20-06-2021


                                                                                                                     Egitto on air
                                                                                          L’Inverno arabo a dieci anni dalle primavere arabe

     Non ci sono solo luci in Africa, ma anche ombre. Le transizioni nei Paesi del Nord Africa sono irte di ostacoli e dense di incognite. Esiste anche il rischio che le proteste di piazza siano strumentalizzate da forze regressive che perseguono la destabilizzazione. Che ne è del vento che animò le piazze di Tunisia, Egitto, Libia e tanti altri Paesi dell'area? Le tensioni nel Nord Africa si ripercuotono sui Paesi del Sahel, come il Mali, che ha già subito i contraccolpi della guerra civile libica. Preoccupa la fascia di instabilità che si estende dall’Atlantico al Mar Rosso.
In un territorio a noi molto vicino, la Tunisia, il 17 dicembre 2010 un ambulante tunisino si dette fuoco per protestare contro i soprusi delle autorità. Quelle fiamme accesero le proteste che partendo dalla Tunisia percorsero anche l'Egitto, la Libia, la Siria, l'Iraq, lo Yemen, il Bahrein… Il mondo battezzò quelle proteste “Primavere arabe”.
     La goccia che fece traboccare il vaso fu la salita dei prezzi dei generi alimentari che finì con il generare uno spirito di affermazione delle libertà contro l’oppressione dei regimi totalitari al governo da oltre trent’anni.
Seguì senza sosta la rivolta in Egitto. Il 12 febbraio Mubarak si dimise ed il potere restò in mano militare, con il tripudio della folla. Continuò il governo del Vice Presidente Suleiman. Il Consiglio Supremo impose il rispetto di tutti gli accordi internazionali e sciolse le Camere.  Tuttora, Tunisia ed Egitto sono accumunati da un medesimo fattore, due Stati poveri, oppressi da regimi pluridecennali, autoritari con l’aggravante di una forte densità demografica e da presenze fondamentaliste ben piantate che convivono con i cristiani copti dal 451 d.C.
      Si era ipotizzato che la rivoluzione in Egitto dovesse svolgersi in modo quasi pacifico ed al contrario delle previsioni ha visto forze inarrestabili contro il passato regime che, ha contato numerosissime vittime. Sono emerse delle richieste a sostegno dei diritti umani, la fine dell’autoritarismo, la cessazione dei comportamenti polizieschi e del sistema corrotto e clientelare. L’unione di nuovi aneliti di libertà e diritto ad una pacifica esistenza induce e fa riflettere sull’avvenire democratico dei popoli arabi. La convivenza di cristiani copti e musulmani nel medesimo Paese è fonte di tensione sociale e politica che di certo non fa bene alla stabilità del Paese.Le rivolte a schiera investono, come un evento disastroso, tutta la parte meridionale ed orientale del Mediterraneo.
In Egitto il colpo di Stato militare avviene poco dopo le dimissioni di Mubarack: il ministro della difesa del suo successore, generale Abdel Fattah al-Sisi, si fa confermare al potere nelle elezioni presidenziali del maggio 2014. Il suo mandato verrà rinnovato con un nuovo voto plebiscitario del 2018.
Velocemente il nuovo raìs corre verso la restaurazione di un potere in cui l’Egitto verrà governato da una sola classe di governo, quella dei militari. Il ritorno al passato è compiuto. Partita nel 2011, già con l’elezione di Sisi nel 2014 la rivoluzione è stata cancellata.      Tutto il resto è consolidamento del nuovo/vecchio regime.
      E’ fortemente criticata la politica del regime di al-Sīsī, a causa della frequente brutalità con la quale le forze dell'ordine reprimono le manifestazioni di dissenso provenienti soprattutto da parte dei Fratelli Musulmani, dichiarati fuorilegge dopo il colpo di Stato del 2013 e da allora fatti oggetto di arresti arbitrari, torture e condanne a morte di massa irrogate da una magistratura spesso ligia ai voleri presidenziali e che, con il pretesto della lotta al terrorismo "fondamentalista", non evita di avviare all'occorrenza pesanti azioni giudiziarie contro i più attivi critici del modo di operare del governo.
In questo quadro di grave tensione politica e religiosa, Giulio Regeni viene rapito al Cairo il 25 gennaio 2016, giorno del quinto anniversario delle proteste di Piazza Tahrir, e ritrovato senza vita il 3 febbraio successivo nelle vicinanze di una prigione dei servizi segreti egiziani.
     Dopo tutti questi anni di reticenza, si è tenuta in questi giorni la prima udienza preliminare sul caso dell’omicidio di Giulio Regeni, che ha visto coinvolti i 5 agenti appartenenti ai servizi segreti egiziani accusati del sequestro, della tortura e dell’uccisione del giovane ricercatore italiano, trovato senza vita il 3 febbraio 2016 sul ciglio della statale che dal Cairo porta ad Alessandria.
Il 25 maggio 2021 è arrivato il rinvio a giudizio per gli 007 egiziani, il generale Sabir Tariq, i colonnelli Usham Helmi e Athar Kamel Mohamed Ibrahim, e Magdi Ibrahim Abdelal Sharif, accusati a vario titolo di sequestro di persona pluriaggravato, concorso in omicidio aggravato e concorso in lesioni personali aggravate per l’omicidio di Giulio Regeni. Il processo è stato fissato per il prossimo 14 ottobre davanti alla Corte d’Assise di Roma. (La Stampa 25 maggio 2021).
I venti di primavera sono ormai un ricordo quasi del tutto dimenticato e la stabilizzazione dei Paesi del Nord Africa è andata morendo in questi dieci anni passati reprimendo di volta in volta i giovani rivoltosi, di idee e nazionalità diverse.
Emanuela Scarponi

07-06-2021

                                                                                                          Il cinema in Africa: Festival Panafricain de Cinéma de Ouagadougou

      Il cinema è giunto in Africa fin dalla fine del XIX secolo ma la produzione cinematografica africana ha iniziato a svilupparsi solo dopo la Seconda guerra mondiale, nel periodo immediatamente precedente la progressiva decolonizzazione del continente.
Anche il Niger lega la nascita del suo cinema alla storia europea.
In Niger gli sviluppi della produzione cinematografica, seppur affrontati con grandi difficoltà soprattutto di ordine economico, portano alla nascita nel 1969 del FESPACO (Festival Panafricain de Cinéma de Ouagadougou) e nel 1970 della FEPACI (Federation Panafricaine des Cinéastes) che riuniva 33 dei Paesi del continente, promuovendo misure governative di protezione per la distribuzione e attività di incremento della produzione cinematografica africana.
     Il Festival Panafricain du Cinéma de Ouagadougou (abbreviato in FES.PA.C.O), veniva allestito ogni due anni a Ouagadougou, in Burkina Faso. Il premio fu istituito nel 1969 ed è stato probabilmente l'evento principale della storia del cinema africano. La visibilità internazionale dell'evento ha permesso a molti giovani registi africani di farsi conoscere nel mondo.
Il Burkina Faso vive dunque la sua âge d'or cinematografica negli anni di presidenza del compianto Thomas Sankara (1983-1987) che sostiene e promuove le attività del Fespaco; dunque è a partire da questi anni che il cinema burkinabé si sviluppa ad opera di illustri esponenti come Gaston Kaboré e Idrissa Ouédraogo.
Wênd Kuuni di Kaboré e i corti di Moustapha Dao si ispirano ai racconti popolari, ma è il genere della commedia grottesca che rende moltissimo in questi autori, che raccontano l'abbandono delle campagne del 1987 per la regia di Emmanuel Sanon, co-produzione Burkina Faso-Cuba.
     Negli anni '90, l’espansione delle cinematografie nazionali dell’Africa ha subìto una serie di colpi di arresto nello sviluppo di alcune industrie cinematografiche nazionali e nella chiusura definitiva di altre, a causa dei cambiamenti nelle politiche implementate dal Fondo monetario internazionale e dalla Banca Mondiale nei Paesi in via di sviluppo nei Pas (Programmi di aggiustamento strutturale).
Naturalmente, il settore privato è stato depauperato dei fondi dello Stato, ma ad oltre 20 anni dall’accaduto, dobbiamo ammettere che l'assenza della politica nazionale non ha favorito lo sviluppo di un ambiente propizio all’esercizio dell’attività cinematografica.
La situazione in cui si trova il cinema africano è soprattutto segnato da una produzione estremamente povera, dalle sovvenzioni sempre più rare, da una ridotta offerta nella formazione, dall’inesistenza o la chiusura delle sale cinematografiche, dalla debole presenza di produzioni africane sul mercato ed, infine, dalla pirateria.
     L’obiettivo è, dunque, quello di impegnarsi per far uscire il cinema africano da questa situazione, attivando le risorse pubbliche tramite leggi, finanziamenti, governance, politiche nazionali, accordi, convenzioni, misure ed incentivi ai privati.
     Quali strategie sarebbe necessario adottare per spingere le istituzioni e le amministrazioni pubbliche al fine di sviluppare l'evoluzione del cinema africano?
Questa è la riflessione che fa la Fespaco, fedele ai suoi impegni, sul tema “Cinema africano e politiche pubbliche in Africa”. La riflessione si deve fare attraverso un colloquio internazionale che raggruppa i professionisti, ma anche le ong delle istituzioni internazionali, oltre che gli altri attori della vita politica e della società civile africana. La penultima edizione del Festival si è tenuta il 3 marzo 2007.
Il XXesimo compleanno del FESPACO ha ospitato dibattiti, un workshop per i giovanissimi cineasti africani, due speciali retrospettive sul cinema del Mali e su quello marocchino, un convegno sul tema "Cinema africano e diversità culturale", e tre atelier di approfondimento dedicati rispettivamente ad archivi cinematografici, diritti d'autore e cinema digitale. In totale sono stati selezionati 207 film, di cui 20 ufficialmente in concorso. Il vincitore dell'edizione è stato il film Ezra di Newton Aduaka, storia di un ex bambino-soldato in Sierra Leone, che cerca di sopravvivere alla fine della dolorosa guerra civile. Lo "Stallone d'argento" (il secondo premio) è andato a Les Saignantes del camerunese Jean-Pierre Bekolo, e lo "Stallone di bronzo" a Daratt di Mahamat-Saleh Haroun, che ha vinto anche il cospicuo premio stanziato dell'Unione europea. L'edizione del 2009, XXIesima edizione del Festival, si è tenuta dal 28 febbraio al 7 marzo, col titolo “Cinema africano: turismo e patrimoni culturali”. Sono stati presentati 128 fra lungometraggi, cortometraggi, documentari, fiction e serie televisive.
    La XXIesima edizione ha enfatizzato più delle precedenti la produzione televisiva del continente africano. Fra i titoli più apprezzati dalla critica si segnalano Mah saah-sah del regista camerunese Daniel Kanwa, Fantafanga dei maliani Adama Drabo e Ladji Diakitè, Behind the Rainbow dell'egiziana Jihan El-Tahri e La Traversèe della tunisina Nadia Touijer.
Ad essere premiato come miglior lungometraggio del Festival è stato il film Teza del regista etiope Hailé Gerima, già vincitore del Gran Premio della Giuria al precedente Festival di Venezia. Secondo classificato è stato Nothing but the Truth del sudafricano John Kani, e terzo Mascarades, dell'algerino Lyes Salem. Come miglior cortometraggio è stato selezionato Sektou di Benaissa Khaled (Algeria); secondo e terzo posto sono andati rispettivamente a C'est dimanche! di Samir Guesmi (Algeria) e Waramutseho dei camerunesi Kouemo Yanghu e Bernard Auguste.
    Il premio per il miglior documentario è andato a Nos lieux interdits, della regista marocchina Kilani Leila.L'edizione del 2011, XXIIesima edizione del Festival, si è tenuta dal 26 febbraio al 5 marzo con il titolo: Cinéma africain et marchés.
Nell’era della globalizzazione l’Africa, attraverso la tradizione orale, il griot, la danza, la musica ed i suoi ritmi, la sua arte in genere, oltre ai suoi meravigliosi paesaggi, flora e fauna così differenti dai nostri, deve divenire protagonista di se stessa nelle sue differenti sfaccettature, promuovendo, pertanto, i suoi film in Europa e nel resto dei continenti. Restiamo in attesa che ciò avvenga il più presto possibile.
Emanuela Scarponi

20-05-2021
                                                                                                                                                         Great Zimbabwe

       The name of Great Zimbabwe appeared for the first time in some Portuguese documents only in 1522, but the first settlements in this wonderful place began already around the year 1000.
Two hundred years later, Swahili merchants made their way here from the coast of Mozambique to exchange Chinese porcelain, Persian crockery, Indian jewellery and gold and ivory objects, of which the city was very rich. During this period the inhabitants of Great Zimbabwe, in contact with other cultures, assimilated new habits.
      Around 1500 a sort of ecological collapse caused Dan Shona to abandon the city: the forest disappeared, the water tables and the land depleted, the gold mines ended; the population and quantity of cattle, considered more precious than gold and a symbol of power and high social status, dramatically grew. From that moment the city was used as a residence and refuge until 1800.
      In 1871, Cari Mauch, the first westerner who came to these places, developed a fascinating theory that would shortly become a legend. Having found fragments of wood in some beams which he believed to be cedar of Lebanon, Mauch gave substance to the thesis that the city must have been an outpost of the reign of the Queen of Sheba, extraordinarily rich in precious mines, from which King Solomon extracted the its gold.
      Fifty years of studies and research had to pass on the territory, to understand the true origins of the city. In fact, between 1911 and 1914, the archaeologist Curator Wallace began the excavation campaign and the restoration of the archaeological site. But it was not until 1932 that Gertrude Caton Thompson, after having carefully studied the ruins for three years, scientifically demonstrated that the city had been founded by Bantu populations and the subsequent dating of the finds found by radiocarbon confirmed the deductions of the English archaeologist.  Thus, the fanciful theses supported by the Rhodesian government until independence were confirmed, according to which the origins of Great Zimbabwe were not African but Phoenician, Greek, Egyptian, Arab and Jewish, and its foundation dates back to the pre-Christian era.
     What about the alleged Lebanese cedar? Two decades later, in 1950, the wood found inside the archaeological area was classified as tamboti wood, a local tree, and not as Lebanese cedar, differently from it was supposed. Thus the hypotheses on the Mediterranean and European origin of the city definitively was definitively abandoned. The restoration continued and was completed in 1982. Four years later, UNESCO included Great Zimbabwe on the World Heritage list.

Emanuela Scarponi

 

(Il nome Great Zimbabwe comparve per la prima volta in alcuni documenti portoghesi solo nel 1522, ma i primi insediamenti in questo luogo meraviglioso ebbero inizio già intorno all'anno 1000. Duecento anni dopo, i mercanti swahili si spinsero fin qui dalla costa del Mozambico per scambiare porcellane cinesi, terrecotte persiane, gioielli e tessuti indiani con oro e avorio, di cui la città era molto ricca e fu in questo periodo che gli abitanti di Great Zimbabwe, a contatto con culture di altri popoli, assimilarono nuovi usi e abitudini.
Intorno al 1500 una sorta di collasso ecologico provocò l'abbandono della città da parte dei Dan shona: le foreste erano scomparse, le falde d'acqua e i terreni si erano impoveriti, le miniere d'oro erano state esaurite; la popolazione e la quantità di bovini, considerati più preziosi dell'oro e simbolo di potere e di elevato status sociale, era cresciuta a dismisura. La città da quel momento venne usata come dimora e rifugio fino al 1800. Nel 1871, Cari Mauch, il primo occidentale che giunse in questi luoghi, elaborò un'affascinante teoria che di lì a poco sarebbe divenuta leggenda. Avendo rinvenuto in alcune travi dei frammenti di legno che ritenne essere cedro del Libano, Mauch diede corpo alla tesi secondo cui la città doveva essere stata un avamposto del regno della regina di Saba, straordinariamente ricco di miniere preziose, dalle quali il re Salomone estraeva il suo oro. Dovettero trascorrere cinquant'anni di studi e ricerche sul territorio, per capire quali fossero le vere origini della città. Tra il 1911 ed il 1914, infatti, l'archeologo Curator Wallace iniziò la campagna di scavi ed il restauro del sito archeologico. Ma fu solo nel 1932 che Gertrude Caton Thompson, dopo aver studiato accuratamente le rovine per tre anni, dimostrò scientificamente che la città era stata fondata da popolazioni bantu ed anche la successiva datazione con il radiocarbonio dei reperti rinvenuti confermò le deduzioni dell'archeologa inglese. Furono così confutate le tesi fantasiose sostenute dal governo rodesiano fino all'indipendenza, secondo cui Great Zimbabwe avrebbe avuto origini non africane bensì fenicie, greche, egizie, arabe ed ebraiche, e la sua fondazione sarebbe risalita all'era precristiana. E il presunto cedro del Libano? Due decenni più tardi, nel 1950, il legno rinvenuto all'interno dell'area archeologica venne classificato come legno di tamboti, un albero locale, e non come cedro del Libano, contrariamente a quanto fino a quel momento si era supposto. Caddero così definitivamente le ipotesi sull'origine mediterranea ed europea della città. Il restauro proseguì e nel 1982 fu completato. Quattro anni più tardi, l'Unesco inserì il Great Zimbabwe nell'elenco dell’ World Heritage.).

 

 

 

 


24-05-2021

 

                                                                                                                                 Panafricanismo e Rinascimento Africano

    Come da vecchia tradizione panafricanista, la Giornata dell'Africa, celebrata in tutto il mondo dagli Africani e dalla popolazione di origine africana che vive nella diaspora evidenzia la storia e il patrimonio comuni, la sua unità e diversità, nonché le sue enormi potenzialità e il destino comune.
     La celebrazione della Giornata dell'Africa è davvero speciale, in quanto segna una pietra miliare nella storia della Organizzazione continentale.
Il 25 maggio 1963, i Padri Fondatori africani, ispirati dagli ideali di Panafricanismo, firmarono la Carta che istituisce l'Organizzazione per l'Unità Africana per promuovere la comprensione reciproca tra i popoli dell'Africa e promuovere una maggiore cooperazione tra gli Stati africani in un'unità più grande che trascende le differenze etniche e nazionali.
In occasione dell'anniversario dell'OUA/UA, si traggono gli insegnamenti dei risultati e delle sfide per tracciare la strada da seguire. Inutile dire che ci sono sicuramente alti e bassi lungo il percorso. Per quanto vi sia l'orgoglio e la soddisfazione dei successi negli anni, si sente l'insoddisfazione dalle insidie che contribuiscono allo stato attuale delle cose in Africa.
      È in considerazione di questo fatto che è stato scelto il tema "Panafricanismo e Rinascimento africano" per dare l'opportunità di guardare al passato, al presente ed al futuro dell'Africa.
     Quando nel 1963 è stata fondata l'OUA, c'era davvero molta euforia e molto ottimismo per il ringiovanimento dell'Africa. Quelli erano i giorni esaltanti in cui trentadue Stati africani avevano appena iniziato a godersi la loro libertà e indipendenza, guadagnata con fatica e ad aspirare ad un futuro migliore.
      La Carta dell'OUA è stata l'espressione delle aspirazioni collettive per promuovere l'unità e la solidarietà tra i popoli africani, nonché per coordinare e intensificare la loro cooperazione ed ottenere una vita migliore.
Negli ultimi dieci anni è incoraggiante notare che molte economie africane abbiano preso una traiettoria di crescita elevata. I conflitti che devastano il continente africano sono stati lentamente placati, se non completamente debellati.
Inoltre, stiamo assistendo ad una migliore governance con l'introduzione di una distribuzione democratica in molti Paesi africani.
Man mano che andiamo avanti, bisogna riconvertire gli sforzi per assicurare una pace ed una stabilità durature, accelerare la crescita economica ed approfondire le riforme della governance, con l'obiettivo di definire una solida base per la trasformazione socio-economica dell'Africa.
      Con una leadership lungimirante, impegnata a portare avanti il cambiamento, uno stato di sviluppo in grado di giocare un ruolo attivo e dinamico e la mobilitazione di tutte le sezioni del popolo africano, non vi è alcun dubbio che l'Africa sarà in grado di realizzare pienamente l'agenda continentale già nei prossimi decenni.
      È fervida speranza della OUA che quando l'Africa celebrerà nuovamente il suo centenario nel 2063, il continente africano sarà libero dal flagello dei conflitti e dalla povertà, e molti Paesi africani avranno raggiunto uno status di reddito medio-alto e lo standard di vita di grandi popolazioni africane sarà notevolmente migliorato. Come le generazioni precedenti sono state ispirate dagli ideali di Panafricanismo a combattere per la libertà e la dignità, le generazioni attuali e future dovrebbero quindi essere guidate dallo stesso spirito panafricano di lotta per 1'emancipazione socio-economica dell'Africa e realizzare il Rinascimento africano.
Emanuela Scarponi

04-05-2021

 

                                                                                                                                                                     La civiltà Kmer

      Documenti e testimonianze del regime dispotico dei Kmer sono giunti a noi tramite i pochissimi sopravvissuti. Ne è un documento storico il film Urla del silenzio (The Killing Fields) del 1984 diretto da Roland Joffé, pellicola britannica ispirata alla vicenda della guerra civile in Cambogia e alla susseguente presa del potere da parte degli Kmer rossi e il loro leader PolPot che racconta l’incredibile esperienza di un giornalista cambogiano riuscito a raggiungere la Thailandia, attraversando la Cambogia di fiume in fiume, nascosto dal verde intenso della foresta. Oggi il carcere di Phnom Pen è un museo a cielo aperto, nel centro città.
“Le strade sono dissestate e non è consigliabile andare via terra” ci dice la guida. Si sale su un aereo cambogiano da PhnomPen ad Angkor Wat, sorvolando la foresta pluviale sottostante, interrotta solo dal corso del fiume Mekong e da tratti di strada sterrata, bianca, polverosa che di tanto in tanto fa capolino.
      E' una emozione unica giungere, dopo il volo aereo, alle rovine della città-Stato di Angkorwat, costruita dagli antichi Kmer, tra i pochi siti archeologici risparmiati da Polpot, che rase al suolo tutto quanto potesse lontanamente ricordare o far riaffiorare l’idea di Occidente e che impedisse la sperimentazione della nascita del nuovo regime di stampo comunista di tipo cambogiano, di cui era l’ideologo.
Oggi da Phnom Penh è possibile raggiungere via fiume Siem Reap, la città che custodisce il sito archeologico più particolare al mondo, Angkor Wat. Il tragitto dura circa 8 ore e le barche partono presso il porto cittadino.
La mia vuole essere una breve disquisizione sulla civiltà degli antichi Kmer, di cui si sa pochissimo per mancanza di fonti.
Siamo nella pianura alluvionale a Nord del lago Tonlé Sap, ove giace l'eredità più grande che ci ha lasciato questa antica civiltà: Angkor, nell'odierna provincia di Siem Reap appunto.
     Il sito archeologico, uno dei più vasti ed importanti dell'Asia, ospitò diverse capitali del regno e testimonia lo splendore e la ricchezza dell'impero Kmer.
Le uniche tracce scritte a noi pervenute sono, infatti, iscrizioni su pietra. L'odierna conoscenza storica della civiltà Kmer deriva quindi principalmente da scavi archeologici, ricostruzioni ed indagini; iscrizioni su stele e su pietra nei templi, gli unici edifici sopravvissuti, in quanto costruiti in pietra.
    L'inizio dell'era angkoriana della storia Kmer è fissata nell'anno 802, quando Jayavarman II viene proclamato monarca universale e la sua fine nel 1431, data di un'invasione Thai, che fece il centro politico ed economico verso Sud-Est, lungo il Mekong.
    Gli unici resoconti scritti sono le cronache di Zhou Daguan, diplomatico cinese sotto l'imperatore Chengzong della dinastia Yuan, che visitò nel 1296 la città-Stato di Angkor, fornendo informazioni sulla Cambogia del XIIIesimo secolo e prima.
Le descrizioni di Zhou Daguan riguardano anche la vita delle donne del mercato di Angkor. Esso era all’aperto ed i mercanti sedevano per terra su stuoie di paglia intrecciate e vendevano le loro merci. Alcuni commercianti si proteggevano dal sole con semplici parasole, ricoperti di paglia. Un certo tipo di tassa o affitto veniva prelevato dai funzionari per ogni spazio occupato dai commercianti nel mercato. Il commercio e l'economia nel mercato di Angkor erano principalmente gestiti da donne.
    Quindi, quando un cinese va in questo Paese, la prima cosa che deve fare è prendere una donna, con l'intento di trarre profitto dalle sue capacità commerciali. Le donne invecchiano molto velocemente, senza dubbio perché si sposano e partoriscono quando sono troppo giovani. Quando hanno venti o trenta anni, sembrano donne cinesi che hanno quaranta o cinquanta anni. Il loro ruolo nel commercio e nell'economia suggerisce che godevano di diritti e libertà significativi, grazie alle loro capacità.
    La loro pratica di sposarsi presto potrebbe aver contribuito all'alto tasso di fertilità e all'enorme popolazione del regno, narra Zhou Daguan.
Riso, pesce ed acqua sono, dunque, alla base della prosperità dell’impero Kmer, fondato su vaste reti di comunità agricole dedite al riso. Infatti, fuori delle mura vivevano i contadini che piantavano il riso sulle rive dei fossi, tutti attorno alla città-Stato, raggiungibile attraverso imponenti ponti.
   Il re ed i suoi funzionari vivevano all’interno della città-Stato ed erano al comando della gestione dell'irrigazione e della distribuzione dell'acqua, fatta da una un'intricata serie di infrastrutture idrauliche, come canali, fossati ed enormi serbatoi chiamati barays, bacini idrici artificiali.
    Il riso era il principale alimento insieme al pesce, lavorato come pasta di pesce essiccata al vapore o arrostita o al vapore ,avvolta in foglie di banana. Era importante anche l'allevamento dei maiali, dei bovini e del pollame, tenuti sotto le case dei contadini, posizionate su palafitte.
    Palme da zucchero, alberi da frutta e ortaggi fanno da cornice a questo meraviglioso quadro naturale, mentre forniscono lo zucchero di palma, il vino di palma, il cocco, i vari frutti tropicali e le verdure. All’orizzonte si intravede il mercato dove i contadini sono ancora oggi soliti scambiare prodotti e vendere souvenir ad Angkor.
Raggiungiamo le imponenti mura della città, in cima alle quali emergono profili di re Kmer, che testimoniano la grandezza e la maestosità della loro civiltà: in basso si sentono le voci dei bambini che, ignari dei turisti, si divertono a giocare assieme in acqua.


Emanuela Scarponi

 


23-05-2021

                                                             Proteggere i Bambini in Conflitto Armato:
                                                             Mission dell'Universities Network For Childreen in Armed Conflict:
                                                             Intervista all'avvocato Simona Lanzellotto, Rappresentante del Network



Emanuela SCARPONI. Buongiorno, Avvocato Lanzellotto. Siamo qui per parlare dei bambini che vivono in situazioni di conflitto armato e dell'Universities Network for Children in Armed Conflict, di cui lei è autorevole esponente. Ci spieghi dunque meglio in cosa consiste questo progetto.


SIMONA LANZELLOTTO. Anzitutto, colgo l'occasione per ringraziare le Università e gli enti di ricerca, italiani ed internazionali, che hanno portato alla formazione del Network, che nasce con lo scopo diffondere e analizzare il tema della protezione dei bambini nei conflitti armati. Il Network è stato lanciato nel novembre del 2020 durante la conferenza di apertura della settimana accademica dedicata proprio al tema, a cui hanno partecipato tutti i rappresentanti delle Università e Centri di ricerca del Network.


Emanuela SCARPONI. Come conducete il vostro lavoro, specie con Università dei Paesi in war zone, come ad esempio, l'Università di Kufa?

SIMONA LANZELLOTTO. Noi, in quanto Network di Università ed enti di ricerca, abbiamo l’obiettivo di promuovere la formazione sociale e giuridica sulla tematica dei bambini coinvolti in conflitti armati tramite lo studio di casi e mediante un'attività di ricerca multidisciplinare. Il nostro obiettivo, è quello di accrescere la sensibilità e la conoscenza delle conseguenze di tale fenomeno, grazie anche all'organizzazione di conferenze internazionali che vengono tenute proprio dalle Università coinvolte. Le conferenze diventano un'occasione di riflessione e di denuncia degli abusi e delle violenze subite da questi minori durante i conflitti armati.
Ribadisco che lavoriamo per la protezione di minori di ogni Paese in situazioni di conflitto; le Università coinvolte provengono da Europa, Africa, America del Nord, America Latina e Paesi del Medio Oriente. Vi sono anche università italiane.

Emanuela SCARPONI. In Italia dove operate?

SIMONA LANZELLOTTO. Ci sono diverse Università che fanno parte del Network. Siamo presenti come Network nell'Università di Perugia, ma anche a Milano, Roma, Napoli, Genova e in altre città.
Mano a mano che cresce la nostra Rete, le richieste di adesioni di Università proveniente da diverse parti del mondo avanzano. Infatti, più il Network è ampio, più la nostra azione diventa concreta, con il contributo delle nuove realtà.

Emanuela SCARPONI. Avete un ufficio o una sede dove operate?

SIMONA LANZELLOTTO. C'è un gruppo operativo, del quale faccio parte, che tiene i contatti ed i rapporti con le altre Università, le Istituzioni e coordina le varie attività.
Ci stiamo muovendo per creare una sorta di Consorzio di Università Internazionale, in modo da avere una struttura più solida.

Emanuela SCARPONI.Quindi voi, al momento, operate su computer, virtualmente, sulla Rete?

SIMONA LANZELLOTTO. Allo stato attuale, operiamo organizzando conferenze, lezioni, studi e spiegando le normative e le giurisdizioni che riguardano questa tematica.
Per quanto riguarda le conferenze, tutto si svolge online, soprattutto in questo momento particolare che stiamo vivendo.


Emanuela SCARPONI. Le persone che si dedicano a quest'attività specifica come lei, quante sono?

SIMONA LANZELLOTTO. Ci sono delle collaborazioni che però sono difficili da quantificare. Dipende molto dal lavoro. C'è chi si occupa dell'aspetto legale, chi dell'organizzazione delle conferenze e i seminari di studio, chi dei social. Cerchiamo di suddividerci il lavoro.

Emanuela SCARPONI. In questo progetto vi patrocina il Ministero degli Affari Esteri e della Cooperazione Internazionale in Italia?

SIMONA LANZELLOTTO. Sì, è fondamentale il supporto del Ministero, soprattutto per quanto riguarda i rapporti diplomatici con i vari Paesi.

Emanuela SCARPONI. Non vorrei entrare in tematiche piuttosto delicate in questo periodo, ma operate anche nel Congo?

SIMONA LANZELLOTTO. Sì, certo, operiamo anche nel Congo e siamo anche abbastanza attivi.

Emanuela SCARPONI. Malgrado gli attentati?

SIMONA LANZELLOTTO. Quella della morte dell'Ambasciatore Attanasio, è stata purtroppo una notizia terribile, però evidenzia anche un estremo bisogno della nostra attività per il Congo, dove sussistono varie forme di violenza anche nei confronti dei bambini.

Emanuela SCARPONI. Quando è nata l'idea di fondare il Network?

SIMONA LANZELLOTTO. È nata nel 2020, poi è stata presentata in Italia e in Europa e da lì si è tentato a novembre del 2020 di lanciare il Network attraverso le prime teleconferenze. Sono state promosse anche altre attività - come dicevo prima – una settimana accademica, seminari e studi per sensibilizzare su questo dramma. Da novembre ad oggi abbiamo organizzato e partecipato ad almeno sei teleconferenze. Anche i social sono fondamentali per promuovere il Network.
Adesso dovremmo, entro ottobre prossimo, organizzare un’altra settimana accademica e delle attività di formazione che prevedono videolezioni, studi e approfondimenti a cura dei docenti delle Università del Network e con il coinvolgimento di diverse organizzazioni internazionali. Le attività sono tante, stiamo procedendo molto velocemente e di questo siamo molto felici; speriamo di poter riuscire a continuare così.

Emanuela SCARPONI. In cosa consisteranno queste lezioni online. Sono corsi di formazione di carattere sociale?

SIMONA LANZELLOTTO. Si tratterà di lezioni che approfondiscono l'aspetto giuridico e normativo relativo al tema dei bambini coinvolti in conflitti armati.

Emanuela SCARPONI. Quanto durerà questa attività formativa?

SIMONA LANZELLOTTO. Due settimane.

Emanuela SCARPONI. Come vi trovate a interagire con i Paesi musulmani?

SIMONA LANZELLOTTO. Non è assolutamente un problema. Al Network può aderire qualunque Università che abbia a cuore il tema della tutela dei bambini nei conflitti armati.

Emanuela SCARPONI. Vediamo il caso della vicenda recentissima che è avvenuta in Turchia. A livello diplomatico per i rappresentati europei è stato un po' difficile interagire, soprattutto in questo momento storico, con certe realtà.

SIMONA LANZELLOTTO. Certamente! Ci sono realtà locali in cui è necessaria la presenza di un soggetto che faccia da tramite con il Governo locale per confrontarsi e affrontare in modo pragmatico queste tematiche.

Emanuela SCARPONI. L'iniziativa è tutta italiana?

SIMONA LANZELLOTTO. No, nel senso che - come dicevo - sono coinvolte Università di diversi Paesi.

Emanuela SCARPONI. Sì, ma l'iniziativa personale è sua? È lei che ha ideato questo Network?

SIMONA LANZELLOTTO. No, l'idea è nata dalla collega Laura Guercio che poi ha coinvolto me ed altre persone. Poi, pian piano si è allargata, interagendo con nostri contatti e professori in varie parti del mondo ai quali abbiamo proposto l’idea di creare un Network e nel giro di pochi mesi ci siamo ritrovati di fronte a una realtà che fino a luglio dello scorso anno non esisteva.

Emanuela SCARPONI. Il vostro obiettivo dunque è smuovere l'opinione pubblica, garantire la tutela dei bambini in conflitto. Proteggerli! Creare una rete di protezione scientifica e giuridica.

SIMONA LANZELLOTTO. Sì, sicuramente! L'obiettivo è anche quello di accrescere le conoscenze.
La questione fondamentale è quella di creare rapporti tra le nazioni, anche con i mezzi di comunicazione, con l'interazione delle ONG e delle Istituzioni internazionali, parlavamo prima delle Nazione Unite, sicuramente fondamentali, come anche i rapporti tra le Nazioni e la società civile.
Alle nostre conferenze partecipano sempre rappresentanti di ONG e delle Nazioni Unite, oltre che i rappresentanti delle Università di altri Paesi.

Emanuela SCARPONI. Lei sa che Africanpeople è una ONG, siamo un'organizzazione non governativa, e la prima cosa che ha fatto è quella di creare un'agenzia di stampa per l'Africa e un mass media che potesse fare da traino all'Africa. Quindi, siamo ben contenti di fare questo tipo d'interviste e vi garantiamo dello spazio su questo.

SIMONA LANZELLOTTO. Questo è fondamentale per noi, per quello che facciamo con la gente. Più persone conoscono le nostre attività e i nostri obiettivi e più diventa una forza. Lavorando voi in Africa sicuramente manterremo i contatti.

Emanuela SCARPONI. Intanto la ringrazio per questa intervista e spero di risentirla presto. A presto e grazie ancora.

Emanuela Scarponi

 

27-04-2021

                                                                                              Nucleo centrale delle tematiche di fondo di Wole Soyinka basato sull'intervista rilasciata ad Emanuela Scarponi

     Come si è potuto rilevare dall'analisi di The Road, le tematiche di cui Soyinka s'è fatto portatore sono molteplici, ma possono essere ricondotte ad un fondamentale conflitto tra due protagonisti: l'uomo ed il destino.
I protagonisti delle sue opere teatrali possono presentarsi sotto vari aspetti nelle diverse occasioni; ma, sotto qualsiasi forma si presentino, l'uomo non potrà sfuggire alla morte, che il destino gli riserva. La sola certezza che l'uomo ha è quella di diventare un nulla; egli è come un condannato che aspetta la sentenza capitale e vive nell'attesa della morte. Questa consapevolezza prende forma, come già abbiamo visto, nella simbologia della strada, elemento centrale dell'opera di Soyinka. Qui si riportano le parole dello stesso Wole Soyinka in tema di cannibalismo, estrapolate dall'opera Madmen and specialist: L'uomo è un viaggiatore senza meta, lungo la strada che conduce ad un'unica destinazione: la morte. Infatti, torna spesso nelle sue opere il concetto della strada affamata di vite umane, della strada che esige il suo tributo di sangue umano e dalla quale bisogna difendersi, evitando di percorrerla in determinati momenti. Tuttavia, l'uomo è un pellegrino che deve viaggiare, quindi tali esortazioni sono futili: la strada è dunque il simbolo di un mostro che divora gli uomini senza possibilità di scampo.
Il progresso, quindi, non ha aiutato l'uomo a vincere il destino, ma lo ha esposto a forme ancora più terribili di morte. Il trionfo della morte è certo, ma tale consapevolezza è ancora più triste nei casi in cui si vede che l'uomo si allea con la morte stessa e va contro i suoi simili.
      Questo avviene in particolare nelle guerre, dove, oltretutto, i soldati muoiono spesso senza neppure sapere per quale motivo sacrificano la loro vita.
Nelle opere di Soyinka c'è la presenza continua della morte come elemento costante e comune denominatore dell'esperienza umana. Essa si presenta sotto vari aspetti, ma il più evidente e caratterizzante è quello che si ricollega alla figura di "Abiku", personaggio derivante dalla religione e dai miti della gente yoruba. Secondo Idowu, Abiku è un fenomeno generato dagli spiriti maligni chiamati Elere o Onere." Gli Yoruba credono che essi siano spiriti di bambini errabondi, che si divertono ad inserirsi nelle donne incinte e a nascere solo per morire, per il sottile piacere del male. Abiku è quindi l'incarnazione della mortalità del genere umano che può vincere qualsiasi altra lotta, ma non la morte.
       E' vero che tutti gli esseri viventi sono condannati a morire; ma nessuna creatura come l'uomo, sperimenta una cosi drammatica angoscia nei confronti della morte, perché egli è il solo essere consapevole della sua perduta "battaglia contro il destino,del suo inesorabile viaggio. L'unica consolazione per il genere umano è che la morte è imparziale. Tuttavia essa, secondo Soyinka, oltre ad essere inevitabile, può assumere un valore particolarmente importante per coloro che rimangono. Ci sono infatti degli uomini eletti che sono spinti da un impulso interiore a trasmettere la propria energia agli altri, o mediante gesti particolari o con la loro stessa morte, sacrificando, comunque, la propria vita (tema del sacrificio -The Strong Breed). In tal caso la morte assume un significato e serve come momento di riflessione per una crescita interiore. Nelle opere di Soyinka, questi eroici personaggi cercano di andare contro il destino. Essi appartengono naturalmente alla famiglia della razza forte, il cui "Blood is strong like no other" debbono sopportare la croce della comunità ed espiarne i peccati. Essi fanno parte di un'aristocrazia spirituale e diventano i capri espiatori dei gruppi a cui appartengono: "The Whole forest stinks of human obscenities ", dice il protagonista Eschoro in A Dance of the forests.
        Lo spirito eletto a causa della sua più acuta sensibilità, sente più drammaticamente la situazione di tutti gli uomini, l'angoscia di essere moralmente deboli. Egli agonizza a causa della sua consapevolezza dolorosa che gli fa prendere coscienza di essere un'immagine distorta dell'uomo perfetto. Egli sa che, malgrado la sua buona volontà, ed il suo onesto sforzo, il tentativo di ridurre la discrepanza tra ciò che egli è e ciò che dovrebbe essere è futile.
E' solo un raggio di luce che rischiara le tenebre in cui l'uomo si dibatte; ma esso è sufficiente per dargli la consapevolezza della sua nullità di fronte al destino. Intorno a tali uomini "forti", ne esistono tanti altri che, invece, si disperdono attirati da falsi valori, quali: sesso, alcool, corruzione, superficialità, vigliaccheria. L'eroe deve lottare contro tali pericoli con i mezzi che la sua natura individuale gli mette a disposizione.
Nasce così il concetto dell'artista che, per mezzo delle sue realizzazioni, invia messaggi ed indica al genere umano le strade da percorrere, al fine di combattere contro tutto ciò che frustra i tentativi dell'uomo tesi alla conquista della felicità. L'artista nella concezione yoruba, proprio per l'importante ruolo che svolge, è stato sempre protetto dal dio Ogun.
       Infatti, con le sue opere, rinnova continuamente il primo atto di volontà del dio stesso; questi, secondo il mito, attraversò l'abisso tra gli dei e gli uomini,con la precisa volontà di riunire il cosmo in un unico insieme. In ogni tempo, l'artista prende quindi a modello Ogun per le scelte che compie e per gli impegni sentiti come urgenti, soprattutto nei periodi di crisi.
        L'uomo,tuttavia, non può sperare nell'aiuto degli esseri superiori; gli dei sono indifferenti di fronte al suo destino, anzi, sono addirittura ostili. E' inutile pregarli, offrire loro sacrifici; essi non cambiano il corso degli eventi:
"The floods can come again. Will continue to laugh at our endeavours know that we can feed the serpent of the swamp and corrupt the tassels of the corn". (Le inondazioni possono venire di nuovo. Continueremo a ridere dei nostri sforzi, sappiamo che possiamo nutrire il serpente della palude e corrompere le nappe del grano). L'ostilità degli dei verso gli uomini arriva a manifestarsi anche direttamente con atti violenti. Infatti il dio Ogun, signore della guerra, protettore dei deboli e distruttore dei forti, con il ferro che ha strappato ai fianchi della montagna per aprirsi un varco negli abissi ed unirsi agli Uomini nell'anelito della perfezione, ebbro per il vino di palma, si rivolge in modo spietato ai suoi uomini e li annienta. In tal modo Soyinka esprime il dramma rituale,contemporaneamente umano e divino, che in Ogun trova la sua sintesi.
       Nel poema Idanre, Ogun viene addirittura chiamato con il termine di "cannibal" ; il dio viene quindi antropomorfizzato a tal punto, da essere associato alle colpe degli uomini, esempio preso anche da A Dance of the Forest.
Il cannibalismo di Ogun è da intendersi nel suo significato più ampio, di sopraffazione morale e materiale, ma nello stesso tempo rappresenta il desiderio Freudiano di compartecipare della natura della persona uccisa. Il concetto del cannibalismo è strettamente legato alla natura distruttrice dell'uomo, come l'autore stesso afferma in un'intervista: "I find that the main thing is my own personal conviction or observation that world so that their main preoccupation seems to be eating up one another".(Trovo che la cosa principale sia la mia convinzione personale o osservazione di quel mondo in modo che la loro preoccupazione principale sembri mangiarsi l'un l'altro).
       A tale convincimento è strettamente associato all'idea del sacrificio della vittima, di cui abbiamo parlato precedentemente.
La dicotomia cannibale/vittima si trova in continuazione nell'opera di Soyinka, ed è scaturita da una situazione culturale, di cui il mito di Ogun, con la sua ambivalenza creazione/distruzione, è diretto ispiratore.
Come nel mito di Ogun spesso coesistono le due componenti così i due aspetti della natura umana sono strettamente collegati ed interagenti. Accanto alle vittime destinate al sacrificio, volontario o meno, troviamo i responsabili di tali sofferenze: costoro a volte vengono classificati come cannibali, a volte sono da considerarsi dei falsi profeti. In tali falsi profeti si configurano, non meno che nel cannibale, la corruzione e l'istinto di sfruttamento insito nell'uomo soyinkiano. Il cannibalismo diviene emblematico anche dì un processo dì disfacimento della sensibilità umana, a cui l'uomo va incontro in particolari situazioni; infatti la sopraffazione e la violenza possono creare delle aberrazioni negli animi umani:"The Man dies in "all who keep silent in the face of tyranny". In an anima cage, in the spiritual isolation of the first few days, the prospect became real and horrifying, It began as an exercise to arm myself against the worst, it plunged into horrors of the immagination". "The monstrous, aggressive, yet mournful stridencies of gates falling to, and bolts themselves imprisoned in air-tight holes"."Bach prison has its quota of lunatius; before long the cry of one from a distant block began to pour out the dark secrets of his soul" A Clank's of his restraining chains accompanied it ". (The Man Died). (L'Uomo muore in "tutti coloro che tacciono di fronte alla tirannia". In una gabbia dell‘anima, nell'isolamento spirituale dei primi giorni, la prospettiva si fece reale e terrificante, iniziò come un esercizio per armarmi contro il peggio, sprofondò negli orrori dell'immaginazione". "Il mostruoso, aggressivo, eppure stridio lugubre di cancelli che cadono, e chiavistelli imprigionati in buchi a tenuta d'aria”. “La prigione ha la sua quota di pazzi; in poco tempo il grido di uno da un isolato distante cominciò a versare i segreti oscuri della sua anima" Un clank delle sue catene lo accompagnò).
     Leggendo queste frasi si intuisce l'allusione ad un conflitto di proporzioni grandiose, e tale da alterare la natura stessa dell'uomo, non solo fisica, ma anche morale. E' un conflitto che supera il mondo africano, per assumere i caratteri di dramma universale; Soyinka, quindi, tramite il processo d'individuazione di recupero e di estrinsecazione del ricco patrimonio connesso alla civiltà yoruba, si colloca a pieno titolo nell'ambito del teatro universale.
"L'Uomo muore in tutti coloro che rimangono silenziosi dì fronte alla tirannia". In una gabbia nell'isolamento spirituale dei primi giorni, la prospettiva e la speranza divennero reali ed orribili. Divenne come un esercizio per armarmi contro il peggio, s'immerse negli orrori dell'immaginazione...". “Il mostruoso, aggressivo, eppure triste stridio dei cancelli che cadono e spranga coloro che sono imprigionati in buchi impenetrabili dall'aria”. “Ogni prigione ha la sua quota di pazzi; dopo breve tempo, il pianto di uno di un blocco lontano, iniziò a versare gli oscuri segreti della sua anima. Un rumore delle sue catene lo accompagnava”.
Emanuela Scarponi