28-11-2023

Il fenomeno del greenwashing. un esame delle aziende non sempre virtuose di Alessandra Di Giovanbattista

 

Il fenomeno del greenwashing ha fatto emergere una realtà in cui esistono aspetti ingannevoli nelle dichiarazioni e nelle politiche pseudo ambientaliste contenute nei messaggi e nelle strategie di marketing pubblicizzati dalle aziende. Ci si può trovare quindi di fronte a situazioni in cui le filiere produttive oltre a non essere rispettose dell’ambiente possono addirittura essere più nocive delle precedenti produzioni di beni/servizi. L’ecologismo di facciata ha quindi aperto scenari rischiosi di vera e propria illegalità nell’agire da parte delle aziende.
Una delle prime ricadute negative nelle pratiche di greenwashing la si riscontra nella perdita di fiducia da parte dei consumatori; quando essi scoprono di essere stati ingannati scatta un meccanismo di punizione in cui l’immagine aziendale viene annientata e la sua reputazione distrutta. Si può così verificare una perdita di valore, un danno che può anche essere superiore rispetto al beneficio che l’azienda sperava di trarre dal greenwashing. Un altro rischio, molto più sostanziale ed importante riscontrabile nella pratica dell’inganno ecologico, risiede nella perdita di interesse da parte dell’azienda di intraprendere un effettivo percorso di miglioramento ambientalistico; infatti se un’impresa vede premiata la sua politica ingannevole potrebbe essere soddisfatta dei risultati ottenuti senza di fatto ricercare un miglioramento concreto delle proprie linee produttive attraverso strategie di ricerca e sviluppo. Un’altra considerazione importante riguarda le modalità con cui i singoli produttori rendono conto della propria politica di sostenibilità attraverso indicatori di bilancio (c.d. ESG cioè: indicatori di ambiente, fattori sociali e governo dell’azienda e misurano la sua propensione al rispetto dele politiche green) che consentono soprattutto agli investitori di diminuire il rischio di finanziare progetti ed imprese che potrebbero risultare non virtuose nel perseguire gli obiettivi ambientali.
Un aiuto per evitare di cadere nella trappola dell’inganno ecologico ci verrà fornito in Europa attraverso l’emanazione di una normativa stringente su ciò che può essere identificato come azione a favore dell’ambiente; un maggior numero di aziende sarà obbligata a fornire un resoconto circa le modalità seguite per lo svolgimento delle attività sostenibili ed i risultati conseguiti attraverso attività di reporting di natura non finanziaria. Queste misure però potrebbero non risultare sufficienti se le normative non saranno chiare e rese obbligatorie per tutti; noi consumatori avremo l’obbligo di informarci accuratamente prima di acquisire un prodotto/servizio al fine di valutarne il reale impatto ambientale. Ultimamente l’Unione europea ha cercato di rafforzare il percorso avviato verso il modello di sviluppo economico-sociale sostenibile. Dal punto di vista legislativo ha individuato la direttiva sugli indicatori di sostenibilità che dovranno adottare le aziende (c.d. CSRD Corporate Sustainability Reporting Directive) che sostituirà l’attuale direttiva sulla rendicontazione non finanziaria (c.d. NFRD Non Financial reporting Directive).
L’Europa su questo fronte ha posto come obiettivo la neutralità climatica (c.d. net-zero) nel 2050; pertanto le aziende dovranno modificare le proprie strategie ed investire in ricerca e sviluppo al fine di raggiungere l’obiettivo prefissato. La transizione verso produzioni ecosostenibili è un processo necessario ed urgente non solo per motivi ambientali e sociali, ma anche economici; infatti il deterioramento dell’ambiente rappresenta una minaccia concreta per le aziende e per la stabilità del sistema economico. E’ evidente che la transizione implicherà costi notevoli riconducibili a maggiore tassazione se l’azienda è più inquinante, maggiori oneri in termini di strategie di ricerca e sviluppo, maggiori costi per consumi energetici; il tutto influirà negativamente sul ricarico che l’azienda è in grado di percepire come rapporto tra prezzo di un bene/servizio ed il suo costo (c.d. markup aziendale). I notevoli costi che le aziende dovranno sostenere renderanno necessari aiuti di stato in termini di risorse a fondo perduto (in tal senso si vedano alcuni degli aiuti contenuti nel Piano nazionale di resistenza e resilienza c.d. PNRR). Purtroppo ancora una volta saranno le imprese che si trovano nel territorio del mezzogiorno a farne le spese perché esposte a maggior rischio di transizione; le loro produzioni sono essenzialmente concentrate nel settore automobilistico e della lavorazione dell’acciaio (in particolare si pensi alle zone di Potenza, Taranto, Terni, Campobasso).
Si comprende così, in termini economici, il perché le aziende cerchino di presentare come ecologici processi e prodotti che spesso non lo sono o lo sono solo in parte; scorriamo ora i casi più eclatanti di aziende che hanno fatto greenwashing al fine di essere consapevoli ed attenti ed imparare dagli errori compiuti nel passato.
Cominciamo dalla Coca-Cola: già nei primi anni del 2000 l’azienda è stata al centro di problemi legati al tema della sostenibilità. Nel giugno del 2021 è stata citata in giudizio da un’organizzazione ambientalista senza scopo di lucro (Earth Island Institute) con l’accusa di fare marketing ingannevole sul tema ecologico; in particolare è risultata essere una delle aziende più inquinanti tra quelle che producono bevande anche perché i propri contenitori (bottiglie e tappi) non sono risultati riciclabili al 100%. Secondo la denuncia la Coca-Cola è il principale produttore di rifiuti plastici del mondo, ed utilizza circa 200.000 bottiglie al minuto, pari ad un quinto della produzione mondiale di bottiglie in polietilene tereftalato (PET). Inoltre, poiché la linea produttiva di tale plastica si basa sull’uso di combustibili fossili, si aggiungono anche danni causati da emissioni di CO2. L’eccessiva produzione di rifiuti in plastica è dovuta alla carenza di sistemi di riciclaggio; si è calcolato che solo il 30% delle bottiglie riesce ad essere effettivamente riutilizzato e ciò è dovuto non solo ad una mancanza di strategia produttiva ma anche perché l’azienda si oppone all’applicazione di una piccola tassa sull’acquisto delle bottiglie di plastica che verrebbe restituita al consumatore nel momento in cui la bottiglia viene conferita in un impianto di riciclaggio. Sul punto si vuol solo ricordare il potere, economico e politico, della Coca-Cola che ha impedito che la tassa sui manufatti in plastica MACSI (c.d. plastic tax) e la tassa sulle bevande zuccherate (c.d. sugar tax) - aventi anche una valenza ambientalista e salutare - entrassero in vigore in Italia dal gennaio 2020, inducendo i nostri politici a prorogarne periodicamente la decorrenza; con la legge di bilancio per il 2024 tale entrata in vigore è stata portata al luglio 2024, ma penso, a mio modesto avviso che, ahimè, assisteremo ad un’ulteriore proroga!
Anche ENI, il colosso energetico italiano, è stato accusato di greenwashing; in particolare tra il 2016 ed il 2019 ha presentato il prodotto “ENIdiesel+” come avente le caratteristiche di prodotto biologico, green e rinnovabile, con la possibilità anche di abbattere le emissioni di CO2 fino al 40%. Di fatto è emerso successivamente che gli additivi vegetali presenti nella citata tipologia di diesel sono altamente inquinanti e non riducono né l’impatto ambientale né i consumi. Pertanto le è stato proibito di continuare ad utilizzare una pubblicità ingannevole riguardante un prodotto altamente inquinante, che per sua natura non può essere considerato green; il Tar del Lazio ha stabilito una multa di 5 milioni di euro.
Nel 2019 la società H&M attiva nel campo della moda è stata posta sotto accusa dall’autorità governativa (Norwegian Consumer Authority) che si occupa di pubblicità ingannevole; in particolare esaminando la collezione c.d. “Conscious”, pubblicizzata come rispettosa dell’ambiente, si è visto che le informazioni fornite in merito ai processi produttivi erano vaghe ed imprecise con riferimento, in particolare, alla maggiore sostenibilità di essi rispetto agli altri prodotti in vendita. L’azienda non ha ricevuto multe, ma è stata indotta a fornire una più approfondita comunicazione sulla sua filiera produttiva.
Altra grande azienda che ha sempre puntato su un’immagine di produzione eco sostenibile, ma che si è trovata invischiata in problematiche riguardanti il greenwashing è stata Ikea; nel 2020 è stata accusata dal un gruppo ambientalista britannico (Earthsight) di essersi rifornita di legname abbattuto in modo illegale in Russia ed in Ucraina. L’associazione ha documentato come grand parte delle imprese ucraine non avessero rispettato le norme sulla provenienza del legname, senza peraltro valutarne l’impatto ambientale, e disboscando oltre i confini dei territori autorizzati. Inoltre è stato stimato un consumo di un albero al secondo per soddisfare la domanda globale di prodotti Ikea. La sua politica di produzione si basa su un modello a bassi prezzi di vendita, che utilizza il legname per arredamento a basso costo (il c.d. fast-fashion dell’arredamento); tale strategia ha la caratteristica di cavalcare l’onda del consumismo sfrenato che porta il consumatore ad acquistare beni di cui non ha bisogno, e che hanno una durata molto limitata nel tempo, con ciò incentivando la deforestazione. Per rispondere a queste accuse l’azienda ha predisposto un programma di riacquisto e vendita di mobili usati.
A giugno del 2022 un’indagine condotta da Reuters ha evidenziato che l’azienda britannica multinazionale Unilever ha eluso i divieti circa l’utilizzo di bustine monouso per la vendita di prodotti in piccole quantità. In particolare tali bustine vengono utilizzate soprattutto nei paesi in via di sviluppo ed essendo contenitori usa e getta rappresentano una delle forme principali di inquinamento dell’ambiente e in particolare dei  mari.
Di recente, ad aprile 2023 è stata accusata di greenwashing la compagnia aerea KLM per pubblicità ingannevole; in particolare si utilizzava la pubblicità per suggerire che il viaggio in aereo non è una scelta sbagliata dal punto di vista ambientale (campagna c.d. Fly Responsibly). La compagnia aerea sottolineava l’uso di carburante eco sostenibile e l’adozione di aerei ad idrogeno quando la relativa tecnologia sarà sviluppata. Tra gli accusatori diversi gruppi non profit tra cui Fossil Free, ClientEarth e Greenpeace che hanno sottolineato l’ingannevole pubblicità rappresentata da giovani speranzosi e possibili tecnologie future non ancora presenti. La campagna pubblicitaria è stata interrotta.
Anche l’azienda italiana San Benedetto ha dovuto pagare una multa di 70.000 euro per aver fatto pubblicità ingannevole basata su bottiglie prodotte con meno plastica, risparmio di energia e di emissioni di CO2, e quindi ecosostenibili. In realtà l’Antitrust ha evidenziato che all’epoca non sarebbe stato possibile calcolare il reale risparmio di energia e la diminuzione delle emissioni di CO2 in quanto non erano disponibili strumenti idonei a quantificare tali benefici ambientali.
Nel 2021 l’azienda petrolifera statunitense Chevron è stata accusata di pubblicità ingannevole in quanto aveva sopravvalutato i suoi investimenti in energie rinnovabili e nelle strategie per la riduzione delle emissioni di gas serra. In particolare i gruppi non profit Global Witness, Greenpeace e Earthworks hanno individuato le pratiche ingannevoli contenute nella pubblicità di Chevron in quanto gli investimenti in fonti rinnovabili rappresentavano il solo 0,2% delle spese in conto capitale. Sono state quindi richiamate le linee guida del 2012 della Commissione Federal Trade che mirano ad impedire che le aziende rilascino false dichiarazioni ambientaliste. Sono state così riconosciute illegali 15 campagne pubblicitarie della Chevron tra cui le pubblicità “Human energy” e “We Agree”.
Non ci rimane che dire: vigiliamo attentamente perché il benessere del pianeta dipende prima di tutto da noi consumatori, da ogni nostro piccolo gesto!

 

 

La ritrattista Rita Valenzuela nasce nella Repubblica domenicana nel 1975 e ci vive fino al 2010, assistendo alla trasformazione del suo Paese da tradizionale a moderno - ed approda in Italia nel 2010. Giornalista per due testate nel suo Paese e photo reporter, come ha avuto modo di raccontarci al Festival dell’Oriente di ROMA lo scorso anno, cura la sua passione per la fotografia anche in Italia, percorrendo il suo cammino di emancipazione femminile e di donna moderna attraverso l’arte; il suo bisogno di esprimersi si traduce in forma artistica, permettendo alla sua anima pura di rispecchiarsi nel volto delle donne che incontra; dotata di spontaneità, propria della sua gente, si immerge dunque nel mondo occidentale europeo da donna domenicana, portando con se’ i suoi valori e le sue tradizioni, traslandole in chiave moderna.
la sua prima ispirazione è rappresentata dalle sorelle Mirabal, famose martiri domenicane, cui dedica il premio d'arte di pittura e fotografia nel 2020 per la pace dell'Italia e del mondo.
Porta nel suo cuore le sue immagini di donne africane, centroamericane, i suoi costumi ed i suoi valori, riconosciuti alla donna, madre e bambina che sia, traslandoli in una visione artistica moderna dell’essere femminile. Ritrae donne e volti di donne da più di 40 Paesi del mondo, rendendo la sua arte internazionale. Sperimenta la sua espressione fotografica su volti di donne di tutto il mondo, dal Sud al Nord del pianeta, senza distinzione di razza, colore, religione e lingua, approdando a riconoscimenti di livello internazionale.

Grazie al mescolamento delle culture, centro americana, africana ed europea, riesce con un colpo d’occhio e con uno scatto fotografico a cogliere il senso della femminilità nelle sue varie sfaccettature, di chi è dietro l’obiettivo.
E diviene dunque famosa per la sua abilita artistica a cogliere la profondità dell’anima delle donne che fotografa, siano esse madri, siano esse bambine, siano esse donne nelle loro essenza, bianche o nere.
Ricca ed orgogliosa della sua cultura domenicana, attaccata alle sue radici culturali e tradizionali, ed alla sua lingua natia, la lingua spagnola, crea nel 2018 l’importante associazione culturale no profit, chiamata “Il tempo delle donne” che trova spazio come sede nella Casa delle donne” a Via della Lungara. ad esse fanno riferimento tutte le donne della Repubblica domenicana, che lei in qualche modo rappresenta e racconta con le sue mostre d'arte e sfilate in costume tradizionale.
Ed e qui, in mezzo alle ormai storiche donne coraggiose italiane, che trova un luogo in cui poter esprimere liberamente la sua forma artistica e femminile.
La corrente artistica di pace internazionale dall’Italia per il mondo riparte e prende sempre più concretezza nel 2023, laddove l’associazione “Il tempo delle donne” presenta Sguardo di donna 2023 con una mostra collettiva internazionale che avrà luogo presso la biblioteca Enzo Tortora dal 16 al 30 novembre. Il vernissage si terrà giovedì 16 alle ore 17,30 in Via Nicola Zabaglia 27/b cura di Rita Valenzuela, retratista.
Il progetto di Rita Valenzuela si concretizza sempre più fino a raggiungere i piani più alti delle istituzioni italiane, prima la Casa delle donne dove l’Associazione ha sede, poi il Campidoglio, infine la Sala del Cenacolo presso la Camera dei deputati.
All’attenzione ormai del mondo culturale e politico italiano, Rita Valenzuela, giornalista e fotografa impegnata nel suo Paese, rappresenta le donne del suo Paese e non solo grazie alla sua associazione “Il tempo delle donne”: le conduce per mano, mostrando loro la strada per la libertà, consapevole dell’importanza che essa riveste, indicando - con la sua esperienza di vita e la sua sofferenza - il sentiero, pur arduo e stretto, da percorrere per permettere al proprio mondo interiore di venire fuori e prendere il volo, senza freni o inibizioni, imitando il battito d’ali d’uccello che sfreccia nel cielo infinito.
Rita Valenzuela è molto attenta a tutte le donne, anche quelle oppresse dalla fatica quotidiana, come si può notare da un geniale autoritratto di donna, vincitore del concorso 2022.
Esprime la sua passione interiore attraverso la forma artistica che più le si addice: la fotografia, ma promuove anche la pittura, invitando oltre 40 artiste di tutti i Paesi del mondo a partecipare al concorso.
La fotografia e la pittura puntano a focalizzare l’attenzione sulle forme della bellezza femminile interiore ed esteriore, perseguendo in silenzio – con un effetto maggiore di mille parole strillate - e con l’eleganza delle sue movenze visive e del suo sguardo attento di donna, di artista, e di madre, un processo di emancipazione femminile che, pur lentamente, rende le donne sempre più consapevoli della propria forza e delle proprie capacità, spesso tenute nascoste dal mondo maschilista in cui viviamo.
Consapevole della importanza che Rita vuole dare alle donne di tutti i ceti, di tutti i Paesi del mondo, di tutte le religioni, accetto orgogliosa di patrocinare questa nuova edizione del concorso in qualità di madrina.
Che l’evento abbia inizio e che vinca la migliore!
Emanuela Scarponi


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Ritrattista Rita Valenzuela, presidente de “Il Tempo delle Donne”
Nel 2018 crea l’associazione no profit "Il Tempo delle Donne" gruppo di artiste provenienti da 30 Paesi del mondo inclusa l’Italia.
Nel giugno 2020 crea il “Premio Sguardo di Donna per la non violenza”, Progetto artistico-culturale in omaggio alle Sorelle Mirabal, martiri dominicane.
Nasce a San Cristòbal (Repubblica Dominicana) il 6 gennaio 1975.
Giornalista, è stata direttrice delle testate “El Folio del Sur” e “Gente Social”, premiate come le migliori testate culturali e di notizie della Provincia di San Cristòbal; conduttrice di programmi radiofonici per Radio Sur FM; organizzatrice del Concorso di racconti per bambini “Sembrando Esperanza”, forma parte del progetto governativo per l’eliminazione dell’analfabetismo negli adulti nella Repubblica Dominicana.
Ha ricevuto vari riconoscimenti dal Ministero della Cultura e da organizzazioni culturali della Repubblica Dominicana.
Trasferitasi in Italia nel 2010, la sua grande passione per la fotografia è stata affinata con una serie di corsi dedicati, che le hanno permesso di mettere in luce le sue grandi qualità di ritrattista.
Divenuta famosa per la sua abilità artistica nel cogliere la profondità d’animo delle persone che ritrae, è dunque conosciuta come “Ritrattista Rita Valenzuela, presidente de “Il Tempo delle Donne”, Rita pronuncia con la purezza della sua anima le sue frasi: “A volte un piccolo gesto come un sorriso può illuminare la giornata di qualcuno.”
"Il Tempo delle Donne chiama le artiste del mondo.""Creiamo un nuovo sguardo nel tempo."
"L'arte è bellezza da vivere e condividere"
"L'arte è l'acqua che sazia la sede dell'anime ferite, è l'ombra per ripararsi e guarire le ferite del cuore."
"La diversità è la nostra ricchezza"
"La cultura è il cibo di un'anima artista"
"La bellezza sta nel buio bisogna solo trovare la luce giusta per vederla".
“L'intenzione dell'anima” di Rita Valenzuela è il titolo della sua Mostra fotografica che ha avuto luogo in occasione della Giornata internazionale per l’eliminazione della violenza contro le donne, in omaggio alle eroine dominicane, le Sorelle Mirabal dal 25 all’ 8 dicembre del ????? in Via della Stamperia 6, a pochi passi della Fontana di Trevi a Roma in Italia.
“L'intenzione dell'anima” è stata organizzata dalla Ambasciatrice della Repubblica Dominicana in Italia, Alba María Cabral Peña Gómez e dall'ISTITUTO CENTRALE PER LA GRAFICAm Direttore, Maria Cristina Misiti.
L'intenzione dell'anima è stata curata da Luisa Auffant, Addetto Affari Culturali dell’Ambasciata della Repubblica Dominicana in Italia; i testi che hanno accompagnato le fotografie durante la mostra sono stati scritti da Laura Gil Fiallo del Ministero della Cultura della Repubblica Dominicana, ISTITUTO CENTRALE PER LA GRAFICA. Il commissario della mostra è stato Maria Francesca Bonetti.
Alcune delle sue mostre: 🌱
Come curatrice:
Mostra d'arte collettiva “Tutti i Colori del Mondo” dal 3 al 9 dicembre 2021. "Sguardo da Donna" dal 04 al 06 settembre 2020. Mostra d'arte collettiva "TERRA MADRE" dal 25 al 31 ottobre 2019, realizzate a Roma nella Galleria d’arte Arca di Noesis.
Mostra d’arte collettiva “Natura-Corpo-Anima dal 1 al 5 settembre 2021
Il Laboratorio, Trastevere, Roma.
Mostra collettiva “Il tempo delle Donne” Gruppo Clark, 06 al 9 dicembre 2018
Mostra D’arte Personali:
24- 05- 2019 Mostra Personale della ritrattista Rita Valenzuela “Tiempo de Mujer” Salone della Ambasciata Dominicana in Italia.
Dal 19 al 21-01-2018 mostra personale della ritrattista Rita Valenzuela “Emozioni su Telo” nell’Hotel Napoleon, Roma.
Dal 12 al 1-02-2019 mostra personale della ritrattista Rita Valenzuela “Emozioni su Telo” nel Spazio Filatelia, delle poste italiane di Piazza San Silvestro.
Come artista invitata:
20-09-2019 evento dell’Ong Africanpeople in Africa ed in Italia per commemorare la Giornata internazionale per i diritti dei migranti, 17 dicembre 2021, Roma
20-09-2019 evento culturale artistico nella Casa internazionale delle Donne.
29-8 -2019 al 9-9 -2019 Esposizione collettiva internazionale Emozioni in Mostra "L'Armenia incontra il Mondo" a Castel dell’Ovo, Napoli.
08 -03- 2019 Mostra collettiva d'arte contemporanea nella galleria CosArte con la collaborazione di Amnesty International.
17-01 al 01-02 del 2020, mostra I CORTILI DELL’ANIMA uno degli eventi che rientra nei progetti approvati dal Municipio ROMA VIII per il Centenario della Garbatella.
22 -12 al 7 -12 del 2019, “Le Rouge et le noir" nella Galleria in Via Nicolò da Pistoia 18 (Garbatella) con il patrocinio del Municipio di Roma VIII.
06 -06 2018, 05-06-2017 e 16-06 2014, Mostra collettiva Gruppo di Fotografia dell’Istituto Comprensivo "Daniele Manin", C.T.P. "Nelson Mandela" di Roma.

COME SI FA GREENWASHING E COME LO SI CONTRASTA: I C.D. SETTE PECCATI CAPITALI
di Alessandra Di Giovambattista

 

13-11-2023
 
Il fenomeno del grennwashing, traducibile in italiano con il termine di “ecologismo di facciata”, fa riferimento ad una strategia di comunicazione che ha lo scopo di costruire un’immagine tanto positiva quanto falsa di un’azienda rispetto al suo reale impatto ambientale. Diviene pertanto importante, al fine di contrastare tale pratica ingannevole, cercare di capire come le aziende inducano in errore i consumatori; secondo una ricerca condotta da “Terrachoice Environmental Marketing inc.” (società canadese di marketing ambientale) vi sono sette elementi da considerare (definiti “sette peccati capitali”):
1) omessa informazione: la strategia si basa sull’omissione di informazioni che bisognerebbe conoscere al fine di poter ben valutare l’impatto ambientale dei prodotti/servizi commercializzati; in tal modo le aziende non dicono il falso, si limitano (semplicemente !!!) ad omettere l’informazione. Così non viene dichiarata la provenienza delle  materie prime, le modalità con cui sono lavorate, il rispetto delle normative degli Stati dalle quali provengono, la politica di trasporto e di distribuzione, le modalità di imballaggio, le strategie di riciclo delle materie prime, quanta CO2 viene immessa nell’ambiente attraverso la filiera produttiva. Queste informazioni sarebbero importanti per un consumatore consapevole e con la volontà di premiare le aziende più meritorie. L’omissione delle informazioni genera così l’inganno del consumatore al quale, forse, viene sottolineato solo qualche aspetto marginale del problema ambientale. Il fenomeno lo si può riscontrare anche quando alcune aziende delocalizzano la propria produzione trasferendosi in Stati in cui è meno stringente il controllo normativo, potendo così dichiarare che non sono state violate disposizioni ambientaliste, ma ciò in realtà è vero solo perché non hanno prodotto in Italia o nel proprio paese d’origine! Questa pratica ingannevole è stata riscontrata per il 73% dei casi negli USA e per il 98% dei casi nel Regno Unito.
2) Mancanza di prove: in definitiva le aziende dichiarano delle caratteristiche green del prodotto senza che queste vengano supportate da chiare e riconosciute certificazioni da parte di enti terzi a ciò preposti. Ovviamente fanno forza sul fatto che il consumatore, ingannato anche dal nome dell’azienda, spesso multinazionale, non riesce a verificare quanto viene dichiarato. Questo aspetto coinvolge circa il 59% delle aziende statunitensi.
3) Vaghezza: questo aspetto riconduce ad indefinite e imprecisate informazioni sui prodotti che non consentono assolutamente di fare chiarezza circa gli ingredienti utilizzati, la loro provenienza, il processo produttivo impiegato, ma piuttosto usano affermazioni come: “prodotto con ingredienti naturali”, “fatto come da tradizione”, ecc. Anche in tal caso circa il 56% delle aziende statunitensi utilizza questi metodi per abbagliare il consumatore e indurlo a credere che stia acquistando un prodotto rispettoso dell’ambiente.
4) False etichette: le aziende in tal caso utilizzano etichette per i loro prodotti che riportano certificazioni e autorizzazioni che in realtà non hanno acquisito o che sono totalmente false (in un ambito diverso si vuol ricordare il caso, di qualche tempo fa,  del marchio CE che si pensava fosse riferito alla provenienza Comunitaria dei beni, ma che in realtà significava “China Export”, cioè prodotto di esportazione cinese!). L’inganno per il consumatore consiste nel considerare le etichette apposte sul prodotto come veritiere e garantiste di un bene prodotto secondo pratiche ecologiche; in realtà si rischia di utilizzare un prodotto che potrebbe essere assolutamente non rispettoso dell’ambiente ed anzi in alcuni casi anche nocivo. Circa il 24% delle aziende statunitensi approfitta della disattenzione e dell’ignoranza dei consumatori in questo ambito.
5) Irrilevanza: questa tecnica si basa sul fornire informazioni che potrebbero sembrare a favore e a tutela dell’ambiente ma che in realtà esulano del tutto dall’argomento e non sono assolutamente rilevanti per capire se un prodotto è davvero ecologico o meno. In particolare le aziende cercano, ad esempio, di sottolineare la mancanza di alcuni componenti nel prodotto inducendo a pensare che sia una propria scelta strategica di natura ecologica, quando invece per disposizioni di legge non possono usare determinati elementi e sostanze chimiche. La realtà è che il consumatore percepisce come una buona pratica quello che l’azienda di fatto non potrebbe assolutamente fare, pena incorrere nell’illegalità.
6) Basarsi sul male minore: le aziende cercano di celare una produzione nociva indicandola come meno dannosa rispetto ad un’altra; pertanto la questione si gioca su un confronto di filiere di produzione che sono comunque inquinanti, solo che una lo è più di un’altra, e ciò si verifica quando ad esempio su di una di esse ci sono studi consolidati circa la sua nocività, rispetto all’altra. Una dimostrazione è data dalle sigarette elettroniche pubblicizzate come amiche dell’ambiente perché consentono di diminuire le coltivazioni di tabacco che inquinano i terreni e nuocciono alla salute. In realtà anche i liquidi usati per le sigarette elettroniche sono chimici ed altamente tossici e quando si fumano emettono sostanze nocive per l’ambiente e per le persone. Quindi non ci troviamo di fronte ad un prodotto ecologico, bensì di fronte ad un bene che forse è solo meno inquinante rispetto ad un altro, ma questo è tutto da dimostrare!
7) Mentire: questa tecnica è la meno seguita dalle aziende essendo comunque una pratica perseguibile giudiziariamente; in ogni caso alcune affermazioni potrebbero non essere vere e comunque difficili da verificare da parte del consumatore. In tal senso pensiamo a quando viene pubblicizzato un allevamento che non usa antibiotici o che utilizza mangimi ecosostenibili, oppure quando si indicano le emissioni di CO2 della filiera dei prodotti; per il consumatore è davvero difficile, se non impossibile, verificare il grado di verità dell’affermazione fatta dall’azienda. Questa ha tutto l’interesse a far sì che il consumatore venga indotto a credere che stia effettuando un acquisto rispettoso dell’ambiente, quando in realtà per valutare un bene/servizio o una categoria di prodotti, occorre una valutazione circa l’impatto ambientale della filiera nella sua totalità e complessità. Una modalità per valutare l’attendibilità delle dichiarazioni è cercare di approfondirne la veridicità magari informandosi anche su siti di tutela dei consumatori.
Una volta chiariti gli aspetti più caratterizzanti di tale pratica ci si chiede come sia possibile verificare di fatto quando ci si trovi di fronte ad una pratica di greenwashing al fine di contrastarla e di effettuare la scelta più consona ai propri obiettivi di consumi a tutela dell’ambiente; in ambito internazionale ci si può basare sulle raccomandazioni della commissione statunitense “Federal Trade Commission” che ha individuato alcuni metodi abbastanza efficaci per evitare di incorrere in errori di valutazione e quindi per tentare di sfuggire alla possibilità di essere ingannati.
Occorre verificare che le etichette che spiegano l’impatto positivo del prodotto sull’ambiente usino un linguaggio immediato e diretto, di facile comprensione senza grandi proclami e frasi ad effetto. Il messaggio pubblicitario contenuto nella dichiarazione di marketing deve essere semplice con indicazioni esatte circa le effettive strategie utilizzate dall’azienda per raggiungere obiettivi di produzione rispettosi dell’ambiente; in particolare è bene che le singole parti del processo produttivo siano ben chiare e specifiche nella parte innovativa, consentendo di comprendere se il prodotto abbia davvero un impatto di emissioni parzialmente o totalmente compensate (quindi nel migliore dei casi pari a zero). Il linguaggio usato nelle etichette non deve essere eccessivo quindi non deve essere esageratamente enfatico, ponendo un’attenzione ad un beneficio ambientale che difficilmente, salvo prova contraria, sarebbe raggiungibile. Occorre avere delle prove abbastanza inconfutabili circa il miglioramento della linea produttiva di un’azienda rispetto ad un altro marchio concorrenziale; in questo caso si rilevano importanti i processi di ricerca e sviluppo che le grandi aziende dovrebbero incentivare e finanziare e la pubblicizzazione dei risultati e dei loro effetti sui prodotti. Preferire l’acquisto di prodotti con certificazioni effettuate da enti terzi riconosciuti ed affidabili, come ad esempio il Carbon Trust Standard; questa è un’azienda che supporta le imprese nella misurazione delle emissioni di gas ad effetto serra provenienti dalle proprie linee produttive e fornisce un logo per l’identificazione dei prodotti che sono sottoposti alla sua valutazione. La misurazione delle emissioni di CO2 permette di identificare i miglioramenti durante il processo produttivo, di approvvigionamento e di distribuzione; la verifica circa la riduzione dell’impatto ambientale avviene ogni due anni e consente di esporre i miglioramenti compiuti dall’azienda in modo trasparente ed oggettivo.
Per quanto riguarda il nostro Paese il Forum per la Finanza sostenibile, svoltosi a novembre del 2022 a Milano e a Roma, ha esposto delle linee guida per contrastare il greenwashing anche in ambito di finanza sostenibile, allargando il campo di osservazione sia ai consumatori che ai potenziali investitori; nel documento si legge infatti che aziende, consumatori ed investitori possono evitare di incorrere in tale pratica ingannevole seguendo delle raccomandazioni generali relative a determinati comportamenti. In particolare le raccomandazioni per sviluppare politiche di sostenibilità efficaci e contestualmente per fornire una comunicazione esente da pratiche ingannevoli dovrebbe: identificare concreti obiettivi di sostenibilità e comunicarne in modo trasparente sia le motivazioni che hanno portato a scegliere un determinato obiettivo piuttosto che un altro, sia i principi generali a cui fanno riferimento al fine di poterne effettuare una verifica a posteriori. Cercare di dettagliare il percorso produttivo di rispetto climatico intrapreso dall’azienda esplicitando modalità, tempi e obiettivi intermedi che la stessa si pone al fine di consentire a chi legge di verificare se ciò che l’azienda ha fatto o che intende fare sia davvero sostenibile e ragionevolmente raggiungibile. Occorrerebbe cercare di dettagliare le metodologie di misurazione degli esiti ottenuti (c.d. percormance) e fornirne una chiave di lettura chiara ed univoca, al fine di rendere trasparenti i processi di sostenibilità ed i risultati conseguiti dall’azienda e permettere ai consumatori ed agli investitori di fare scelte consapevoli. Un ulteriore aspetto da curare e da approfondire si trova nel cercare di dettagliare le fonti, la tipologia dei dati e le metodologie di raccolta delle informazioni che l’azienda segue per permetterne la verifica circa il grado di affidabilità. È bene poi che la verifica degli obiettivi conseguiti sia assegnata a enti terzi certificatori che abbiano i requisititi e le autorizzazioni necessarie per svolgere tali attività in modo professionalmente trasparente e autonomo e possano così trasferire ai consumatori degli apprezzamenti indipendenti circa le politiche strategiche intraprese delle aziende produttrici. In tal modo le aziende potranno comunicare in maniera accurata le informazioni necessarie per rendere consapevoli i propri consumatori, aiutandoli nel compiere una scelta verso i prodotti più meritori e rispettosi dell’ambiente, e gli investitori, indirizzandone i finanziamenti verso le filiere più attente al rispetto climatico. La necessità di ottenere certificazioni da terze parti indipendenti rappresenta un aspetto che le aziende non dovrebbero sottovalutare e che consumatori e investitori dovrebbero potenziare; è infatti la pressione che i vari portatori di interessi hanno che consente alle imprese di comprendere l’importanza delle valutazioni esterne nella catena del valore. Esse permettono di spingere vero percorsi di sostenibilità per garantire una trasparente e veritiera aspettativa di vantaggi in ragione del potenziamento della reputazione, competitività ed efficientamento dei costi aziendali in favore di attività green ed acquisti ed investimenti consapevoli verso i beni/servizi più meritori.  
Cerchiamo, ognuno di noi, nel nostro piccolo di non cedere a false ed illusorie promesse propinateci da sbrigative ed effimere campagne pubblicitarie. Non ci fermiamo alla superficie dei problemi, cerchiamo di diventare attenti ed informati analisti delle situazioni che ci circondano!

IL GREENWASHING: UN’ANALISI GENERALE

di Alessandra Di Giovambattista

 09-11-2023 

Da anni ormai, il mondo scientifico ci avvisa del repentino cambiamento climatico che coinvolge il pianeta: ciò in parte è da imputare all’azione dell’uomo, che mai come in questi ultimi decenni ha utilizzato in modo sempre più massiccio ed anche in modo poco attento le risorse del pianeta, in parte al sistema climatico stesso che sempre si è modificato, ad ondate più o meno regolari, per cercare di ritrovare un equilibrio rispetto ai fattori di cambiamento ambientale ed in risposta alle sollecitazioni indotte dalle attività umane. Indubbiamente molto del problema è nell’uso massiccio dei combustibili fossili, ma molto è da imputare anche a sprechi per alimentare spesso beni e servizi di poca utilità (si pensi al costo per energia per mantenere città come Las Vegas il cui fine è legato al solo e puro divertimento) oppure per foraggiare la sete di potere di determinate Nazioni (nessuno ha mai voluto fare un calcolo in temini di impatto ambientale, al di là del danno umano che è incalcolabile, ingiustificabile e insanabile, delle guerre oggi presenti in più parti della terra. Ci sarò un perché? Nessuno però se lo chiede), o ancora per puro interesse economico, legato alla massimizzazione del profitto, di pochi soggetti (si pensi al costante disboscamento della foresta Amazzonica; possibile che non si riesca ad arginare il grande potere delle multinazionali che manovrano ormai tutti i settori economici?).

A fronte di questa drammatica situazione assistiamo ai tentativi di molte aziende di mostrarsi al mercato dei consumatori nella veste di soggetti sensibili ed impegnati nelle questioni ambientali. Questi comportamenti trovano terreno fertile soprattutto nel mercato italiano in cui il numero dei consumatori attenti all’ambiente tende sempre più a crescere. In una ricerca del 2022 condotta dalla rivista Altroconsumo si legge che su 13 Nazioni analizzate, l’Italia si posiziona al sesto posto per quanto riguarda l’indice di stile di vita sostenibile. Risulta che noi italiani, probabilmente anche per un fatto culturale, adottiamo comportamenti sostenibili soprattutto nel rapporto con il cibo, preferendo frutta e verdura di stagione e alimenti a c.d. chilometro zero con la finalità di evitare sprechi alimentari. Anche nel settore non alimentare cerchiamo di preferire l’acquisto di prodotti di qualità che siano utilizzabili più volte e che siano riparabili e riadattabili.

Diversi analisti hanno evidenziato che i cambiamenti climatici hanno ed avranno un impatto sulla domanda di beni e servizi e che modificheranno i comportamenti dei consumatori che rivolgeranno la propria domanda a favore di acquisti rispettosi degli obiettivi ecologici. E’ evidente quindi come le aziende abbiano a cuore che i consumatori percepiscano la loro politica eco compatibile; ma come si può essere sicuri che i prodotti acquistati siano effettivamente rispettosi dell’ambiente? In altre parole le aziende stanno attuando strategie che implichino un serio ed effettivo impegno in tal senso? Ecco che da un po’ di tempo ci troviamo in realtà di fronte a pratiche che la dottrina ha definito con il c.d. termine “greenwashing”, che si sostanzia in un ambientalismo di pura forma, di pura facciata.

Vediamo meglio: molti dei prodotti che oggi acquistiamo sono accompagnati da frasi che riconducono ad aspetti ecologici e che inducono a credere che quella specifica azienda utilizzi processi e prodotti rispettosi dell’ambiente e che cerchi di contrastare i cambiamenti climatici. Il più delle volte, tuttavia, ci si trova di fronte a enunciazioni esclusivamente pubblicitarie, senza che in sostanza vi siano delle vere scelte strategiche da parte delle aziende, a favore dell’ambiente: si parla quindi del c.d. greenwashing. Questo termine nasce come crasi di due parole inglesi: green, cioè verde - aggettivo usato per indicare situazioni e questioni legate all’ecologia - e washing, letteralmente pulire che però, applicato alle strategie aziendali, si può tradurre in nascondere, coprire. Più in generale quindi un’azienda, un marchio o un c.d. brand che fa greenwashing in realtà sta utilizzando una tecnica di marketing e di comunicazione che induce i consumatori a credere che le proprie attività ed i propri prodotti siano totalmente rispettosi dell’ambiente e che l’azienda stessa sia attivamente impegnata in campagne pro ambiente; il più delle volte, invece, la realtà è che sta solo coprendo (washing) l’impatto ambientale negativo che la propria filiera produce.

Quindi siamo di fronte a situazioni che ci presentano aziende, nei più disparati settori, che cercano di costruire ad arte un’immagine della propria attività rispettosa dell’ambiente in considerazione della maggiore propensione dei consumatori all’acquisto di beni e servizi rispettosi della natura. A dirla tutta, in realtà il fenomeno non è nuovo, il primo a definirlo fu l’americano Jay Westerveld, ambientalista; egli nel 1986 evidenziò che la pratica delle catene alberghiere di chiedere ai propri clienti di riutilizzare più volte gli asciugamani per motivazioni di impatto ambientale, aveva in realtà come unico scopo quello di ridurre i costi di gestione. Infatti nessuno ha effettivamente approfondito il problema, di come di fatto poi fosse attuato il processo generale e complessivo di lavaggio della biancheria: con quali prodotti, se biodegradabili o meno, con l’utilizzo di macchinari ad alto o basso assorbimento di energia ed acqua, con prodotti dannosi ed allergizzanti per le persone, con il rispetto dell’equa distribuzione dei vantaggi connessi all’attività economica svolta. Ecco questo è un classico caso di messaggio di forte impatto etico sul consumatore che però non è stato assoggettato ad una rigorosa verifica del fine palesato, cioè quello di attuare una strategia produttiva effettivamente green.

Successivamente nel 2008 si utilizzò un termine forse ancora più rappresentativo del problema qui individuato, il c.d. green sheen, cioè letteralmente: abbaglio, quindi un vero e proprio malinteso del consumatore che lo induce allo sbaglio, all’errore nel considerare ecologico un bene/servizio presente sul mercato. A volerla dire con Valentina Furlanetto, nel suo libro “L’industria della carità” il significato di greenwashing può essere così rappresentato “appropriazione indebita di virtù e di qualità ecosensibili per conquistare il favore dei consumatori o, peggio, per far dimenticare la propria cattiva reputazione di azienda le cui attività compromettono l’ambiente»

In via generale si può evidenziare che nella comunicazione greenwashing si possono individuare le seguenti caratteristiche: - non ci sono informazioni approfondite che supportino quanto indicato nelle etichette e nei messaggi pubblicitari; - i dati sono dichiarati come certificati, tuttavia l’ente certificatore non è riconosciuto come organo autorizzato e quindi non garantisce le c.d. “procedure autorizzative ambientali”, cioè quelle che assicurano che l’attività aziendale sia compatibile con le condizioni per uno sviluppo sostenibile (come enunciato nel Decreto legislativo 152 del 2006); - enfatizzazione di singole e marginali caratteristiche del prodotto con affermazioni ambientali anche false; - le informazioni sono generiche e spesso fuorvianti per il consumatore; - utilizzo di etichette false o contraffatte.  

Con uno sguardo verso gli acquisti delle generazioni più giovani si riscontra che spesso il criterio economico non è l’unico utilizzato e spesso la condivisione dei valori espressi dai vari marchi può fare la differenza. Si è visto infatti che ci sono giovani consumatori che comprano le firme che ad esempio sostengono i rifugiati, oppure che hanno gli imballaggi privi di plastica, o anche che svolgono campagne a favore dell’eliminazione del divario lavorativo tra maschi e femmine, o a favore della salute femminile, o ancora che sostengono l’aborto ed i diritti delle comunità il cui orientamento sessuale non rientra nella classica suddivisione maschio/femmina (c.d. comunità LGBTQ+). Si assiste quindi alla pratica seguita da alcune aziende dei vari settori che per attirare consumatori, specialmente giovani, costruiscono un’immagine di sé stesse attivamente coinvolta nella difesa o prevenzione delle citate situazioni sociali, per cui si sono coniate anche altre parole, come ad esempio quelle c.d. di pinkwashing (a favore del genere femminile in termini di rispetto ed inclusione), genderwashing (a tutela delle pari opportunità) o anche di rainbowwashing (a favore delle comunità LGBTQ+).

Certamente se è possibile riscontrare simili situazioni è perché le normative in vigore non sono stringenti, siamo di fronte alla mancanza di regole certe e applicabili in ambito sia nazionale sia internazionale. Di fronte ad un mercato globale anche le norme dovrebbero coinvolgere più paesi ed essere armonizzate; invece la poca chiarezza e trasparenza rende le tecniche di abbaglio ed induzione all’errore dei consumatori ancora più forti e spesso irriconoscibili. In particolare il messaggio pro natura è spesso poco chiaro e si basa sull’uso di un linguaggio vago ed approssimativo, o all’opposto molto tecnico tanto da risultare quasi incomprensibile, o anche su immagini suggestive con soggetti ed ambienti che richiamano la natura ed inducono a pensare che il prodotto/servizio proposto rispetti davvero i parametri ecologici.

Quindi siamo di fronte ad un’oggettiva difficoltà a riconoscere e capire quanto un’azienda prenda sul serio il problema ambientale e quanti dei suoi proclami siano veramente credibili e fondati su oggettive strategie produttive rispettose dell’ambiente. Oggi capire se si è di fronte ad una pratica di greenwashing è sempre più complicato, soprattutto a causa della facilità e superficialità con cui vengono proposte delle politiche pro ambiente spesso non verificabili a priori, proprio in mancanza di normativa di settore nazionale ed internazionale. Il New Climate Institute ha analizzato gli obiettivi ecologici di 25 multinazionali; secondo quanto comunicato da queste aziende nel 2019 esse hanno contribuito alle emissioni di gas serra per una percentuale pari al 5% delle emissioni a livello mondiale. Tuttavia solo 13 delle 25 aziende spigano nel dettaglio i piani strategici per ridurre le emissioni del 40% circa, laddove il termine “emissioni zero” - che è poi l’obiettivo che ci si è posti per il 2050 - implicherebbe la riduzione del 100% (con l’espressione emissioni zero si intendono le emissioni inquinanti nette, cioè si arriva alla neutralità carbonica quando i gas serra immessi nell’ambiente sono di pari quantità rispetto a quelli che si riescono ad eliminare). Nello studio si evidenzia che solo 3 (Maersk, Vodafone e Deutsche telekom) delle 25 aziende multinazionali hanno obiettivi seri di decarbonizzazione dei processi, in quanto puntano ad un taglio del 90% delle emissioni nei tempi indicati. In definitiva le altre si impegnano a ridurre del solo 20% le emissioni e non accompagnano le loro affermazioni con piani strutturati e con una tavola delle modifiche nel tempo. Si può quindi concludere che, almeno queste aziende prese a base dell’analisi, non sono assolutamente allineate agli obiettivi climatici dell’agenda internazionale; solo alcuni pochi soggetti si stanno realmente impegnando.

Tornando al problema legislativo si evidenzia che nel marzo del 2023 la Commissione europea ha proposto nuovi criteri comuni per arginare il fenomeno del greenwashing e delle asserzioni ecologiste ingannevoli. Il Parlamento europeo li ha poi approvati a maggio 2023. L’obiettivo della Commissione è quello di arginare il problema in quanto, da uno studio condotto dalla stessa Commissione, è risultato che il 53,3% delle affermazioni ambientali da parte delle aziende sono vaghe, fuorvianti o infondate e che il 40% è del tutto infondato e falso. La proposta contiene norme più stringenti sull’uso e sul controllo della veridicità di affermazioni ambientaliste nonché il divieto generale di pubblicità ingannevole. Al fine di valutare se un comportamento è ingannevole, e come tale se può indurre i consumatori nell’errore, è stato formulato un concetto di greenwashing molto stretto e che per valutarne l’effettività occorre individuare due aspetti: l’intenzionalità di fuorviare o indurre in errore il destinatario della dichiarazione di sostenibilità mediante pratiche o enunciazioni ingannevoli e la grave negligenza da parte degli operatori che affermano pratiche o strategie sostenibili in maniera non approfondita e poco chiara, anche qualora non sia ravvisabile l’intenzionalità di fuorviare il consumatore. Altri paesi come l’Australia, Singapore e gli Stati Uniti d’America hanno predisposto delle guide anti-greenwashing che aiutano i consumatori ad essere più consapevoli delle proprie scelte.

L’auspicio è che si riesca a far chiarezza sui veri responsabili dei repentini cambiamenti climatici e che le aziende siano maggiormente controllate nei loro effettivi obiettivi e strategie intraprese perché la posta in gioco è molto alta e occorre porre rimedio nell’immediato senza lasciare spazio ad enunciati ipocriti e falsi; forse sarebbe importante iniziare ad agire anche con il cuore, soprattutto per tutelare le generazioni future!