica. L’esperienza della Cassa, che nei primi due decenni dalla sua costituzione aveva effettivamente migliorato le condizioni di vita delle popolazioni meridionali, si concluse negli ultimi 15 anni di attività con inchieste che evidenziarono sprechi, inefficienze e rapporti clientelari tra classe politica, cittadinanza e organizzazioni malavitose presenti sul territorio. Negli anni 90, dopo che la Cassa per il Mezzogiorno fu commissariata per due anni, dal 1984 al 1986, furono poste in essere delle misure che avrebbero dovuto, da una parte, contrastare la disoccupazione con i contratti d’area, dall’altra ammodernare le infrastrutture ed i servizi del Paese attraverso i patti territoriali. Ma furono misure che non sortirono alcun effetto ed anche in questo caso si dispersero risorse attraverso una gestione politico amministrativa diseconomica.

Tralasciando poi misure disorganiche e a macchia di leopardo che si sono succedute negli anni successivi, si arriva agli obiettivi che si pone il PNRR di rilanciare il territorio meridionale alla ricerca del suo efficientamento produttivo e soprattutto burocratico.

L’Unione Europea ha messo in campo molte risorse finanziarie, anche attraverso i fondi europei, ma sembra che finora quelle investite nel Sud Italia non riescano a far decollare la ripresa economica. Si parla così di “trappola dello sviluppo intermedio”, come evidenziato nel citato Rapporto sulla coesione e lo sviluppo dell’Unione europea, in cui nelle regioni meno sviluppate dell’Europa meridionale (tra cui la parte sud dell’Italia) e Sudoccidentale a seguito di investimenti pubblici si assiste dapprima ad una crescita del PIL, ma dopo un certo punto il processo di sviluppo si arresta o addirittura retrocede ai livelli iniziali e si cade nel declino e nella stagnazione. E questo è ancora più evidente se si considera che le aree meno sviluppate dell’Europa orientale, grazie ai fondi europei, stanno invece recuperando terreno rispetto alla media dell’unione europea e ciò è dovuto al fatto che in tali Paesi il costo del lavoro è inferiore rispetto al meridione italiano. Così come è inferiore la produttività del Sud rispetto ai paesi del Nord Europa, ragione per cui gli investitori privati non sono interessati ad investire. Nel rapporto sono esplicitate ulteriori cause del divario che riconducono alle modalità di gestione ed alle strategie implementate dai Governi nazionali. Ed infatti alcuni Stati membri, dopo avere ottenuto fondi europei, smettono di finanziare con risorse pubbliche interne gli investimenti nelle aree depresse. Si assiste quindi un effetto sostituzione (c.d. crowding out) in cui, una volta che ci sono fondi europei destinati alle zone più arretrate, le risorse finanziarie italiane invece che essere distribuite su tutto il territorio, vengono concentrare in poche zone già a vocazione industriale penalizzando ancora di più le aree deboli.

Così operando, il risultano finale è un depotenziamento delle misure in quanto si disperde l’effetto sinergico delle risorse utilizzate ma soprattutto le aziende non hanno lo stimolo a fidelizzare, con risultati performanti, gli investitori, (perché rappresentati da un soggetto istituzionale europeo, sovranazionale riguardo al quale non ci si sente direttamente coinvolti), generando invece un processo di deresponsabilizzazione dell’impresa verso la propria Nazione, la quale, paradossalmente, utilizzerà parte delle imposte prelevate sugli utili prodotti per finanziare aziende di altre zone, spesso non svantaggiate!

Ed è invece nelle zone più deboli che è necessario, dopo l’iniziale ripresa dovuta allo sviluppo delle infrastrutture, passare a curare l’espansione ed il consolidamento dei processi innovativi, della ricerca, della formazione qualificata - anche attraverso campagne di finanziamenti collettivi (c.d. crowfounding) - e il cambiamento di mentalità nella gestione dei servizi pubblici e nei Governi locali che devono essere effettivamente al servizio dei cittadini. Questo con uno sguardo di programmazione di lungo periodo (anche ultra decennale) che permetta di sostenere e consolidare l’andamento migliorativo che si innesca con le politiche di sostegno.

È su questi presupposti che si deve riflettere sulla sfida aperta con la ZES unica Sud affinché questa misura diventi un’effettiva opportunità e non un ulteriore buco nell’acqua con dispendio di risorse e consolidamento di un’immagine di inefficienza del Meridione, ma non solo, bensì di tutto il sistema Italia. Il Sud ogni anno perde circa 130.00 giovani, per la maggioranza laureati, che emigrano verso paesi esteri o verso le zone del nord Italia; eppure la Campania è la terza regione in cui sono presenti start up innovative!

Questi contrasti andrebbero letti con più attenzione. Una prima riflessione va fatta sulla effettiva opportunità degli incentivi fiscali che non andrebbero dati a pioggia, sulla base di programmi che spesso non sono del tutto veritieri circa la sostenibilità ed efficienza degli investimenti o che non sono del tutto ben compresi da una classe burocratica poco avvezza alle questioni pratiche economiche e più orientata verso forme di puro garantismo giuridico che può creare blocchi di procedure attraverso reiterati nulla osta ed autorizzazioni (si pensi alla Conferenza dei servizi dove saranno presenti numerosi ed eterogenei soggetti). Andrebbero invece premiate in corso d’opera le realtà aziendali più meritevoli (eliminando il clientelismo politico che abbiamo visto nell’esperienze precedenti), dove i giovani, affiancati da tutor, possano iniziare la propria idea imprenditoriale e proseguirla con fondi pubblici, adeguatamente remunerati (pena la restituzione), nell’intento di evitare finanziamenti a poche singole aziende e di sfidare e competere con le realtà straniere più efficienti. Il processo di verifica degli obiettivi e risultati andrebbe regolarmente monitorato, da persone capaci e trasparenti, al fine di riflettere sui risultati intermedi (c.d. feedback) ed effettuare modifiche in itinere che permettano di migliorare gli esiti finali e consentire alle neo realtà imprenditoriali del Sud di continuare da sole la corsa verso il successo.

Un altro spunto di riflessione riguarda le politiche fiscali agevolative che, seppur valide nei meccanismi e nei risultati (ad esempio la DIT - Dual Income Tax - che sostanzialmente premiava le forme di autofinanziamento aziendale, sostituita, nel tempo da varie misure temporanee di agevolazione degli investimenti, le c.d.“Tremonti”) ed in base alle quali le aziende programmano i propri piani finanziari, dopo pochi anni vengono totalmente stravolte o abolite. Questa poca coerenza nella gestione della politica fiscale mina la fiducia dei cittadini ed allontana gli investitori, nazionali ed esteri.

Pertanto se si vuole che il modello ZES unica Sud sia un’opportunità positiva e inneschi il processo di sviluppo delle zone del Sud occorre prima di tutto riflettere sugli errori passati e chiedere che la classe politica ed amministrativa faccia molti passi indietro: che siano guide e non ostacoli. La finalità è quella di innescare un processo virtuoso valido per la crescita del Meridione a favore di tutto il tessuto economico della Nazione; un Paese che marcia a velocità diverse è diviso in sé stesso e pertanto non riuscirà mai a raggiungere uno sviluppo armonioso e completo ed anzi genererà astio e incomprensione tra connazionali. In questo senso non sono da condividere posizioni di separatismo territoriale e un’attenzione particolare deve essere rivolta al federalismo differenziato che, come tutti gli strumenti, può nuocere o migliorare a seconda delle modalità utilizzate nella sua gestione.

DA UN VULCANO ALL'ALTRO 
 isole Eolie 
Quando il viaggio si fa scoperta
 Quest’anno in modo del tutto  inconsueto 
Sono finita sulle isole Eolie. In particolare ho soggiornato a Vulcano, una piccola isola della Sicilia settentrionale, sito di un vulcano che ancora emana fumenti, zolfo, e si cammina tra le caldere giallastre. Ma dove siamo? 
Siamo in mezzo al bacino di un antico vulcano, ormai ricoperto di acqua, ma che ricorda ancora le caratteristiche antiche del vulcano in eruzione. 
Le sabbie sono nere e le acque sembrano piu quelle di un lago che quelle salate  del mar mediterraneo.
Sull’isola di Vulcano vi abitano 800 persone, non di più ed i bambini che frequentano la scuola su in cima alla collina sono 45. 
Sembra di essere su un altro pianeta vista l’originalità e l’antichita’ Propria di questa terra che ancora sa di preistorico, di un pianeta agli inizi della propria esistenza. 
Tutto è in movimento: il mare calmo e del colore blu culla meravigliosi yacht che sostano di fronte alla spiaggia nera dove  pochi turisti fortunati trascorrono le loro vacanze. 
qui non si sentono affatto siciliani ma si sentono eoliani. 
Lo stesso quadro si ripete su tutte le isole circostanti del medesimo bacino. 
Stromboli, Lipari. Salina, sono tutte sfaccettature del medesimo bacino vulcanico, abitato sin dall’antica Grecia…
Ma anche indietro… come si evince dal bellissimo museo di Lipari dove sono collocati tutti i ritrovamenti archeologici antichi. 
Tra questi molto strumenti litici di ossidiana, proprio la pietra vulcanica utilizzata dagli uomini primitivi come arma, utensili, e così via. 
 
Di ossidiana si parla in riferimento all’Europa, ai Balcani ma anche all’Africa. In particolare all’Etiopia. 
Ed ancora una volta sento parlare di Melka Kunture.  Etiopia 
 
Africa: Etiopia
Nel Nord del Corno d'Africa è localizzata la depressione Danakil, un deserto e un’area salata circondata da dozzine di sistemi vulcanici in parte ancora attivi che includono  Erto Ale - 613 m - che dà il nome alla principale massa vulcanica che si chiama la depressione DanaKil. essa è situata a 150 m sotto il livello del mare ed è considerata uno dei luoghi più caldi della Terra con temperature che vanno dai 34° ai 50°. La Danakil Depression corrisponde alla parte Nord della depressione Afar Depression che occupa un’area di 50.000 km² di cui circa 10.000 sono sotto il livello del mare. La depressione AFAR  ha forma triangolare, un' area tettonica localizzata lungo la parte Sud del Mar Rosso, formatasi dopo il Miocene, dovuta alla separazione delle piattaforme arabica e africana. Questa zona desertica di 150.000 km², chiamata il triangolo Afar,  in quanto abitata da una popolazione che ha lo stesso nome, congiunge tre sistemi di frattura, della crosta terrestre (il Mar Rosso il Golfo di Eden e la grande Rift Valley dell’Africa) ed è anche un un’area di confine tra quattro Stati africani (Etiopia Eritrea Gibuti e Somalia).  La  depressione Danakil è una terra estrema con deserti di lava dovuti al forte vulcanismo di quest’area ed un' enorme estensione di vapori e di fumi conosciuta come piana salata di circa 120 m sotto il livello del mare che copre la parte centrale della depressione per circa 6000 km² con  uno spessore stimato tra i 1000 e 3000 m.a causa  dell’alto numero di vulcani, molti fumaioli sono emersi più recentemente come il vulcano FANTALE  del 1920 e il vulcano dabbahu, la cui prima riduzione è stata del 26 settembre 2005.  la cima del del secondo è ricoperta da ossidiana e da flussi di purnice. La depressione Dana Kil  fu una dei più importante risorse di ossidiana dalla preistoria ai tempi dei romani.
recente è un lavoro a sud nella AFrera o nel lago Giulietti  di un esploratore italiano  ucciso a Ball nel 1881. Qui è localizzato il GAD ElU, o silicio di 20 km ampio strato vulcanico (un vulcano a forma conica che consiste di molte strati di lava appesantiti) con dorsali minori di lava intorno al principale cono e flussi di lava e ossidiana. Nell’area  con lava Riolitica l’ossidiana e il materiale vario e strumenti sono sul terreno, testimoniando un lungo uso di questa risorsa. 

sempre in Etiopa  vi è ’area archeologica di Melka Kunture è un gruppo di siti archeologici nell’alta valle della Avash, 50 km a Sud di Addis Abeba (Etiopia), a 2000 m di altitudine. 
 Il bacino dell’Awash si estende su circa 3000 km² tra i 2005 e di 2000 m sul livello del mare. Esso è delimitato dai vulcani plio pleistocenic,  i più grandi dei quali sono il Wachacha e il Furi a nord, e il Boti e l’Agoiabi a Sud.
Il bacino superiore dell’Awash si trova sulla cosiddetta spalla della Main Ethiopian  Rift, parte del Great Rift dell’Africa orientale.
 La sedimentazione fluviale (ciottoli, ghiaie, sabbie, argille) è stata frequentemente interrotta dall’attività vulcanica, i cui prodotti sono importanti indicatori di correlazioni stratigrafiche tra le numerose sequenze archeologiche .  Le rocce vulcaniche compresa l’ossidiana, fornivano la materia prima necessaria agli ominidi per scheggiare gli strumenti litici. Imponenti affioramenti di ossidiana si trovano nella località Balchit che sono stati utilizzati durante la più antica frequentazione olduvaiana  circa 2 milioni di anni fa.
Lo sfruttamento prosegue fino ad età storica, lasciando numerosi accumuli di decine di migliaia di nuclei, schegge, lame e scarti derivati dalla lavorazione dell’ossidiana. 
Nel sito di Simbiro sono stati individuati cinque livelli archeologici, visibili nella sezione di una falesia, risalenti a più di 1.200.000 anni fa, datati al periodo noto come acheuleano (paleolitico inferiore tra 1.700.000 e 1.400.000 anni). In particolare, il livello C presenta un’imponente quantità di bifacciali di ossidiana e di schegge derivate dalla loro produzione. L’analisi dettagliata dei bifacciali di ossidiana rivela come essi siano estremamente standardizzati, quindi fatti da mani esperte che producevano schegge di grandi dimensioni riuscendo a ritoccarle per ottenere forme costanti e ripetute nonostante la fragilità dell’ossidiana.  i ricercatori ritengono che Simbiro fosse un luogo di produzione specializzato, cioè un atelier di produzione, il più antico noto nell’utilizzo di ossidiana. 

Emanuela Scarponi

LE AGEVOLAZIONI FISCALI PER LA ZONA ECONOMICA SPECIALE UNICA SUD

di Alessandra Di Giovambattista

04-11-2024

Con le modifiche apportate al decreto legge n. 91 del 2017, istitutivo delle 8 aree meridionali indicate come zone economiche speciali (ZES), è stata cambiata la strategia della programmazione dello sviluppo delle zone del Sud; ciò è avvenuto attraverso l’emanazione del decreto legge n. 124 del 2023 che ha proceduto all’individuazione di un’unica zona economica speciale che coinvolge tutto il Meridione italiano. A tale nuova disciplina sono poi state apportate modifiche sia con il collegato alla legge di bilancio per il 2025, in materia fiscale, cioè il decreto legge 155 del 2023, sia con la legge di bilancio stessa. L’obiettivo della ZES unica Sud è di far sviluppare in modo sinergico ed efficiente tutte le attività presenti sul territorio nonché di incentivare anche nuove strutture per valorizzare zone che presentano potenziale economico ma che finora hanno stentato a decollare.

Per provare a fare un’analisi circa l’opportunità dell’organizzazione territoriale e della governance unica per il Sud, bisogna prima di tutto riflettere sulle cause per le quali questa parte d’Italia rappresenta il fanalino di coda del tessuto economico nazionale mentre per la Comunità europea è una zona in cui i risultati e le performancesono lontani dalla media europea. Il recupero produttivo del Meridione d’Italia è una questione che riguarda sia il nostro Paese sia l’Europa: se in Italia il prodotto interno lordo (PIL) pro-capite e l’occupazione nella loro totalità non riescono a crescere è perché la nostra Nazione marcia a due velocità, con un centro-nord che è sulla media europea ed un centro-sud che ne è al di sotto del 75%, ma in alcune zone anche del 100% (per un approfondimento si consulti l’ottavo Rapporto sulla Coesione e lo sviluppo dell’Unione europea presentato nel 2022).

Eppure il Sud produce attualmente il 50% dell’energia rinnovabile italiana e questo potrebbe rappresentare un esempio della concreta possibilità per il Meridione di candidarsi come punto di raccolta e stoccaggio delle energie rinnovabili; ma per far questo occorre efficientare amministrazioni ed infrastrutture, potenziare i porti e stimolare la crescita delle aziende nei territori circostanti che si presentano come aree essenziali nel Mediterraneo per gli approvvigionamenti delle materie prime destinate sia al nostro Paese sia all’Europa.

In prima analisi cerchiamo di valutare sinteticamente la situazione che si era delineata sul finire del 1800 e nei primi decenni del novecento, partendo dalle parole di Francesco Saverio Nitti, Presidente del Consiglio dei Ministri del Regno d’Italia tra il 1919 ed il 1920, che nel suo libro “Scienze delle finanze Nord e Sud” scrisse testualmente: “dal Regno delle due Sicilie furono ritirati ben 443 milioni di monete di vario conio, mentre il Regno di Sardegna ne aveva soltanto 27 milioni”, quindi solo il 6% rispetto al “Regno di Napoli che nel 1857 era lo Stato italiano con la maggiore solidità finanziaria, scarso debito, poche imposte ben armonizzate!”. Questa analisi dei fatti fu confermata, successivamente da Antonio Gramsci (nel suo libro “Temi sulla questione Meridionale” del 1926) il quale evidenziò “l’emigrazione di ogni denaro liquido dal Mezzogiorno al Settentrione per trovare maggiori e più immediati utili nell’industria”. Con questi dati si può quindi concludere che una questione meridionale non sembrava esistere prima dell’unità d’Italia e l’impoverimento del Sud da parte del Nord avvenne con il placet della classe politica, sostanzialmente a favore del Regno Sabaudo, che ne sottovalutò la portata in quanto non voleva assolutamente che si palesasse il problema. Poi con lo scoppio della guerra mondiale furono create aziende di forniture militari localizzate essenzialmente al Nord; ciò generò un ulteriore flusso a senso unico di risorse pubbliche prelevate su tutto il territorio italiano a favore delle attività produttive localizzate sul territorio settentrionale.

Nel ripercorrere rapidamente le misure più recenti e significative che cercarono di colmare il divario che nei primi del novecento si era formato tra Sud e Nord ci si imbatte, dopo la seconda guerra mondiale, e precisamente nel 1950, con la Cassa per il Mezzogiorno - che lavorò per 40 anni, fino al 1984 – creata come un ente con autonomia progettuale e decisionale che doveva andare ad affiancare (anche sostenendo investimenti privati) gli interventi predisposti dallo Stato finalizzati ad eliminare il divario Nord-Sud. In quel periodo furono costruite le prime grandi infrastrutture del Meridione e il progetto partì dal considerare il Sud come un’unica grande area dove le problematiche di base dovevano essere risolte con uno sguardo unitario, andando al di là della visione localistica. L’esperienza della Cassa, che nei primi due decenni dalla sua costituzione aveva effettivamente migliorato le condizioni di vita delle popolazioni meridionali, si concluse negli ultimi 15 anni di attività con inchieste che evidenziarono sprechi, inefficienze e rapporti clientelari tra classe politica, cittadinanza e organizzazioni malavitose presenti sul territorio. Negli anni 90, dopo che la Cassa per il Mezzogiorno fu commissariata per due anni, dal 1984 al 1986, furono poste in essere delle misure che avrebbero dovuto, da una parte, contrastare la disoccupazione con i contratti d’area, dall’altra ammodernare le infrastrutture ed i servizi del Paese attraverso i patti territoriali. Ma furono misure che non sortirono alcun effetto ed anche in questo caso si dispersero risorse attraverso una gestione politico amministrativa diseconomica.

Tralasciando poi misure disorganiche e a macchia di leopardo che si sono succedute negli anni successivi, si arriva agli obiettivi che si pone il PNRR di rilanciare il territorio meridionale alla ricerca del suo efficientamento produttivo e soprattutto burocratico.

L’Unione Europea ha messo in campo molte risorse finanziarie, anche attraverso i fondi europei, ma sembra che finora quelle investite nel Sud Italia non riescano a far decollare la ripresa economica. Si parla così di “trappola dello sviluppo intermedio”, come evidenziato nel citato Rapporto sulla coesione e lo sviluppo dell’Unione europea, in cui nelle regioni meno sviluppate dell’Europa meridionale (tra cui la parte sud dell’Italia) e Sudoccidentale a seguito di investimenti pubblici si assiste dapprima ad una crescita del PIL, ma dopo un certo punto il processo di sviluppo si arresta o addirittura retrocede ai livelli iniziali e si cade nel declino e nella stagnazione. E questo è ancora più evidente se si considera che le aree meno sviluppate dell’Europa orientale, grazie ai fondi europei, stanno invece recuperando terreno rispetto alla media dell’unione europea e ciò è dovuto al fatto che in tali Paesi il costo del lavoro è inferiore rispetto al meridione italiano. Così come è inferiore la produttività del Sud rispetto ai paesi del Nord Europa, ragione per cui gli investitori privati non sono interessati ad investire. Nel rapporto sono esplicitate ulteriori cause del divario che riconducono alle modalità di gestione ed alle strategie implementate dai Governi nazionali. Ed infatti alcuni Stati membri, dopo avere ottenuto fondi europei, smettono di finanziare con risorse pubbliche interne gli investimenti nelle aree depresse. Si assiste quindi un effetto sostituzione (c.d. crowding out) in cui, una volta che ci sono fondi europei destinati alle zone più arretrate, le risorse finanziarie italiane invece che essere distribuite su tutto il territorio, vengono concentrare in poche zone già a vocazione industriale penalizzando ancora di più le aree deboli.

Così operando, il risultano finale è un depotenziamento delle misure in quanto si disperde l’effetto sinergico delle risorse utilizzate ma soprattutto le aziende non hanno lo stimolo a fidelizzare, con risultati performanti, gli investitori, (perché rappresentati da un soggetto istituzionale europeo, sovranazionale riguardo al quale non ci si sente direttamente coinvolti), generando invece un processo di deresponsabilizzazione dell’impresa verso la propria Nazione, la quale, paradossalmente, utilizzerà parte delle imposte prelevate sugli utili prodotti per finanziare aziende di altre zone, spesso non svantaggiate!

Ed è invece nelle zone più deboli che è necessario, dopo l’iniziale ripresa dovuta allo sviluppo delle infrastrutture, passare a curare l’espansione ed il consolidamento dei processi innovativi, della ricerca, della formazione qualificata - anche attraverso campagne di finanziamenti collettivi (c.d. crowfounding) - e il cambiamento di mentalità nella gestione dei servizi pubblici e nei Governi locali che devono essere effettivamente al servizio dei cittadini. Questo con uno sguardo di programmazione di lungo periodo (anche ultra decennale) che permetta di sostenere e consolidare l’andamento migliorativo che si innesca con le politiche di sostegno.

È su questi presupposti che si deve riflettere sulla sfida aperta con la ZES unica Sud affinché questa misura diventi un’effettiva opportunità e non un ulteriore buco nell’acqua con dispendio di risorse e consolidamento di un’immagine di inefficienza del Meridione, ma non solo, bensì di tutto il sistema Italia. Il Sud ogni anno perde circa 130.00 giovani, per la maggioranza laureati, che emigrano verso paesi esteri o verso le zone del nord Italia; eppure la Campania è la terza regione in cui sono presenti start up innovative!

Questi contrasti andrebbero letti con più attenzione. Una prima riflessione va fatta sulla effettiva opportunità degli incentivi fiscali che non andrebbero dati a pioggia, sulla base di programmi che spesso non sono del tutto veritieri circa la sostenibilità ed efficienza degli investimenti o che non sono del tutto ben compresi da una classe burocratica poco avvezza alle questioni pratiche economiche e più orientata verso forme di puro garantismo giuridico che può creare blocchi di procedure attraverso reiterati nulla osta ed autorizzazioni (si pensi alla Conferenza dei servizi dove saranno presenti numerosi ed eterogenei soggetti). Andrebbero invece premiate in corso d’opera le realtà aziendali più meritevoli (eliminando il clientelismo politico che abbiamo visto nell’esperienze precedenti), dove i giovani, affiancati da tutor, possano iniziare la propria idea imprenditoriale e proseguirla con fondi pubblici, adeguatamente remunerati (pena la restituzione), nell’intento di evitare finanziamenti a poche singole aziende e di sfidare e competere con le realtà straniere più efficienti. Il processo di verifica degli obiettivi e risultati andrebbe regolarmente monitorato, da persone capaci e trasparenti, al fine di riflettere sui risultati intermedi (c.d. feedback) ed effettuare modifiche in itinere che permettano di migliorare gli esiti finali e consentire alle neo realtà imprenditoriali del Sud di continuare da sole la corsa verso il successo.

Un altro spunto di riflessione riguarda le politiche fiscali agevolative che, seppur valide nei meccanismi e nei risultati (ad esempio la DIT - Dual Income Tax - che sostanzialmente premiava le forme di autofinanziamento aziendale, sostituita, nel tempo da varie misure temporanee di agevolazione degli investimenti, le c.d.“Tremonti”) ed in base alle quali le aziende programmano i propri piani finanziari, dopo pochi anni vengono totalmente stravolte o abolite. Questa poca coerenza nella gestione della politica fiscale mina la fiducia dei cittadini ed allontana gli investitori, nazionali ed esteri.

Pertanto se si vuole che il modello ZES unica Sud sia un’opportunità positiva e inneschi il processo di sviluppo delle zone del Sud occorre prima di tutto riflettere sugli errori passati e chiedere che la classe politica ed amministrativa faccia molti passi indietro: che siano guide e non ostacoli. La finalità è quella di innescare un processo virtuoso valido per la crescita del Meridione a favore di tutto il tessuto economico della Nazione; un Paese che marcia a velocità diverse è diviso in sé stesso e pertanto non riuscirà mai a raggiungere uno sviluppo armonioso e completo ed anzi genererà astio e incomprensione tra connazionali. In questo senso non sono da condividere posizioni di separatismo territoriale e un’attenzione particolare deve essere rivolta al federalismo differenziato che, come tutti gli strumenti, può nuocere o migliorare a seconda delle modalità utilizzate nella sua gestione.