30-04-2020

 


                                                                                                                IL TEATRO COME RAPPRESENTAZIONE DRAMMATICA DELL'ESISTENZA
                                                                                                                                              in Wole Soyinka


        Ad una radicale indagine del mistero che è l'uomo e ad una profonda immaginazione creativa, si affianca in Soyinka una profonda capacità di sintesi, che gli ha permesso di interiorizzare a tal punto la cultura madre, da elaborare una mitologia personale, che svincola la sua opera da meccanici parallelismi con il sistema Yoruba.
La popolazione Yoruba vive nell'area dell'odierna Nigeria occidentale e degli adiacenti Stati del Dohomey e Togo. La maggior parte dei grandi centri urbani della Nigeria, come Lagos e Ibadan sono abitati da popolazione Yoruba. La città di Ife, è probabilmente il primo insediamento degli Yoruba in Africa occidentale. L'origine di questa etnia, che è costituita da numerosi clans,è piuttosto dubbia. Buie sono le teorie al riguardo: la prima ipotesi sostiene che i capi Yoruba provengano dall'Iraq.
La seconda ipotesi sostiene che tale popolazione discenda da un re della Mecca. (Rev. Johnson,8., 1921). Comunque si sa che un gruppo di conquistatori occuparono la Nigeria Sud-occidentale fra il Seicento e il Mille dopo Cristo e furono assorbiti dalle popolazioni locali dando origine alla popolazione e cultura Yoruba. Infatti gli Yoruba combinano due tradizioni nettamente distinte della "famiglia" degli dei e delle dee che riflettono la vita sociale dell'uomo: distinguono degli antenati immigrati e degli altri popoli che si trovavano già in quella terra.
       Da un'iniziale forma di governo che si basava su un'autonomia delle varie città che però gravitavano tutte intorno alla città di Ife, la struttura politica Yoruba si evolse in senso sempre più aristocratico fino a giungere alla costituzione dell'impero Oyo. Quest'impero subì il tracollo al tempo della tratta dei negri. Yoruba erano infatti la maggioranza dei negri dell'Africa sud-occidentale portati nelle Americhe tra il Settecento e l'Ottocento. Ciò ha portato una fusione della religione Yoruba con quella cattolica, dando origine a culti misti come il Vudu ad Haiti.il Candobles a Bahia e la Santeria a Cuba.
La personale elaborazione di elementi tratti dalla tradizione per esprimere nuovi significati, testimonia una profonda consapevolezza dell'arte e dei suoi simboli, a cui Soyinka dà una precisa direzione intellettuale al fine di affermare le sue idee.
         La sua opera funge infatti da portatrice dei valori fondamentali dell'uomo, espressi come meglio il suo popolo poteva intenderli; tramite cioè, l'uso della mitologia, utilizzata come codice linguistico. A questo proposito cito le sue parole pronunciate nella mia intervista al nostro autore: "Io nelle mie opere ho adottato la figura di Ogun, il dio della guerra, del ferro, dell'energia creativa; è una metafora dell'esistenza, ma è anche il simbolo del riscatto.
Il mito dunque è inteso come entità vivente e in trasformazione: "Sono io, spiegò Soyinka, che faccio i miti, perché scelgo ciò di cui ho bisogno. Penso che altrettanto abbiano fatto tutti gli artisti, da Omero in poi; che abbiano piegato la mitologia ai propri scopi. Del resto, gli scrittori piegano la stessa storia alle proprie esigenze: cosi, almeno fanno gli scrittori progressisti".
         Ecco dunque come questo sguardo disincantato che percorre ogni pagina dell'opera di Soyinka, si concilia con la fortissima presenza dei miti e dei suoi motivi tradizionali: i proverbi, l'inno, la danza e l'idea della festa, i quali sono evidenti riferimenti che rimandano alla visione del mondo, e della cultura Yoruba. Il suo debito nei confronti di questa non è una trasposizione passiva dei contenuti, ma una reinterpretazione profondamente personalizzata. Dei proverbi l'autore fa ampio uso, per sottolineare un'affermazione a cui si vuole dare un risalto particolare, o per meglio far comprendere la natura di un personaggio.
L'inno, la danza e l'idea della festa sono invece usati con un diverso intento; questi aspetti indicano "momenti" intensamente radicati nella cultura Yoruba. Soprattutto la festa, tempo di celebrazione comune, avvenimento che coinvolge tutti, produce una elevata tensione sociale. Questi elementi sono usati dall'autore per comunicare con maggiore forza di penetrazione il suo messaggio, come veri codici linguistici.
Infatti, il teatro di Soyinka non lo si percepisce solo, o soprattutto, a partire dal piano verbale: in The Road è la danza della festa degli autisti a comunicare l'atmosfera eccitata. In A Dance of the Forest è la celebrazione del raduno delle tribù che ci introduce nel climax dell'opera.
          Le radici del teatro di Soyinka, dunque, affondano nei riti eseguiti dalla sua gente, e a cui sicuramente potè assistere da piccolo, prima che si svilissero perdendo il loro carattere di sacralità, di coesione sociale, per poi spesso diventare semplici manifestazioni di esotismo ad uso di turisti affamati di colore locale.
Parlando del teatro africano e soprattutto di quello della sua Nigeria, Soyinka usa sempre gli aggettivi "rituale", "sacro". “ African drama as one of man's formal representation of experience is not simply a difference of style or form, nor is it confined to drama alone. It is rappresentative of the essential differences between two world-views, a difference between one culture whose very artefacts are evident of a cohesive understanding of irreducible truths and another, whose creative impulse are directed by period dialectics”.
(Il dramma africano come rappresentazione formale dell'esperienza dell'uomo non è semplicemente una differenza di stile o di forma, né è limitato al solo dramma. È rappresentativo delle differenze essenziali tra due visioni del mondo, una differenza tra una cultura i cui stessi artefatti sono evidenti di una comprensione coesa di verità irriducibili e un'altra, il cui impulso creativo è diretto dalla dialettica del periodo).
Soyinka dice che nell'esperienza teatrale l'individuo perde la sensazione del proprio "io" come essere distinto dalla società, per diventare parte integrante della comunità, come dell'auditorio; egli acquisisce cosi un nuovo valore culturale basato su una rinnovata consapevolezza dei valori e dei credi di tutta la comunità, come pure della società intera. Dunque Soyinka definisce il dramma come mezzo di sviluppo della consapevolezza sociale, sottolineando così la dinamica di questo processo artistico”.
         La differenza tra il teatro europeo e quello africano non è semplicemente differenza di stile e di forma, né concerne esclusivamente il teatro. E' rappresentativa delle differenze essenziali tra due concezioni del mondo, è differenza tra una cultura i cui prodotti evidenziano una comprensione coesiva dì verità irriducibili, e un'altra, i cui impulsi creativi sono dominati da una periodica dialettica. Egli considera il dramma come la forma di espressione artistica più dinamica e rivoluzionaria; dice a questo proposito:”The theatre is simply but effectively in it an operational totality, both performance and audience, and there exists already in this truth a straight forward dynamic of drama... A tension, if you prefer the word, an active, creative and translatable tension which need not to be announced in words or action (from the auditorium) but which occasionally spills over into manifested response referred to as audience "partecipation”. (Il teatro è semplicemente ma effettivamente in esso una totalità operativa, sia spettacolo che pubblico, ed esiste già in questa verità una dinamica diretta del dramma... Una tensione, se si preferisce la parola, una tensione attiva, creativa e traducibile che non devono essere annunciate con parole o azioni (dall'auditorium) ma che occasionalmente si riversano in risposte manifestate denominate "partecipazione del pubblico).
Nell'esperienza del dramma, dunque, è lo spettacolo teatrale che forza l'auditorio, visto come un insieme di individui consapevoli della loro appartenenza alla società. Come membro dell'auditorio, l'individuo sperimenta le sue reazioni sia in comunione con gli altri sia singolarmente, tramite la tensione che gli attori riescono a comunicare.
         Il teatro è, semplicemente ma effettivamente nella sua totalità di operazioni, sia rappresentazione che auditorio, ed è già presente in questa verità una chiara dinamica del dramma... una tensione, se preferite la parola, attiva, creativa e traducibile che non ha bisogno di dover essere rivelata con parole o con gesti, ma di quando in quando si svela nel responso manifestato dalla partecipazione del pubblico.
Oltre ad usare riti specifici, miti, aspetti della lingua e della cultura Yoruba, allusioni letterarie e personaggi stereotipi, egli fa uso dei flash-back, del monologo diretto col pubblico, della teatralità della parola. L'utilizzazione del gioco verbale, esteso fino a creare una ricchezza di modulazioni, sta alla base del potere evocativo abilmente esercitato dal drammaturgo nigeriano sulle masse popolari del suo paese, Soyinka ha infatti una grande padronanza dei vari registri della lingua inglese: quello letterario, quello quotidiano e il cosiddetto Pidgin. Questo idioma è usato correntemente in Nigeria come strumento di comunicazione orale, sia per quanto riguarda l'uso quotidiano della lingua, sia per quanto riguarda la trasmissione delle tradizioni culturali indigene. Il Pidgin fu introdotto dai naviganti portoghesi che nel XII secolo approdarono in Africa. Questo idioma subì vari influssi attraverso i secoli. Determinante fu quello inglese. In Pidgin esiste soltanto una documentazione scritta: si tratta di un diario del 1700, scritto da un commerciante africano di schiavi. In rapporto a quest'ultimo aspetto, ci si pone oggi il problema di trovare un sistema di trascrizione grafica del Pidgin, in modo da favorire una più adeguata utilizzazione dì questa lingua in tutti i contesti comunicativi, incluso quello letterario.
Emanuela Scarponi

 

 23-04-2020

 

                                                                                                                                         Le Epupa falls con gli Himba e l'Etosha national park

       A Nord-Est della Namibia si possono ammirare le Epupa falls, che segnano il confine naturale con l'Angola. Le grandi cascate di Epupa sono formate dal fiume Cunene al confine, nella zona del Kaokoland, nella regione del Kunene. Il fiume è largo circa 500 metri in quest'area e scende in una serie di cascate per una lunghezza di 1 chilometro e mezzo, con la massima caduta singola di 37 metri in altezza.
Nonostante siano difficili da raggiungere da Opuwo, le cascate sono una grande attrazione per i visitatori in Namibia per la bellezza incontaminata dell'ambiente, con fichi, baobab, palme makalani e mopane, pareti rocciose colorate tutte intorno.
Il nome "Epupa" è una parola Herero che sta per "schiuma", in riferimento alla schiuma creata dall'acqua che cade.  Qui vivono gli Himba che, grazie ai pochi rapporti con gli Europei, hanno mantenuto gran parte del loro stile di vita tradizionale.
     Ogni insediamento Himba è composto da più capanne, disposte attorno ad un kraal centrale, dove vive un nucleo familiare indipendente.
Gli Himba sono pastori nomadi e non raramente una famiglia si sposta due o tre volte in un anno, al seguito del bestiame, in cerca di sorgenti d'acqua.
I capelli ed il corpo delle donne vengono spalmati di grasso e di ocra. Le giovani si fanno crescere i capelli che pettinano in due trecce rivolte in avanti finché, con la pubertà, possono scioglierli in tante trecce: da questo momento possono avere rapporti sessuali. La donna sposata aggiunge in testa un ciuffo di pelle di antilope e porta una conchiglia fra i seni, simbolo di fertilità. Il mais costituisce l’elemento base della loro alimentazione.
      A Sud si visita il parco più conosciuto della Namibia, l'Etosha National Park, il cui nome significa "Luogo dei miraggi", nome che deriva dalle polverose saline che si trovano al suo centro.
Nelle pianure ghiaiose vivono struzzi, zebre, orici, scoiattoli terrestri, antilopi saltanti, manguste, sciacalli e iene, leoni, dick, dick, giraffe, bufali africani, fagoceri. Non dimentichiamo l'elefante africano, il più grande mammifero terrestre ed anche uno dei più sociali. Gli elefanti bevono in media 65 litri di acqua al giorno per cui tendono a radunarsi presso le pozze d'acqua. La loro altezza varia dai 3 metri e mezzo delle femmine ai 4 dei maschi. Ed il loro peso va dalle 3 tonnellate delle femmine alle 5,6 tonnellate dei maschi. Alla pozza d’acqua giungono tutti gli animali della savana, prima gli erbivori e poi i carnivori; quindi può essere un'ottima postazione per ammirare la fauna, senza disturbare la loro quiete. Le giraffe si abbeverano, assumendo una posizione estremamente singolare che le rende vulnerabili ai predatori: devono allargare le zampe anteriori piegandole verso terra, fino a che il capo non raggiunga il livello dell'acqua. Ogni animale si pone in modo differente di fronte alla pozza d'acqua, tanto agognata.
      È possibile gustare lo spettacolo notturno nell’Etosha National Park seduti sugli scalini di una sorta di anfiteatro creato dall’uomo, che fa da spartiacque tra il campsite, dimora umana, e la savana.
La luna fa da protagonista indiscussa e da sfondo ad uno spettacolo unico al mondo. Di notte, infatti, la savana brulica di vita: appaiono dal buio le iene, che amano vivere accanto all'uomo, nutrendosi dei suoi avanzi. Esse sono considerate comunemente gli "spazzini" della savana, le principali divoratrici, insieme a sciacalli ed avvoltoi, dei cadaveri dei grandi animali abbattuti dai predatori.


Emanuela Scarponi


 30-03-2020

 

                                                                                                                                       Grandi esploratori: Lady Florence Dixie


      Lady Florence Dixie era nata nel 1855 e passò la sua infanzia nel castello in Scozia insieme alla sua famiglia.
Sin da giovinetta conduceva una vita spensierata improntata sul permissivismo ed era incoraggiata dal padre in ogni suo movimento.
Le piaceva andare a cavallo, partecipare alle battute di caccia, praticava molti sport: il nuoto, la vela, il tiro con l’arco; amava vestirsi come voleva e vivere in grande libertà, sempre in simbiosi con il fratello gemello James. Questo suo meraviglioso modo di vivere terminò quando sua madre si convertì al Cattolicesimo. Le venne affiancato prima un precettore gesuita e, dopo un periodo in collegio, una governante non molto aggraziata. Allora si dedicò alla letteratura, scrisse racconti ma dopo l’allontanamento del suo gemello e la morte di un altro fratello, tre anni dopo si sposò con Lord Dixie.
Il matrimonio la salvò dal controllo materno e ripensò a quel viaggio tanto agognato nel ritrovare quello Yeti, a cui aveva per anni pensato.
      Lady Florence Dixie aveva letto appunti vari e libri su quello che poi sarebbe diventato “l’abominevole uomo delle nevi“, desiderava ardentemente avere notizie, conoscere questo essere di cui tutti parlavano e che nel primo suo viaggio nelle Ande non era stato possibile trovare.
Lesse i racconti di un altro esploratore, suo connazionale, C.G.Musters, che diceva di aver sentito parlare di un certo Yeti andino chiamato “el trauco“. È una specie di satiro peloso di bassa statura, con in mano un' ascia di pietra e un bastone. Musters così come Darwin non avevano né visto, né creduto a quest’uomo selvatico che secondo i montanari di tutto il mondo viveva nelle alte cime della Ande.
      Si sentiva anche parlare di un “Eldorado”, una mitica città perduta tra quelle cime, ricca di tesori.
La giovane Lady Florence non andava alla ricerca dell’oro, era molto benestante di suo; il suo era un viaggio avventuroso, basato sulla caccia, in linea con il gusto dell’esotico che avevano tanti altri inglesi dell’epoca. Oltre al marito, lady Florence partì con due dei suoi fratelli con la scommessa di trovare lo Yeti e la felicità di poter cacciare e cavalcare tra la pampa.
In quella spedizione volle portare con sé la stessa guida che aveva accompagnato Musters. Si avventurarono per lungo e per largo lungo le Ande occidentali, ma senza alcuna novità. Conobbe ed interrogò genti di razze diverse e di usanze molto lontane dalle sue, come il mangiare carne cruda.
      Capì che gli incroci tra le popolazioni potevano portare solo al peggioramento delle etnie originarie. Cercò di paragonare il mondo andino alle tribù del Nord America, vedeva tra loro molte affinità come l’abitudine di comunicare con segnali di fumo, colorarsi il corpo, credere negli sciamani e negli uomini della medicina. Dopo vari giri in queste zone dovette ricredersi, chiese anche il parere al grande Darwin, che risultò del tutto negativo e pensò allora di trascrivere questi suoi e altrui racconti in due romanzi. In uno di essi lo Yeti delle Ande diventa una specie di King kong, selvaggio ma gentile, che si prende cura di una giovane esploratrice come lei.
Ormai delusa dalle sue ricerche negative in tal senso, torna in Gran Bretagna e , subito dopo, si professa animalista e vegetariana, contraria del tutto alla caccia e alla vivisezione e purtroppo termina di scrivere, colpita da diverse malattie.
Emanuela Scarponi


 13-04-2020


                                                                                                                                                                 Gli Orangutan

    Giungla impenetrabile; vette di oltre 4.000 metri; animali di ogni genere e atolli dal mare cristallino rendono il Borneo una delle Regioni più affascinanti di tutto il Sud Est Asiatico.
Diviso tra Malesia, Indonesia e Brunei, il Borneo, terza isola più grande al mondo, agli occhi di noi occidentali viene spesso considerato una meta tanto selvaggia quanto inaccessibile.
Il Sarawak, nel Borneo malese, ospita una delle pochissime riserve al mondo dove è possibile vedere gli Orangutan in stato di libertà: il Semenggoh Wildlife Centre. Qui, da oltre 20 anni i ranger locali lavorano per reinserire nel loro habitat naturale gli Orangutan rimasti orfani o salvati dalla cattività.
     Il Borneo presenta una grande biodiversità se paragonato a molte altre aree. Si trovano circa 15.000 specie di piante da fiore, con 3.000 specie di alberi, oltre a 221 specie di mammiferi terrestri e 420 di uccelli.
     La foresta pluviale del Borneo è l'unico habitat esistente per l'orangutan, oltre ad essere un importante rifugio per molte specie endemiche, come l'elefante del Borneo, il rinoceronte di Sumatra, l'orso malese, il babirussa e il leopardo nebuloso del Borneo.
Gli ominidi (Hominidae Gray, 1825), noti anche come grandi scimmie, sono una famiglia di primati risalente al Miocene inferiore. Di questa famiglia fanno parte gli oranghi, i gorilla, gli scimpanzé, gli esseri umani e alcuni gruppi fossili, tra i quali gli australopitechi. Fino ai primi anni sessanta venivano classificati come ominidi solo l'uomo e generi estinti ritenuti appartenenti alla linea evolutiva umana. Il termine viene ancora usato talvolta nel linguaggio comune con tale significato.
    Le foreste pluviali del Borneo malese costituiscono l’habitat di specie affascinanti come l’orango del Borneo, l’elefante pigmeo, il leopardo nebuloso, la scimmia nasica e il rinoceronte di Sumatra, tutte sull’orlo dell’estinzione. Gli ecosistemi forestali, inoltre, immagazzinano grosse quantità di anidride carbonica che viene di nuovo rilasciata in caso di degrado e abbattimento delle foreste stesse, di dissodamento tramite incendi o di drenaggio delle torbiere per la loro conversione in piantagioni.
     L'orango è un animale tranquillo e pacifico: non fugge alla vista dell'uomo, ma lo fissa incuriosito con calma. Se suppone pericolo, cerca scampo sulla alta cima degli alberi e si nasconde fra il fogliame; se poi non si sente abbastanza sicuro, salta da una cima all'altra, ma sempre con cautela.
Conosce l'impeto e la leggerezza di altre specie di scimmie. E’ sempre così lento nei movimenti che lo si può inseguire comodamente; che però si difenda con bastoni maneggiandoli a foggia di clava è una leggenda raccontata dagli indigeni, ma non è stata mai creduta da alcuno. Senza dubbio se viene ferito e si vede il cacciatore alle calcagna sa difendere valorosamente la propria pelle, e non è avversario spregevole, avendo fortissime le braccia e formidabili mandibole. Con facilità spezza un rampone od il braccio di chi con esso lo minaccia: i suoi morsi sono veramente terribili.
     La Terra è un pianeta dall’incredibile biodiversità: in ogni luogo del globo, infatti, è possibile scovare una moltitudine di specie vegetali e animali tra le più disparate. Eppure, a causa delle attività dell’uomo quali l’urbanizzazione massiccia, il disboscamento e l’inquinamento, molti paradisi di flora e fauna sono oggi altamente minacciati. Ormai da tempo si parla di “polmoni verdi” per indicare quelle aree che, data la loro ricchezza vegetale, contribuiscono in modo preponderante alla salute della Terra. Luoghi estesi e incontaminati, veri e propri serbatoi d’ossigeno che, da millenni, garantiscono la sopravvivenza di ogni essere vivente. Ma quali sono i principali polmoni verdi della Terra e perché sono sempre di più a rischio?
     Sono molte le grandi foreste e i paradisi di vegetazione, disponibili sul nostro Pianeta. Queste aree assolvono alle più svariate funzioni: oltre alla produzione di ossigeno e contestualmente all’assorbimento e alla riduzione dell’immissione di anidride carbonica in atmosfera, risultano fondamentali per la regolazione del clima, per il mantenimento del terreno con una continua azione antierosione, come fonte di nutrimento e riparo per molte specie animali.
Delle foreste immense che ricoprivano il Borneo sono rimasti piccoli fazzoletti di terra. Vengono, infatti, incendiate per guadagnare terra per la coltivazione principalmente dell'olio di palma. Gli animali spesso si rivoltano contro l'uomo e vengono uccisi a colpi di machete. Altre volte vengono percossi o feriti gravemente e lasciati morire.
      Il Centro che ho avuto la fortuna di visitare si occupa di salvare, curare e poi reinserire in natura oltre agli Orangutan anche tutti gli altri animali, cercando di interferire il meno possibile con la natura.
Le strutture che normalmente li ospitano sono grandissime perché questi animali hanno bisogno di molto spazio. Sono state create delle isole in cui gli oranghi vengono tenuti e curati e dove l'uomo si occupa di nutrirli senza entrare in contatto con loro proprio per rispettare la loro natura schiva e per facilitare il loro reinserimento in natura. Ricordiamo che gli animali non sono fatti per l'uso e consumo dell'uomo. Le foreste, purtroppo, sono tutte in pericolo. Non solo in Asia ma in tutto il mondo ci sono multinazionali che depredano ambienti e mettono in pericolo interi ecosistemi irriproducibili, per creare coltivazioni o allevamenti intensivi di animali da carne. È tutto un sistema sbagliato che fa arrivare soldi solo nelle tasche di persone ricche e senza scrupoli. Le popolazioni che usufruiscono di questo sistema sono le popolazioni occidentali che quindi sono direttamente responsabili.
    In cosa consistono le isole dove vengono curati gli oranghi e da chi vengono messe a disposizione? Le isole si trovano all'interno del Centro di recupero e sono divise dall'acqua, di cui gli oranghi hanno paura, come dei piccoli fiumi che le separano. Quindi gli animali non possono scappare ma hanno moltissimo spazio a disposizione. Man mano che si abituano vengono messi in isole più grandi senza rifornirli più di cibo in modo da riabituarli gradualmente all'autonomia. Quando sono pronti vengono catturati e riportati nel cuore della foresta. I volontari si caricano di gabbie pesantissime, perché l'orango è un animale molto grande, e camminano per giorni per raggiungere i luoghi più adatti per liberarli. Gli animali vengono seguiti attraverso un microchip. Mentre ero lì abbiamo visto che una femmina aveva avuto i cuccioli. Questo ci fa ben sperare!

 Emanuela Scarponi



 26-03-2020


                                                                                                                                                              The wall paintings in southern Africa
         Spread throughout the caves and beneath the shelters of the ‘kopjes’ in most of the southern part of Africa were done by the ancient Khoisan.  The style is similar to that of the prehistoric cave paintings of Africa and Europe, from Tanzania to the Sahara, from the north of Africa to Spain and France. The obvious analogy in form and style is not considered evidence enough to demonstrate an ethnic connection or even a cultural one between them. Today the Khoisan no longer produce paintings of this kind.
There are, however, reports that testify to the production of these paintings during the last century (ELA maybe you should change this to ‘during the 19th century’ the original must have been written pre 2000). The incisions seem to be older. In general they portray animals: gazelles, antelopes, elephants, ostriches. In the Sahara the wildlife painted enabled the paintings to be dated, this isn’t always possible in the south of Africa where the same animals live today.
The stratigraphy of the colours shows that the monochrome paintings precede the two-colour paintings, which precede the polychrome works. The refined reality of the animals can be, at times, surprising.The hunters are depicted either alone or in groups, there are social gatherings and ceremonies with men sitting in a circle.
The human figures are thread-like, but capture the agility of their movements.  It is often possible to recognize the ethnic origin of the figures: the Khoisan are short, yellow, red and brown in colour;  the Bantu are tall and black; the Europeans wear clothes and are armed with rifles.
The pre-Bantu period dates back to before the 1600’s; the European figures date back to the 18th and 19th centuries.
          We don’t need to hypothesize about amazing historical and cultural references when interpreting these representations.
For example, the ‘Sumerian clothes’ of some paintings are not Sumerian at all, but show the way that the inhabitants of the mountains of Lesotho dressed.
In the same way, the unusual figure in the gorge of Tsibab in Namibia, called ‘ The white woman of Brandberg’, is, without doubt, an African man covered in white decorations and beads according to the tradition of many African peoples.
           The explanation that the paintings had a motivation of magic seems plausible, but we must also recognize their style, apart from technical ability, the aesthetic sense of people used to being in touch with nature and with a high degree of social participation.
The settling of the Bantu into southern Africa is relatively recent. It dates back to the first centuries AD.However, the migratory movements, with the formation of new ethnic groups, still had not ended in the 19th century. During continuing studies, many archaeological remains have come to light regarding the most ancient movements, the most impressive and well-known are those in Zimbabwe.
The Bantu, however, pushed on further,  expanding their territories to the southern extremities of Africa mixing with the Khoisan, who , finding themselves in a clear minority, moved northwards.
Emanuela Scarponi


(Le pitture rupestri sparse in tutte le grotte e tra le rocce nella maggior parte dell'Africa australe sono prodotte dagli antichi San. Lo stile è simile a quello delle pitture rupestri preistoriche del resto dell'Africa e dell'Europa, dalla Tanzania al Sahara, dal Nord Africa alla Spagna e Francia. La ovvia analogia nella forma e nello stile non è considerata abbastanza evidente per dimostrare una connessione etnica o persino culturale tra loro. Oggi i Khoisan non producono più pitture di questo tipo.
Vi sono comunque resoconti che testimoniano la produzione di questi dipinti durante l'ultimo secolo. Le incisioni sembrano più antiche. In generale essi riproducono animali: gazzelle, antilopi, elefanti, struzzi. Nel Sahara gli animali selvaggi dipinti permisero di datare le pitture. Ma questo non è sempre possibile nell'Africa australe, dove gli animali sono sempre i medesimi. La stratigrafia del colore mostra che i dipinti monocromi precedono quelli bicromi, e policromi. L'esatta riproduzione degli animali può essere a volte sorprendente così pure le figure umane. I cacciatori sono dipinti o soli o in gruppo, ma catturano l'agilità dei movimenti. Spesso si riconosce l'origine etnica delle figure: i Khoisan sono piccoli, riprodotti con il giallo, rosso e marrone, i Bantu sono alti e neri; gli Europei indossano vestiti e sono armati.
Il periodo pre-Bantu risale ad un periodo anteriore al 1600; le figure europee risalgono ai secoli XVIII e XIX. Non abbiamo bisogno di ipotizzare alcunché circa i riferimenti culturali, storici, quando si interpretano queste rappresentazioni. Per esempio, gli abiti sumeri di alcuni dipinti non sono affatto sumeri ma mostrano il modo in cui gli abitanti delle montagne del Lesotho si vestono. Allo stesso modo, la figura inusuale nella Gole di Tsinab in Namibia, chiamata "La dama bianca di Brandberg", è senza alcun dubbio un uomo africano ricoperto di decorazioni bianche secondo la tradizione di molti popoli africani. La spiegazione per cui i dipinti avessero una motivazione magica sembra plausibile, ma dobbiamo riconoscere lo stile, al di là della abilità tecnica, ed il senso estetico utilizzato dai Khoisan che evidenzia il contatto con la natura e con un alto grado di partecipazione sociale.
La stabilizzazione dei Bantu in Africa australe è abbastanza recente. Risale ai primi secoli prima di Cristo. Comunque i movimenti migratori, con la formazione di nuovi gruppi etnici, non era ancora finita nel 19esimo secolo.
Durante i continui studi, molti resti archeologici sono venuti alla luce in relazione ai più antichi movimenti, i più impressionanti e più conosciuti dei quali sono quelli nello Zimbabwe. I Bantu, comunque, si spinsero in avanti, espandendo i lori territori alle estremità Sud dell'Africa mescolandosi con i Khoisan che, trovandosi in minoranza, andarono verso Nord).

Orsi polari

03-04-2020


        Del riscaldamento globale ne trattano i giornali, gli studi scientifici, la televisione ed i blog della rete, ma la situazione si aggrava sempre di più. Che la colpa sia interamente dell’uomo o soltanto in parte, resta il fatto che diverse specie animali sono state costrette a cambiare habitat, spostandosi in zone più adatte a loro a livello di clima. Il surriscaldamento sta sciogliendo i ghiacci, riducendo l’Artico ad isole sparse nell’oceano.
       La perdita dei ghiacci non significa soltanto aumento del livello marino: molti animali migrano, non trovando più una temperatura adatta, e i predatori di questi finiscono per perdere la loro principale fonte di sopravvivenza. In questo cambiamento, tra l’altro piuttosto rapido, alcune specie animali non fanno neppure in tempo ad adattarsi o non ne hanno la possibilità. E’ il caso dell’orso polare (Ursus maritimus), che più di tutti ha sofferto la rovina del proprio ecosistema.
       La Groenlandia dista 280 chilometri dall'Islanda. Quindi, malgrado gli orsi polari non siano nativi di questa terra, occasionalmente ci finiscono navigando per il mare sugli iceberg provenienti dall'Est della Groenlandia.

 

 

         (Estratto dall'articolo di Ævar Petersen del maggio 2010 Icelandic Institute of Natural History). Sono circa 500 i riferimenti storici documentati ad avvistamenti di orsi polari in Islanda riportati su giornali ed articoli, pubblicazioni di storia naturale, biografie, annali e manoscritti, ma bisogna tenere presente che molti racconti sono tramandati per tradizione orale. Nel marzo 2010 si sono praticamente contati 289 avvistamenti di orsi polari accertati nella storia di Islanda, e 611 i riferimenti generici.

                   

Questa è la distribuzione degli avvistamenti degli orsi polari in Islanda. Ogni punto rappresenta una singola osservazione. Il punto al centro dell'Islanda indica il numero di osservazioni che non può essere specificato ulteriormente).
         Il più antico riferimento risale all'anno 890 ed è riportato nel "Book of Settlement (Landnámabók), dove si attesta che Ingimundr il Vecchio, che abitava nella Vatnsdalur Valley, incontra un orso femmina coi suoi due cuccioli presso un lago conosciuto oggi come cubs Húnavatn o Cub-Lake. Cattura gli animali vivi e li porta in regalo al re Haraldr di Norvegia. Haraldr premia Ingimundr con una nave Stìgandi, carica di legname. Sono sporadici i riferimenti precedenti ad avvistamenti di orsi polari, ma sono molte le storie narrate ed i luoghi indicati. I resti rinvenuti del più vecchio orso polare data circa 13 000 anni fa (Jóhannes Áskelsson 1938), a dimostrazione che gli orsi polari sono arrivati in Islanda molto prima di essere insediata dall'uomo. Gli annali sono la principale risorsa dei dati storici sulle osservazioni dell'orso polare da cui si evince che mentre sono sporadici gli avvistamenti degli orsi polari nel Medio Evo, diventano più o meno continui dal 18esimo secolo ad oggi, particolarmente dopo l'avvento dei giornali nel 19esimo secolo. Þórir Haraldsson di Akureyri e Einar Vilhjálmsson di Seyðisfjörður hanno numerato gli orsi polari arrivati in Islanda.
     

 

        Come si può vedere, la frequenza degli arrivi degli orsi polari tocca il suo picco massimo durante la seconda metà del 19esimo secolo. Le fluttuazioni annuali sono considerevoli. Si riportano i dati relativi a segni lasciati da orsi arrivati in Islanda: nel 1274 sono 22; nel 1275 sono 27; nel 1621 sono 25; nel 1745 sono 39; nel 1881 sono 73; nel 1918 sono 30; nessun avvistamento in altri anni. La maggior parte dei riferimenti documentati relativi agli orsi polari risale al 19esimo secolo, ma bisogna tenere a mente che mancano dati relativi ai secoli precedenti. A questi si aggiunge l'ultimo avvistamento fatto da me il 3 novembre 2013, al tramonto, presso la laguna glaciale di Jokulsarlon, la laguna del fiume Giallo, che si trova a Sud Est dell'Islanda. Una laguna di profonde acque gelide in cui galleggiano numerosi iceberg dai riflessi azzurri, alcuni dei quali striati da nera sabbia lavica e alte grida di gabbiani, sterne e procellarie. Sembra di stare al polo, invece siamo a Jokulsarlon, lungo la Ring Road, una delle lagune che si trovano ai piedi della calotta glaciale islandese, il Vatnajokull.
   La banchisa è il fattore che influenza maggiormente l'arrivo degli orsi polari in Islanda. Gli avvistamenti degli orsi polari su terra islandese deve essere effettuata tenendo conto della sua distribuzione intorno all'Islanda dai fiordi ad Ovest e lungo la costa a Nord e ad Est fino all'estremo Sudest del Paese. La banchisa si dirige prima verso i fiordi ad Occidente dell'Islanda, poi si disperde verso Est lungo la costa settentrionale. È sorprendente dunque che la maggior parte degli avvistamenti degli orsi polari non avvenga nei fiordi occidentali ma piuttosto a settentrione del Paese: a Skagafjarðarsýsla District ne sono stati avvistati 20; a Eyjafjarðarsýsla District 17; a S-Þingeyjarsýsla District 26 ed a N-Þingeyjarsýsla District 54. Sembra che molti di questi orsi arrivino galleggiando sulla banchisa diretta verso Sud dall'isola Jan Mayen verso la costa Nord-Est dell'Islanda.

         Racconti o leggende sugli orsi bianchi? Sono molte le storie narrate su quelli che arrivano in Islanda. Molti racconti hanno tono folkloristico ed è difficile distinguere tra mito e realtà. Alcune storie sono chiaramente assurde come la storia dell'orso sull'isola di Grímsey che sbattè con così tanta forza la sua zampa sul ghiaccio da far sgorgare una sorgente abbondante d'acqua o quella di un orso che inseguì un uomo sul Lágheiði Moor ma non lo attaccò per una lama elfica che aveva con sé. Quando l'uomo la dette via, l'orso lo attaccò e lo uccise. 

          Una storia simile viene raccontata del villaggio di Kelduhverfi. In 4 o 5 casi sembra che l'orso abbia ucciso delle persone, probabilmente 20. E' famoso anche il racconto di un orso polare che apparve sulla porta del fabbro Jóhann Bessason's Smithy nell'inverno del 1881. La legge sulla caccia agli orsi del 1849 - che permette alle persone di cacciare ed uccidere orsi ovunque si trovino - è rimasta in vigore fino al 1994, sostituita dalla corrente legislazione che protegge gli orsi polari ad eccezione di casi in cui siano pericolosi per la salvezza degli esseri umani e del bestiame sul territorio islandese.
       La legislazione islandese resta piuttosto vaga sull'argomento sebbene sia chiaro che non si può uccidere un orso polare in acqua, se sta nuotando o galleggiando sulla banchisa. L'uccisione di tre orsi polari tra il 2008 ed il 2010 ha destato l'interesse dei mass-media islandesi e stranieri, divenendo la protezione dell'orso polare ed i possibili effetti dei cambiamenti climatici globali, oggetto di dibattito internazionale. D'altra parte, gli orsi polari non possono prosperare in Islanda a causa dell'assenza di ghiacciai eterni ed insufficiente rifornimento di cibo. Nel 2008 gli orsi polari sono arrivati in estate piuttosto che in inverno e gli Islandesi hanno pensato ad un cambiamento climatico in atto. Mentre la frequenza degli arrivi degli orsi polari in Islanda nell'arco degli ultimi 50 anni è la medesima, tra il 1901 ed il 1950 fu pari al doppio, mentre tra il 1851ed il 1900 gli orsi arrivavano due o tre volte l'anno ma il numero resta il medesimo negli ultimi tre secoli, una media di 1o 2 animali l'anno. Dopo gli incidenti avvenuti nel 2008, una Commissione ha fatto delle raccomandazioni da seguire in caso di approdo di orso polare sulla spiaggia islandese. La Commissione è giunta alla conclusione che è meglio uccidere questi animali, basandosi sulle seguenti motivazioni: la salvezza degli esseri umani e del bestiame, la larga popolazione di orsi polari nell'area da cui provengono (NE-Greenland) e l'alto costo del trasporto degli animali nel loro habitat naturale. Si potrebbe aggiungere un quarto fattore come elemento discriminante: le condizioni di salute degli orsi al loro arrivo. E chiedersi se non sarebbe il caso che le autorità locali non assestassero le loro condizioni di salute prima di decidere di abbatterli. Le associazioni per la conservazione e la protezione della vita animale protendono per riportare gli animali nel loro habitat naturale e l'Islanda potrebbe almeno tentare di aiutare a proteggere queste specie in via di estinzione.

 Emanuela Scarponi

 

 

 

 

16-03-2020


                                                                                                                                              Gli Etruschi ed il mare
                                                                                                                Una grande mostra con reperti inediti alla Centrale Montemartini di Roma
                                                                                                                 “Egizi-Etruschi. Da Eugene Berman allo Scarabeo dorato”

        La grandiosità della civiltà egizia si fa leggenda, di racconto in racconto dei marinai che attraversano il Mediterraneo, nell'arco del tempo. Le leggende ed i racconti delle piramidi egizie, delle credenze religiose, delle tradizionali metodologie di mummificazione dei loro defunti fanno il giro del mondo e finiscono per influenzare anche inconsapevolmente la storia e le tradizioni dei popoli del Mediterraneo, culla delle antiche civiltà umane, e forse non solo, oltrepassando lo spazio ed il tempo. Le storie dell'antico Egitto raggiungono anche l'Etruria, che seppure civiltà più tarda nei secoli, conserva elementi propri della civiltà egiziana.
Fenici, Greci e Cartaginesi scambiano prodotti attraverso il Mar Mediterraneo e portano con sé anche tradizioni dei popoli incontrati, raggiungendo l'Etruria, le origini della cui popolazione restano ancora ignote e rappresentano ancora oggi un mistero per gli studiosi.
L'Etruria si estende nelle odierne Regioni italiane della Toscana e del Nord del Lazio. E degli Etruschi restano intatte le città funerarie, con le famose tombe ancora intatte.
Ogni qualvolta ci si accinge ad osservare le tombe etrusche che gli agricoltori di tanto in tanto scoprono arando il terreno, non si può fare a meno di pensare all'antica civiltà egizia. Lo stesso dicasi per le piramidi maya, anch'esse tarde rispetto all'antico Egitto, e con funzioni diverse dalla sepoltura, ad eccezione della meravigliosa piramide di Palenque e del suo re, su cui tante leggende si narrano. Le somiglianze sono tali da ispirare inconsapevolmente la nostra immaginazione...
Gli Etruschi furono sicuramente un popolo di marinai. Tito Livio scrisse in proposito: “La potenza degli Etruschi era così grande, che la fama del nome loro empiva non solo la terra, ma anche il mare in tutta l’estensione dell’Italia, dalle Alpi allo stretto di Messina”. Testimonianze tipiche della civiltà etrusca, come vasi di bucchero e bronzi lavorati, sono venute alla luce in Sardegna, nella Francia meridionale, in Spagna, in Grecia, in Africa settentrionale, in Asia Minore e Cipro e ciò attesta l'esistenza di una importantissima marina mercantile etrusca che rivaleggiava per il dominio del mare con Greci, Cartaginesi e Fenici.
Lo scambio sui mari con tutti questi popoli trasformò lo stile di vita ed aiutò lo sviluppo della società e dell'economia etrusca. Riporto il titolo di una pubblicazione individuata molto interessante a tale riguardo:"Manufatti etruschi e italici nell'Africa settentrionale (IX-II sec. a.c), in «Corollari. Scritti di antichità etrusche e italiche in omaggio all'opera di Giovanni Colonna», a cura di D.F. Maras, Pisa-Roma 2011, ". Ulteriori scoperte recenti arricchiscono la nostra conoscenza della storia passata che ci aiuta a ricomporre il puzzle della esistenza, di cui ancora oggi conosciamo solo alcuni frammenti. Nel 2016 le scoperte di Vulci ci riportano indietro nel tempo nel ripercorrere il tragitto inverso: elementi egizi vengono rinvenuti nelle tombe etrusche. Ne scaturisce una interessantissima mostra: Egizi ed Etruschi, una grande mostra con reperti inediti che ha avuto luogo presso la Centrale Montemartini di Roma.
Tra i più significativi ritrovamenti ci sono: la testa di leone in basalto, il leone in nenfro nella necropoli della Osteria; l'amuleto del Dio Nefertum in faience nella Tomba Castellani, lo Scarabeo dorato di Vulci. La presenza di amuleti egizi, rinvenuti in contesti tombali nelle recentissime campagne di scavo a Vulci, importante centro dell’Etruria meridionale, offre lo spunto per un confronto tra gli abitanti della Valle del Nilo e gli Etruschi, accomunati nella fantasia popolare dallo stesso alone di mistero. La civiltà etrusca, infatti, era aperta agli scambi commerciali e culturali con gli altri popoli che si affacciavano sul Mediterraneo e ne eredita l'essenza, facendole una sua forma d'arte. Lo scarabeo infatti è uno dei simboli più comuni nel mondo egizio, che ricorda l’aspetto del sole al mattino: Khepri, derivante dal verbo kheper, rinascere: è quindi essenzialmente un simbolo di resurrezione e non poteva mancare sulle mummie, posto in corrispondenza del cuore.
L'effettiva decadenza degli Etruschi iniziò nel 474 a.c. sul mare, quando i Greci d'Italia guidati dalla città di Siracusa gli inflissero presso Cuma una sconfitta decisiva, e subito dopo essi persero il controllo del Mar Tirreno. Con la perdita dell'indipendenza politica si concludeva il ciclo di un antico popolo che per secoli aveva primeggiato, per cultura e per ricchezza, nel bacino del Mediterraneo occidentale.

Emanuela Scarponi