Critica nei confronti della "Negritudine"

Soyinka, proseguendo in quel periodo la sua critica sul ruolo dell'artista nell'Africa moderna, si pone in contrasto anche con tutto quel movimento culturale che aveva avuto origine nel quartiere latino di Parigi all'epoca delle lotte indipendentiste in Africa e il cui fondatore, Senghor, diventerà presidente della repubblica del Senegal, Soyinka condanna infatti tale corrente ideologica-letteraria, detta della "Negritudine", che proprio nella acritica glorificazione di un passato, identificato con l'immagine "coloniale" del "bon sauvage", ritrovava l'essenza negra.

Questa dottrina, elaborata come pensiero filosofico da Senghor e dal martinicano Aime Cesaire negli anni '40 alla Sorbona, mal si adatta al pensiero più moderno e populista di Soyinka mentre tale dottrina si confronta infatti con le tecniche e, più in generale, con la mentalità globale del mondo occidentale, la dottrina soyinkiana rifiuta il paragone, attestandosi su posizioni completamente nuove ed ancorate profondamente nella filosofia africana» Mentre la "Negrìtudine" si preoccupa di rispondere alle accuse della cultura europea, trovandosi a"combattere" in campo avversario, Soyinka non accetta alcuna discussione di stampo tipicamente occidentale, riportando la disputa in terra africana. A proposito di tale posizione, è fondamentale la frase chiarificatrice dello stesso Soyinka:

"A tiger does not shout its tigritude, it acts it", da "The Writer in an African State", in Transition 

Mentre quindi la Negritudine cercava una definizione collettiva dell'identità dell'uomo nero, Soyinka ribadisce l'importanza delle culture locali (in primis la cultura yoruba), considerate non dal punto di vista esclusivamente emozionale ed anti-intellettuale, ma ben coscienti della propria dignità e della propria tradizione, cioè intellettualmente capaci. Soyinka rifiuta quindi l'immagine di Senghor che,desideroso"di affermare la sua africanità in terra europea, finisce invece per "sbiancarsi" gradualmente. Il concetto base di tale rifiuto, tipicamente radicale e rivoluzionario, permette a Soyinka di concepire l'Africa come un continente completamente autonomo, dove la colonizzazione appare solo come un momento storicamente determinato che è necessario superare. Anche per questo, quindi, egli si scontra con la "Negritudine" che, implicitamente, vede invece l'indipendenza nazionale come il giusto riconoscimento per l'apprendimento di schemi e di modi di vita tipicamente occidentali.  

In altre parole ed in un contesto socio-politico più ampio si produce, tra Soyinka e Senghor, uno scontro che deriva dal diverso modo di affrontare il problema coloniale delle due "superpotenze" dominanti nel mondo africano, la Francia e l'Inghilterra. Mentre l'una,infatti,col suo enorme bagaglio storico, filosofico e religioso, cerca di conquistare profondamente il mondo africano, inculcando le proprie idee fino a radicarle completamente nelle nazioni domi_ nate, l'altra non si propone,consapevole della propria superiorità, lo stesso risultato finale, permettendo così il mantenimento di quella carica nazionale e di quella capacità intellettuale insite in ogni popolo africano. Proseguendo ancora sul tema della "Negritudine", è opportuno ricordare un'affermazione particolarmente significativa di Soyinka:

"la Negritudine, successivamente, è diventata un tema fine a se stesso, ed i seguaci vi si sono adagia-ti senza dare spazio alla vera creatività artistica. Bisogna quindi lasciare tale retroterra, per dare una ritrovata immagine letteraria africana  (1), Tuttavia, quando si parla di immagine letteraria afri-cana, bisogna sottolineare che il problema è molto complesso e riguarda lo stesso termine di "letteratura", proveniente dà "lettera",; intesa come segno scrittoC2). Infatti, l'unica tradizione culturale scritta africana è quella dei Suahili e degli Hausa, che si era sviluppata sotto la spinta islamica. Da sempre, l'arte letteraria africana e  caratterizzata da una tradizione orale, e si manifesta quindi in forme diverse nel rispetto

(1), da "From a Common Back Cloth, di Wole Soyinka, in The American Scholar, voi. 32, giugno 1963,pag. 387-396, New York.

(2), da "Le solide radici yoruba di una cultura cosmo-polita" in II Mattino, 17.11.1986, di Toscano, M.

dei suoi modi di produzione e di fruizione, che sono molto più collettivi e diretti se paragonati alle tecniche della letteratura scritta, nota come letteratura d'elite, espressione del potere politico e religioso. E' pertanto l'avventura coloniale che diffonde la scrittura a caratteri latini e che fa sorgere letterature in lingua francese, inglese o locale. In conclusione, data la complessità della situazione culturale africana, e la varietà dei modelli e delle forme adottate, spontanee o imposte che siano, Soyinka ribadisce che gli scrittori africani devono operare contro la Negritudine. In tale ottica Soyinka volge la sua ironia verso i più comuni canoni estetici della critica occidentale, che si accosta alla produzione africana con un atteggiamento che egli definisce "tarzanismo" (1).

(1), da "From a Common Back Cloth, di Wole Soyinka, in The  American Scholar, voi. 32, giugno 1963, pag. 387-396, New York.

Il nostro autore afferma infatti di non credere nella creazione artificiale di un'estetica, perché all'in-terno di ogni cultura è già inserita un'estetica le-gata all'organizzazione di quella stessa cultura e quindi inseparabile da essa.

I critici occidentali sono incapaci di esaminare le culture africane, perché sono portati ad analizzarle secondo schemi e somiglianze con le culture occidentali; in ogni modo, essi non debbono far perdere di vista la specificità africana, I nostri critici sono incapaci di giudicale un'originale opera africana, perché ragionano in base ad analogie. On romanzo, secondo loro, assomiglia a Kafka, a Joyce, o a Proust; in sostanza, essi vedono nella produzione letteraria africana un frutto derivato dal mondo europeo.

   Tale critica giunge a definire "europei" gli scrittori africani, che si esprimono con vocaboli tipicamente occidentali, come aeroplano, bicicletta o treno; e giunge altresì a "consigliare" gli stessi africani di usare un linguaggio più propriamente indigeno, con equivalenti termini "folcloristici" ed "hollywoodiani" come "uccello di ferro", "cavallo d'acciaio" o "serpente fumante" (1). Si dimostra così la tendenza a giudicare un'opera non in "base ai contenuti, ma in "base all'uso dei termini linguistici, che invece sono considerati da Soyinka come semplice "involucro" struttura esterna in cui il contenuto viene forzato" (2).A proposito del contenuto e del suo significato più profondamente filosofico, Soyinka si rifà quella che egli chiama la "memoria muta", che è "più antica della memoria parlata ed ancor più della memoria"scritta" (3). Quest'ultima frase rivela, nello stesso tempo, la grandezza spirituale di Soyinka e della sua cultura.(1), da " Wole Soyinka: romanziere, poeta e drammaturgo nigeriano" di Vivan Itala in II Messaggero, 17.10.1986.

(2) da "Il mago della pioggia", di Vivan Itala,in _I1 Messaggero, 18.10.1986. (3), da "Tante Memorie", di Costantini C, in II Messaggero, 18.10

    In contrapposisione alla superficialità della critica occidentale nei confronti dell'Africa, considerata ancora come "la foresta di Tarzan, di Jein e di Cita, all'ombra del Kilimangiaro!". Per concludere comunque la discussione su questo "basilare argomento, ritengo giusto e doveroso ascoltare le parole, dure ma chiarissime, dello stesso Soyinka: Negritude was a creation by and for a small a small élite.The search for a ratial identity was conducted by and for a minuscle minority of uprooted individuals, not merely in Paris "but in the metropolis of French colonies.At the same time through the real Afric among the real populace of the african world would have revealed that these millions had never at any time had cause to question the existence of their Negritude. La negritudine fu una creazione di una sparuta élite destinata alla stessa élite.La ricerca di un'identità razziale fu condotta da e per una minuscola minoranza di individui sradicati, non solo di Parigi, ma nelle metropoli delle colonie francesi.Allo stesso tempo,fra la vera popolazione del mondo africano si sarebbe rivelato che questi milioni di persone non avevano mai assolutamente avuto motivi di porre in discussione l'esistenza della propria negritudine.

Emanuela Scarponi 

30-07-2021
                                                                                                                           Riforma dell’Onu e futuro del multilateralismo
                                                                                                    in periodo post-covid

         L'Organizzazione delle Nazioni Unite, in sigla ONU, abbreviata in Nazioni Unite, è un'organizzazione intergovernativa a carattere mondiale. Tra i suoi obiettivi principali vi sono il mantenimento della pace e della sicurezza mondiale, lo sviluppo di relazioni amichevoli tra le nazioni, il perseguimento di una cooperazione internazionale e il favorire l'armonizzazione delle varie azioni compiute a questi scopi dai suoi membri. L'ONU è l'organizzazione intergovernativa più grande, più conosciuta, più rappresentata a livello internazionale e più potente al mondo. Ha sede sul territorio internazionale a New York, mentre altri uffici principali si trovano a Ginevra, Nairobi e Vienna.
         Istituita dopo la Seconda Guerra Mondiale con l'obiettivo di prevenire futuri conflitti, ha sostituito l'inefficace Società delle Nazioni.
Il sistema delle Nazioni Unite comprende inoltre una moltitudine di agenzie specializzate, come il Gruppo della Banca mondiale, l'Organizzazione mondiale della sanità, il Programma alimentare mondiale, l'UNESCO e l'UNICEF. Il direttore amministrativo delle Nazioni Unite è il segretario generale, attualmente è il politico e diplomatico portoghese António Guterres, che ha iniziato il suo mandato quinquennale il 1º gennaio 2017. L'organizzazione è finanziata da contributi volontari e valutati dei suoi Stati membri.
In occasione dell’apertura della 75esima Assemblea Generale del 29 Ottobre 2020, il Segretario Generale dell’Onu Antonio Guterres ha dichiarato: “[…] Ci troviamo oggi di fronte a un passaggio fondamentale. Coloro che settantacinque anni fa fondarono le Nazioni Unite erano sopravvissuti a una pandemia, a una depressione globale, a un genocidio e a una guerra mondiale. Conoscevano bene il costo della discordia e il valore dell'unità. Perciò misero a punto una risposta visionaria, incarnata nella nostra Carta costitutiva, che mette al centro le persone. Stiamo vivendo oggi il nostro 1945. […] Il populismo e il nazionalismo hanno fallito. […] In un mondo interconnesso, è tempo di riconoscere un fatto: la solidarietà va nell'interesse di ciascuno di noi. Se non riusciremo a cogliere questa semplice verità, perderemo tutti […]”. E non è un caso se uno dei temi posti all’attenzione dell’Assemblea Generale quest’anno è “La Carta delle Nazioni Unite compie 75 anni: il multilateralismo in un mondo frammentato”.
          Dal 1945 ad oggi la Carta costitutiva delle Nazioni Unite ha subìto poche riforme significative mentre nel mondo si sono verificati alcuni fatti assai importanti: negli anni Sessanta la decolonizzazione, quando di fatto il pianeta disegnato da Yalta finì di esistere, nel 1989 la caduta del muro di Berlino, nel 2004 un Trattato costitutivo dell’Unione europea che le attribuiva personalità giuridica, rendendo l’Europa un soggetto politico e non più l'obsoleto feticcio sopravvissuto a Yalta.
Non c’è soltanto il problema di una diversa ingegneria istituzionale all’interno delle Nazioni Unite, ma anche la necessità di restituire all’ONU credibilità.
Ritengo importante che si possa assicurare, proprio in questi anni post covid, un multilateralismo ragionevole. Solo il multilateralismo infatti potrà essere accettabile per tutte le regioni e per tutti i popoli. Vi sono molte motivazioni alla base di tale orientamento. Le Nazioni Unite rappresentano un forum decisivo del multilateralismo, ma ritengo che proprio le Nazioni Unite abbiano bisogno di essere ammodernate affinché, in relazione ai loro compiti e alla loro composizione, possano avere un maggiore grado di accettabilità.
Se vogliamo fare in modo che le Nazioni Unite tornino ad essere il punto di riferimento di un nuovo multilateralismo, questo non passa soltanto attraverso la nostra capacità di incidere sul loro assetto istituzionale. Di fatto il multilateralismo, che vorremmo vedere affidato alle Nazioni Unite, in questi anni è stato sconfitto nella prassi. Infatti molto dipende dai rapporti di forza economica dei Paesi membri.
Il problema è capire se noi come consesso politico internazionale, e anche l’Unione europea, vogliamo conferire questa funzione, questo recupero di multilateralismo, questa governance mondiale sulla pace e sui diritti dell’Uomo alle Nazioni Unite. In questo è importante il ruolo dell’Unione europea.
            Ciò riguarda anche il processo decisionale dell'ONU che deve essere in grado di agire. Non serve, infatti, avere un'organizzazione internazionale senza un'adeguata capacità di agire.
Ebbene, dobbiamo fare in modo che in futuro sia possibile fare affidamento sulle decisioni dell'ONU proprio perché sappiamo che le sue posizioni possono essere realizzate. Ritengo che questo aspetto così come quello della riforma della composizione e delle procedure decisionali siano molto rilevanti.
Sullo sfondo c'è anche la dimensione politica unitaria dell’Unione Europea, che ha ripreso ad essere un punto di riferimento per gli Stati europei, proprio a causa della pandemia di covid 19 che ha richiesto una lotta unanime su scala umanitaria che potesse sconfiggere questo nemico invisibile in grado di annientare gran parte del genere umano.
              Questa è la prima pandemia che ha colpito il pianeta Terra a livello globale. E la risposta deve essere globale. Non vi è scelta. Nessuno può restare indietro. Ebbene, l’Onu può di nuovo svolgere un ruolo super partes atto ad intervenire.
La pandemia covid 19 ha fatto tornare indietro la civiltà umana economicamente, socialmente e culturalmente, con ripercussioni forti sui continenti più poveri. L’Onu può tornare ad essere il soggetto che abbia un proprio ruolo sullo scenario internazionale.
Le Nazioni Unite hanno grande importanza per le loro Agenzie (l’UNICEF e le altre istituzioni hanno esercitato un ruolo importante. Si può condividere in tutto o in parte l’azione delle Nazioni Unite, ma hanno la loro importanza.
Tuttavia l'ONU non deve essere eurocentrico bensì modellarsi un po’ su quella che si va prospettando come la governance globale del mondo, cioè sulle organizzazioni regionali.
Allora la prima cosa da chiedere è: lo Statuto dell’ONU è adeguato quando stabilisce che membri dell’ONU sono solo gli Stati nazionali? È ancora adeguata questa idea di governance, oppure nello Statuto dell’ONU deve entrare non più l’idea geografica dei continenti, bensì l’idea insieme giuridica e geografica delle regioni multi statali del mondo?
Ovvio perciò che, parlando di governance globale, si finisca a parlare dell’ONU e delle sue agenzie specializzate.
Tornando per esempio al caso del Covid-19, le recenti critiche mosse da più parti all’Organizzazione mondiale della sanità (che, nel caso di Trump, hanno assunto le dimensioni di vere e proprie accuse di collusione con la Cina, e che hanno portato lo scorso luglio all’annuncio del ritiro degli Stati Uniti dall’Organizzazione) sono state molteplici, soprattutto riguardo alla tempistica e ad una certa contraddittorietà dell'informazione.
Il successo sarebbe maggiore se pensassimo di assegnare potere alle regioni multi statali che, seppure non sviluppate nei loro rapporti come l’Unione Europea, tuttavia rappresentano istituzionalmente, giuridicamente e politicamente un superamento dello Stato nazionale. È necessario cominciare da questo elemento di base.
Il sistema di voto, il cosiddetto one-country-one-vote, certo non è in grado di annullare, o almeno di controbilanciare adeguatamente, il peso politico ed economico dei grandi blocchi geopolitici (Usa, Cina, Ue, Russia e gli altri cosiddetti BRICS), che possono esercitare pressioni sui budget per indirizzarne i programmi e gli obiettivi.
Si rileva quindi l’opportunità di allargare la rappresentanza ad aree regionali, quindi non soltanto all’Unione europea, non soltanto alle grandi aree geografiche, ma anche ad aree territorialmente omogenee che hanno la necessità di essere attori.
            Accanto all’attenzione ai passaggi di ingegneria istituzionale nella riforma democratica e verso una maggiore rappresentatività delle Nazioni Unite, credo che il problema resti politico, resti un problema di volontà.
Dobbiamo dunque lavorare per un multilateralismo efficace perché nessun Paese, neppure la più grande superpotenza mondiale, può garantire l’ordine mondiale da solo ed essere “efficace” perché deve essere in grado di produrre decisioni che vengano rispettate, altrimenti è un multilateralismo impotente che diventa alibi dell’unilateralismo.
Infine c’è la grande questione del coordinamento delle politiche economiche e sociali: si parla di un Consiglio di sicurezza economico e sociale che sovrintenda e dia un indirizzo politico anche ad Agenzie multilaterali importanti, le quali non sempre, tuttavia, hanno avuto un ruolo di progresso, come la Banca mondiale o il Fondo monetario internazionale.
Bisogna essere capaci di agire a livello multilaterale, concordando le posizioni a livello delle Nazioni Unite e adottando soluzioni concrete e non soltanto ideali che all’atto pratico non consentono di agire. Dal punto di vista pratico, partecipazione o membership di organizzazioni regionali, e’ questione complicata sia dal punto di vista del diritto internazionale che da quello della prospettiva dell’importanza politica.
           Le Nazioni Unite, però, hanno sempre trovato una soluzione per tener conto di una determinata situazione contingente.
Si ribadisce quindi la necessità di riformare l’Onu, anche rispetto al problema degli immigrati, come lo stesso Kofi Annan evidenziò rispetto alla questione delle guerre e pose a noi Europei problemi estremamente forti ed importanti sulle contraddizioni della nostra democrazia, legate, ad esempio, alla questione degli immigrati e così via.
Ritengo, quindi, sia estremamente importante continuare tale confronto per riuscire a costruire delle relazioni tra il Parlamento europeo e quelli nazionali, affinché si possa veramente fare delle Nazioni Unite e dei nostri Parlamenti istituzioni vive e democratiche e che possano davvero fornire risposte globali a problemi globali.

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14-07-2021


                                                           Dialoghi mediterranei in transizione

        La mia generazione è figlia dell'Europa. Quindi, con grande rammarico e tristezza bisogna pur ammettere che l'Europa con l'introduzione dell'euro ha determinato grossi problemi economici nei Paesi del Sud Europa, economicamente meno ricchi di quelli del Nord. La moneta è divenuta la priorità assoluta dell'Europa, rispetto al valore di “casa comune europea” a cui i nostri Padri costituenti si sono ispirati.
Si sente dire spesso che l'Europa è comandata dalle banche, che hanno preso la supremazia su tutto il resto. Questo è il problema. Questo cosa ci porta a fare?
Sempre più partiti politici mettono in dubbio l'opportunità di restare in Europa. A mio parere, è importante restare nell'Unione europea, come dimostra l'ultimo anno che abbiamo trascorso, con la lotta al covid. Sarebbe stata una tragedia colossale per l'Italia lottare da soli contro questo nemico invisibile che ha colpito l'umanità intera su scala globale. Non è più tempo di ragionare al singolare. La globalizzazione ha portato ad inquadrare i problemi nuovi in modo nuovo.
        E come sempre accade, di fronte ai problemi colossali, il bisogno di unità risorge. Persino la Gran Bretagna continua a collaborare con l'Europa, malgrado l'esito del referendum in materia.
Preso atto che l'Europa comunque vive una forte crisi, sarebbe auspicabile aprire una finestra al Sud in modo da creare nuovi rapporti con i Paesi africani, sviluppando quella politica di cooperazione allo sviluppo iniziata anni addietro.
L’Africa è un continente giovane e pieno di opportunità, da cui l’Italia potrebbe anche guadagnare. Anche se presenta tante fragilità e contraddizioni, infatti, non possiamo continuare a vedere l'Africa con la lente offuscata dagli stereotipi del passato. Occorre un’azione più incisiva rispetto al passato per cogliere i frutti di questa nuova fase di crescita. I Paesi africani devono essere al centro dell’attenzione della diplomazia italiana e delle aziende italiane anche per il sostegno al rilancio dell’economia nazionale e all’internazionalizzazione delle imprese. L’Italia, solo così, potrà così svolgere un ruolo da protagonista tra Europa ed Africa.
       Se è radicalmente cambiata l’Africa, deve perciò radicalmente cambiare anche l’approccio dell’Italia all’Africa.
Mentre nel 1986 si parlava di Africanistica come di una materia astratta, scientifica, d'interesse di nicchia, tematica solo ed esclusiva dei più grandi studiosi accademici italiani, oggi è una necessità. Che cosa è successo? La crisi economica occidentale in atto e del capitalismo in genere, ormai da lungo tempo, si riflette sui Paesi del Nord Africa che vivono in modo interdipendente dall'Europa, che lo si voglia o no. Questo ha portato ripercussioni economiche anche sui Paesi del Nord Africa ed a tutti problemi che si sono susseguiti negli ultimi anni: “Le primavere del mondo arabo, la nascita dell'Isis, lo scoppio delle guerre, l'inizio della immigrazione clandestina di essere umani provenienti dai Paesi in guerra”.
L'Italia, Paese al centro del Mediterraneo, era assolutamente impreparata e così digiuna di politica estera per affrontare questo tipo di  problematiche. Per quanto riguarda i dialoghi mediterranei, infine, ritengo opportuno volgere la nostra attenzione alla nuova prospettiva che si apre con la Via della seta, che può fungere da volano all'economia italiana, per attivare scambi e commercio, come fu nel passato.

Emanuela Scarponi

                                                                                                       


27-07-2021

                                                                        Johannesburg, città dimenticata

       Situata sull'altopiano del Witwatersrand, è la più grande città del Sudafrica e la terza di tutta l'Africa per numero di abitanti (circa cinque milioni).
Johannesburg, il cui sviluppo va fatto risalire alla fine dell'Ottocento, è oggi considerata il centro finanziario del Paese. Dopo la scoperta della formazione aurifera più ricca del mondo, diventò principale centro sudafricano; nel 1892 venne costruita la ferrovia da Johannesburg a Città del Capo e questo diede ulteriore impulso all'arrivo di stranieri nelle miniere.
       Arrivando nel centro di Johannesburg, di aspetto moderno e occidentale, ci scontriamo subito con le sue contraddizioni urbanistiche, frutto della sua storia molto complessa: grattacieli ultramoderni accanto a case poverissime, parchi favolosi che si alternano alle montagne di rifiuti estrattivi delle miniere d'oro; i pochi edifici di inizio secolo sono sovrastati da modernissime costruzione, rinnovate o ricostruite. Anche lo sviluppo urbanistico intorno al nucleo centrale, quello che ospita gli uffici direzionali ed amministrativi, porta i segni di due tappe storiche dello sviluppo: prima e dopo gli anni Cinquanta. Nella prima fase, infatti, nacquero gli eleganti quartieri residenziali dei bianchi come Houghton, Rosebank, Illovo, Parktown, Forrest Town e a nordest quelli più popolari come Hillbrow e Yeo ville. A ovest, invece, si concentrò la popolazione di colore. Gli anni successivi furono segnati da una razionale espansione urbanistica: al di là dei suburbs nacquero eleganti quartieri residenziali sul modello americano, come Sandton, Randburg, Bedfordview e Edenvaie, contraddistinti dalla funzionalità e dall'organizzazione degli spazi, con parcheggi e grandi shopping centre.
         Il centro resta il polmone finanziario del Paese e si sviluppa intorno alle vecchie strade di fine Ottocento quali Market Street, Rissik Street ed Eloff Street.
Ed è qui, nell'area centrale, che si trovano interessanti esempi di architettura moderna. Dal cinquantesimo piano del Carlton Centre, in Commissioner Street, ad esempio, si apre uno scorcio su importanti palazzi, grattacieli, uffici, fontane e, scivolando con lo sguardo verso ovest, possiamo ammirare l'atmosfera di Hollard Street, il cuore finanziario della città, una via pedonale abbellita da alberi e fontane, dove si trovava un tempo la vecchia Borsa, oggi in Diagonal Street.
       In fondo ad Eloff Street, presso la stazione ferroviaria costruita agli inizi del Novecento, fino a pochi anni fa la via dello shopping, c'è il Railway Museum, che ospita numerosissimi modellini di locomotive e raccoglie la storia delle ferrovie sudafricane. Uscendo dalla stazione, superata la cattedrale anglicana di St. Mary, costruita nel 1926 su progetto dell'architetto Herbert Baker, incontriamo il Joubert Park, il più centrale ed antico parco cittadino, al cui ingresso c'è la Johannesburg Art Gallery: l'edificio, di inizi Novecento, ospita collezioni di pittori dell'Ottocento e Novecento Inglesi, Francesi, Olandesi, fra cui Picasso e Van Gogh.
         Dal centro, spostandoci verso Nord Ovest, altri quattro teatri, due gallerie d'arte, ristoranti, negozi, cui si aggiunge, il sabato, il mercato delle pulci.
Tutt'intorno al centro, si sono sviluppati i quartieri residenziali, molto diversi l'uno dall'altro per atmosfera, architettura e popolazione. Come Brammfontein, con il suo Bensusan of photography, dove abbiamo trovato macchine fotografiche e foto di fine secolo sulla Johannesburg delle origini e sulla guerra angloboera; Parktown, uno dei quartieri residenziali più belli, con giardini e ville del primo Novecento, fra cui Stonehouse, la splendida villa di Herben Baker; Hillbrow, il quartiere popoloso e cosmopolita della J.G. Strjidom Tower, alta m. 269; Yeoville il mitico punto di incontro di artisti ed intellettuali, ideale per lo shopping di giorno. E poi Saxonwold: qui si trova il vasto Hermann Eckstein Park con il Geological Garden, dove gli animali, anziché essere rinchiusi in gabbia, vivono liberi in spazi circondati da fossati.

Emanuela Scarponi


24-06-2021


                                                                                                 La città di Antrodoco e la sua posizione naturale, strategica anche religiosa.

           Durante la mia infanzia e poi nella mia fanciullezza ero solita trascorrere le vacanze in questo piccolo centro di montagna, posto sulla Via Salaria con un’altitudine di circa 550 metri e poche migliaia di abitanti. Mentre nel passato, fino all'anno 1927 apparteneva all’Abruzzo, poi è diventata Provincia di Rieti e fa parte dell’Alta Sabina.
Da anni è zona termale, grazie alle sue acque solfuree, dislocate un po’ dappertutto e quindi è tuttora rinomata come zona di villeggiatura.
Antrodoco si trova proprio al centro dell’Italia in una posizione naturale, strategica ed anche religiosa, da tutti riconosciuta: naturale perché situata tra le alte montagne dell’Abruzzo, sugli Appennini tra la Salaria da cui viene attraversata e la Sabina ed entrambe le vie si addentrano in scabrose gole.
Infatti a monte del paese lungo la Salaria, la valle corre tra le pareti precipiti del Terminillo e del Monte Giano, mentre lungo la strada dell’Aquila tra le gole del Monte Giano e del Monte Nuria.
            Lungo entrambe le vie si incontrano svariati paesaggi di monti, con alberi di alto fusto come castagni, pioppi, abeti e larici; colline con olivi e frutteti e tanta vegetazione, con ricchezza interminabile di acque che compaiono in rii e cascatelle che poi scompaiono in profondi inghiottitoi. Antrodoco è un importante centro storico e strategico, conosciuto da tutti.
Tra i primi insediamenti ritroviamo l’antico popolo dei Sabini: questi dalle aree del Gran Sasso occupano prima dell’era Cristiana un tracciato di comunicazione che conduce dall'Appennino abruzzese al Lazio centrale ed alla costa tirrenica.
Lungo questo tracciato sorge ad opera di Mario Curio Dentato la Via consolare denominata “Via Salaria”, cioè come scritto in tutti gli annali storici “la famosa “Via del sale” che congiungeva le saline adriatiche “il campus salinarunm“ con Roma e, attraverso la Via Campana, con i porti commerciali dell’Urbe.
             La via consolare usciva attraverso la Porta Salaria verso la Sabina, costeggiava il fiume Turano ed arrivava a Cotilia “vicus reatinum“ e quindi a Borgo Velino ed Androdoco, dove qui si dipartiva in due rami: in direzione Nord-Est per giungere ad Ascolum “Ascoli Piceno” e quindi alla costa adriatica presso “Castrum Truentinum“ cioè Martinsicuro; l’altra diramazione verso Amiternum, uno dei centri sabini più antichi e meta di visitatori.
Di Antrodoco, città di origine osca, “ocre” in latino, cioè montagna aspra, sassosa, ricca di cime, ne parlano molti poeti romani ed anche il geografo greco Strabone del I secolo a.C. che narra quanto segue: “Tra Amiterno e Reate trovasi il borgo di Interocrea, le acque fredde di Cotilia, buone da bere e anche da bagnarsi per guarire da certi mali“. Successivamente Antonino Pio registrò le tappe e le distanze tra una località e l’altra ed “Interocrio“ viene segnalato al LXIV miglio della Salaria.
Lungo l’itinerario, Antrodoco funge fino al tardo Medioevo da importante “Mansio”, cioé stazione di posta e di cambio.
            I Romani costruirono importanti ville, grazie alle acque termali, presenti nella zona. Tra gli imperatori vengono ricordati Vespasiano ed i suoi figli, Tito e Domiziano. Le rovine delle loro ville sono visibili e visitabili in quanto molto interessanti, con guide esperte.
Tutta la zona e quindi la Salaria diventa anche la via attraverso cui la nuova religione, il Cristianesimo, si diffonde nella Sabina. Sono significative le testimonianze di questo processo religioso, avvenuto a partire dal II e III secolo in poi.Chiese, aree cimiteriali, lapidi, pilastri,e miriadi di iscrizioni sono visibili in molte zone.
Nei dialoghi di Papa Gregorio Magno vengono menzionati uomini santi per la loro vita e per i miracoli da essi compiuti; Tra essi troviamo “Severo” che insieme ai cosiddetti “uomini di Dio” godeva fama di santità grazie alla sua vita esemplare di amore e di aiuto verso gli altri.
          Si racconta che venne chiamato presso un malato per la confessione, mentre era intento a lavorare nella vigna. Volle finire il lavoro ma, mentre lo raggiungeva, seppe che oramai era morto. Recatosi nel luogo, cominciò a pregare e a piangere disperatamente, attribuendosi la fine del poveraccio. Però, grazie alle preghiere di Severo, il defunto risuscitò e narrò come fosse stato liberato dai demoni.
Detto questo, si confessò e dopo sette giorni di penitenza morì, ma in grazia di Dio. Un’altra attestazione di cristianità ad Antrodoco proviene da un testo letterario di Sant'Eusonio, martire che fece sosta nella Chiesa della Beata, Vergine e Maria, dove sono molti corpi di santi. Nell’Alto Medioevo il territorio antrodocano fa parte del Ducato di Spoleto, poi diventa sede di uno dei cinque castaldati minori della Regione. Divenne anche possesso dell’Abbazia di Farfa e, dopo svariate conquiste, perdite e sconfitte, fu acquistato dalla regina Giovanna II di Napoli.
         In epoca moderna Antrodoco e le sue gole ricordano la prima battaglia del Risorgimento tra il 7 e il 9 marzo del 1821, capeggiata da Guglielmo Pepe contro l’esercito austriaco. Fu un grande scontro dove trovarono la morte molti giovani antrodocani. Dai documenti pervenuti risultano combattenti e morti, anche alcuni miei antenati.
Emanuela Scarponi

 

                                                                                         

24-07-2021

                                                                          La strada, metafora dell'esistenza di Wole Soyinka

        Per comprendere il filo conduttore dell'opera drammatica di Wole Soyinka, è opportuno partire dall'analisi particolareggiata di “The Road”. E' questa una delle prime opere da lui scritte che preannuncia i molteplici temi sviluppati più specificatamente nelle opere successive.
       In “The Road”questi temi sono tutti implicitamente e potenzialmente contenuti, all'interno di una più vasta cornice tematica che costituisce il motivo centrale di tutta l'opera soyinkiana: il conflitto tra l'uomo e il destino.
Si tratta di una tematica talmente ampia che è possibile circoscrivere in essa tutte le altre, ricomponendo così l'interezza della personalità umana ed artistica dell'autore.
“The Road” è senz'altro l'opera più completa di Wole Soyinka, nella quale egli raggiunge la sua migliore espressione teatrale. In essa egli sviluppa appieno la sua abituale capacità di creare personaggi vivi, che qui appaiono nella loro più completa interezza. L'opera ci mostra uno spaccato di vari problemi della Nigeria contemporanea, ma evidenzia in particolare un tema che non ha confini: il fatto che l'uomo è l'unico essere vivente che sa di dover morire.
L'autore dice che 1'uomo può accettare la morte, ma non accetta di dover morire senza alcuno scopo. Cosi, noi inventiamo significati e vi crediamo; ma poi questi significati finiscono per infrangersi, ogni volta che indaghiamo a fondo su di essi.
“The Road” fu scritta nel 1965 e rappresentata per la prima volta a Stratford on Avon. L'azione si svolge nei pressi di un'autostrada in un posto qualunque della Nigeria, e descrive un giorno della vita di coloro che lavorano sulla strada.
Gli elementi che compongono la scena, la quale è unica per tutto lo svolgimento dei due atti, sono pochi, ma fortemente significativi per la comprensione dell'opera; una baracca, un autobus adibito a magazzino, il recinto del cimitero, la chiesa e la strada.
        Il professore, che è il personaggio principale, ha attrezzato il vecchio autobus come rivendita di pezzi di ricambio, pubblicizzandone la funzione con la scritta: "Aksident store". Questo magazzino, facendo mostra dei vari pezzi ricavati dagli incidenti, è perfetto per illustrare i temi e i problemi della strada e dei camionisti; inoltre, ricorda costantemente a coloro che vi giungono la presenza della morte.
Il tema della morte sulla strada è successivamente simboleggiato dalla ragnatela situata all'interno della baracca, con l'insetto sempre in agguato, e dal cimitero che si scorge dalla baracca stessa. Intorno al Professore ed al suo negozio ruotano diversi personaggi, che dipendono dalla strada per la loro sopravvivenza.
Vari sono quindi i tipi rappresentati: i camionisti, i loro aiutanti, i passeggeri e i nullafacenti che cercano di vivere alle spalle degli altri. L'azione comincia all'alba con il girovagare inquieto di Samson che cerca di svegliare gli altri protagonisti addormentati su giacigli di fortuna. Egli è un personaggio molto versatile e mimico, che manifesta ampiamente le sue capacità di attore comico fungendo da veicolo di humour satirico, malgrado l'opera verta sul tema della morte. Samson, autista privato in cerca di lavoro, esprime la sua amara ironia sognando tutto ciò che essi potrebbero fare se fossero milionari, o se almeno avessero un lavoro. Samson è un personaggio fondamentalmente buono ed onesto; egli è stato l'aiutante del camionista Kotonu» ne ha condiviso i momenti più difficili e gli è talmente legato, che in tutte le sue azioni tiene presenti le esigenze dell'amico. Kotonu è quindi un ex-autista, che ha deciso di abbandonare tale lavoro perché è rimasto colpito psicologicamente da alcuni incidenti.
Questi hanno cadenzato la sua vita e gli hanno lasciato una tale impronta di paura, da togliergli il desiderio di continuare a lavorare sulla strada. In tal modo, egli rifiuta anche la vita, rimanendo in uno stato di passività e di assenza di volontà, ed essendo preda di ansie e di suggestioni. Tramite alcuni flashback, i protagonisti spiegano gli incidenti di cui sono stati oggetto; ne risulta che Kotonu si sente come predestinato a finire sulla strada, sia perché in tal modo e morto suo padre, sia perché è scampato miracolosamente ad un incidente mortale, sia perché pensa di avere offeso violentemente il dio Ogun, signore della strada e protettore dei camionisti.
        La strada, che ha dato a quest'opera il suo titolo e che è al centro "della" sua azione, può essere considerata il principale simbolo del dio stesso e dell'abisso cosmico che Ogun attraversò. L'idea che la strada sia una entità vivente, un'unica cosa con Ogun, è espressa in maniera molto chiara nei già citati flashback e più precisamente nei versi pronunciati da Samson:
La strada, come Ogun, è strettamente legata sia alla vita che alla morte, perché provvede ai mezzi di sussistenza per i camionisti, ma d'altra parte minaccia costantemente di ucciderli. La strada, però, è anche il simbolo dell'abisso cosmico che Ogun fu il primo ad attraversare quando si spinse con un salto potente dal mondo degli dei al mondo degli uomini. Egli si trovò così, per un momento, in una specie di spirituale "no man's land" (terra di nessuno), senza i confini tra la vita e la morte, il tempo e l'eternità.
Ogun, a rischio della sua propria vita, ha scoperto l'universale unicità (oneness). Egli sa che la vita e la morte non sono altro che due aspetti di un'unica, medesima cosa; che il tempo è solo una porzione dell'eternità; che i morti, i vivi e coloro che non sono nati esistono simultaneamente, ma su livelli differenti di esistenza!
Tutto questo si è chiarito subito ad Ogun, durante il suo breve percorso nell'abisso della transizione, nel golfo cosmico. Anche la strada è una specie di no-man's-land: sebbene connetta tutti i luoghi, non è un luogo in se stesso, ma solo un legame che unisce e che si utilizza a rischio della propria vita.

Emanuela Scarponi 

 

21-06-2021

                                                                                                                                       Emanuela Scarponi incontra l'Africa day

         Il 25 maggio 1963, viene firmata la Carta che istituisce l'Organizzazione per l'Unità Africana al fine di promuovere la comprensione reciproca tra i popoli dell'Africa ed una maggiore cooperazione tra gli Stati africani in un'unità più grande che trascende le differenze etniche e nazionali. Con l’Africa day si celebra la pietra miliare della storia dell'Africa nell’ambito della organizzazione continentale. Nata come ricorrenza istituzionale, essa è oggi comunemente celebrata in tutto il mondo dagli Africani con spettacoli, danze, sfilate di moda, rappresentazioni teatrali, film ed iniziative culturali in generale: essa evidenzia così la storia e il patrimonio comuni, la unità e diversità del continente, nonché le sue enormi potenzialità ed il destino comune.
Mentre si celebra l'anniversario dell'OUA/UA, si ripercorre il cammino intrapreso negli anni dalla Organizzazione per trarre insegnamenti dai risultati ottenuti e segnare, le sfide future e tracciare la strada da seguire.
Inutile dire che ci sono stati sicuramente alti e bassi lungo il percorso. Per quanto siano chiari a tutti i successi conseguiti, le insidie che hanno contribuito al nostro stato attuale delle cose sono numerose. È in considerazione di questo fatto che è stato scelto il tema "Panafricanismo e Rinascimento Africano" per avere l'opportunità di guardare al passato, al presente e al futuro dell'Africa.
          Quando nel 1963 è stata fondata l'OUA, c'era davvero molta euforia e molto ottimismo per il ringiovanimento dell'Africa. Quelli erano i giorni esaltanti in cui trentadue Stati africani avevano appena iniziato a godersi la loro libertà e indipendenza guadagnata con fatica e aspirare a un futuro migliore. La Carta dell'OUA è stata l'espressione delle aspirazioni collettive per promuovere l'unità e la solidarietà tra i popoli africani, nonché per coordinare e intensificare la loro cooperazione ed ottenere una vita migliore per i popoli dell'Africa.
           Negli ultimi dieci anni, è incoraggiante che molte economie africane abbiano preso una traiettoria di crescita elevata. I conflitti che devastano il continente africano sono stati lentamente placati se non completamente debellati. Inoltre, stiamo assistendo ad una migliore governance con l'introduzione di una distribuzione democratica in molti Paesi africani. Man mano che andiamo avanti, abbiamo bisogno di riconvertire gli sforzi per assicurare una pace e una stabilità durature, accelerare la crescita economica e approfondire le riforme della governance, con l'obiettivo di definire una solida base per la trasformazione socio-economica dell'Africa.
            Con una leadership lungimirante impegnata a portare avanti il cambiamento, uno stato di sviluppo in grado di giocare un ruolo attivo e dinamico e la mobilitazione di tutte le sezioni del popolo africano, non vi è alcun dubbio sulla piena realizzazione della agenda continentale già nei prossimi decenni. L'auspicio è che quando l'Africa celebrerà nuovamente il centenario dell'OUA nel 2063, avremo un continente libero dal flagello dei conflitti e dalla povertà, dove molti Paesi africani avranno raggiunto uno status di reddito medio-alto e lo standard di vita di grandi popolazioni africane sarà stato notevolmente migliorato. Come le generazioni precedenti sono state ispirate dagli ideali di panafricanismo a combattere per la loro libertà e la dignità, le generazioni attuali e future dovrebbero quindi essere guidate dallo stesso spirito panafricano di lotta per 1'emancipazione socio-economica dell'Africa e realizzare il rinascimento africano. I giorni di festeggiamenti dell'Africa day avvengono con volti, voci, sussurri, invitati, danze, balli e sfilate che si rinnovano di anno in anno.
            Sullo sfondo l'austera Sala Aldo Moro della Farnesina che fa da cornice ai vari interventi.
E così allo Sheraton medesima meravigliosa serata all’insegna dell’Africa: resto seduta accanto ai rappresentanti diplomatici d'Etiopia tra cui l'indimenticabile ambasciatrice Amsalu Alena Adela.
Sono rimasta l’ultima di un gruppo ormai dissolto. Non ci sono più gli africanisti, dispersi nel nulla della disinformazione. Nuovi volti,nuove mode, nuove musiche.
             Questa particolarissima Giornata dell'Africa fa sempre sognare ad occhi aperti per il sapore antico che contiene in sé sia per i lunghi abiti e copricapo dai colori sfavillanti e variopinti indossati dalle imponenti donne africane presenti alla manifestazione, tali da rendere assolutamente autentica l'atmosfera, propria di questo meraviglioso continente. Le signore in rappresentanza delle ambasciate africane indossano meravigliosi vestiti africani colorati e partecipano attivamente alla mostra-conferenza ed ai preparativi culinari per i festeggiamenti della grande soirée che, oltre ad essere ricchissima di degustazioni culinarie di tutti i Paesi africani partecipanti, contempla una bellissima sfilata di moda africana realizzata da bellissime donne e fanciulle. Il programma è stato integrato con la proiezione di tutto il materiale audiovisivo dei documentari "la Namibia e i suoi popoli", "I San del Kalahari" e il "dibattito-conferenza" tenutosi presso la Farnesina il 23 aprile scorso alla presenza del giornalista Yossef Ysmail del Nile News.
             Nel bellissimo Hotel Sheraton di Roma si è pertanto dato avvio a quel tipo di collaborazione attiva tra Italiani e Africani, auspicata nella giornata di stamani alla Farnesina dai rappresentanti diplomatici africani e dai politici italiani. Ebbene, la Giornata dell'Africa si è pertanto sviluppata in tre bellissimi giorni ricchi di spunti e fatti nuovi, che contribuiranno a far crescere l'amicizia tra Italia ed Africa.
Emanuela Scarponi