BIFF

Primo articolo su BIFF

Il Busan International Film Festival ha avuto inizio il 4 ottobre con una impeccabile cerimonia di apertura e la proiezione del film "Because I hate Korea" del regista Jang Kun-Jae e si è concluso il 13 ottobre, con la cerimonia di chiusura e la proiezione del film “The Movie Emperor” del regista cinese Ning Hao. Si tratta di un Festival imponente nelle dimensioni, con riferimento all’offerta non solo delle visioni, ma anche e soprattutto delle risorse dedicate alla produzione cinematografica, in termini di possibilità di contatti, accordi e finanziamenti. Una vetrina molto ambita, quindi, per tutti coloro che operano nel settore cinematografico, sia per introdurre il proprio film e quotarlo attraverso la risposta del pubblico, sia per trovare fondi e collaborazioni per il prossimo progetto.

Si sono tenute varie presentazioni di gala, con le proiezioni ed eventi sul tappeto rosso, durante i quali gli spettatori hanno avuto la possibilità di vedere i registi e gli attori di persona, tra cui “Green Night”, del regista di Hong Kong Shuai Han, “Monster”, dell'autore giapponese Hirokazu Kore-eda e “The Beast” del regista franco-canadese Bertrand Bonello.

Numerosi i titoli in programma, non solo di produzione orientale, ma anche nordamericana ed europea. Per l’Italia erano presenti Nanni Moretti con “Il Sole dell’avvenire” (A Brighter Tomorrow), Marco Bellocchio con “Rapito”(Kidnapped) Stefano Sollima con “Adagio”, Saverio Costanzo con “Finalmente l’Alba” (Finally Dawn), Andrea Di Stefano con “L’ultima notte d’Amore”(The Last Night of Amore), Alice Rohrwacher con “La Chimera”, Alain Perroni con “Una sterminata Domenica” (An Endless Sunday). Nelle varie sezioni in cui era articolato il festival si trovavano nomi importanti anche di altri Paesi occidentali, come Wim Wenders, presente con “Anselm” e Luc Besson con il film “Dogman”. Il Busan International Film Festival tuttavia si conferma come il più importante evento rivolto al cinema asiatico, offrendo una corposa proposta di produzioni orientali, con un focus sulla rinascita del cinema indonesiano.

Tra gli eventi organizzati dal Festival, ricordiamo due incontri speciali con i registi Lee Chang-dong, avente a tema il suo famoso “Poetry” (2010), e Ryusuke Hamaguchi, di nazionalità giapponese, incentrato sul suo nuovo lavoro “Evil Does Not Exist”, nonché la masterclass con il regista di documentari giapponese Kazuo Hara, specializzato nel riprendere storie di persone con disabilità o coloro che “si spingono oltre i confini della correttezza e dell’obbedienza nella società giapponese” (New York Times).

Forte richiamo hanno esercitato, oltre alla possibilità di vedere una grande quantità di film in anteprima mondiale, le interviste che seguivano le proiezioni, rilasciate dai registi o dagli attori in presenza, e gli “Open Talk”, incontri svolti nell’arena all’aperto, senza biglietto d’ingresso, che hanno portato sul palco i membri principali dei vari cast. Tra questi eventi ricordiamo l’incontro con il cast di ”Hopeless”, il nuovo film che annovera tra i protagonisti Song Joon-ki (“Vincenzo”, Netflix).

Grande l’interesse suscitato anche dai quattro incontri della sezione Actor’s House, questi con prenotazione a pagamento, della durata di circa 40 minuti: spazi in cui l’attore, dopo una breve introduzione del conduttore, si è reso disponibile a rispondere a domande formulate principalmente dal pubblico in un clima informale e amichevole.
I protagonisti di questi incontri sono stati l’attore coreano americano John Cho (“American Pie”, dei fratelli Weitz, “Solaris” di Steven Soderbergh, serie riavviata di Star Trek, adattamento Netflix di “Cowboy Bebop), presente al festival con il film del 2018 “Searching”, del regista Aneesh Chaganty, riproposto nell’ambito della sezione incentrata sulla Diaspora del cinema coreano nel mondo, Song Joon-Ki, attore molto conosciuto e amato in Corea e in Estremo Oriente, e le attrici Youn Yuh-jung, vincitrice dell’Oscar alla miglior attrice non protagonista nel 2021 con il film “Minari” e Han Hyo-joo (“20th Century Girl” di Bang Woo-ri, “Believer 2” di Baek Jong-yul).
Purtroppo, il servizio di interpretariato è stato offerto solo quando sul palco erano presenti ospiti stranieri, quindi, nella sezione Actor’s House, solo per l’intervista di John Cho, che ha presentato il suo libro “Troublemaker”, edito nel 2022.


Il libro di Cho, classificato come testo per ragazzi, segue gli eventi dei disordini di Los Angeles del 1992 attraverso gli occhi di un ragazzo di 12 anni, che affronta la scuola e la famiglia, fornendo una prospettiva unica, quella coreano-americana, di un adolescente che sente di non poter essere all’altezza delle aspettative della famiglia, diversamente dalla sorella.
Cho ha spiegato come il libro sia stato partorito durante il lockdown del 2020 a New York, quando non potendo fare altro che pensare, aveva ripercorso gli eventi successivi all'assoluzione degli uomini videoregistrati mentre picchiavano Rodney King nel 1992, perché “allora sembrava che il conflitto fosse tra bianchi e neri, ma vi erano proprietà degli asiatici che venivano distrutte”. Anche allora, come durante la vicenda del Covid-19, gli asiatici in America sono stati fatti oggetto di aggressioni.
È stato chiedendosi come i suoi figli adolescenti avrebbero potuto spiegarsi gli eventi che stavano vivendo durante la pandemia, che Cho ha concepito il suo libro, nel quale risuona il tema tutto coreano delle aspettative della famiglia e della pressione cui si sentono sottoposti gli adolescenti coreani. Questo aspetto è molto presente nella cultura coreana e attraverso le parole di Cho si percepisce come per gli immigrati in America fosse ancora più marcato, dovendo la performance non solo assicurare un futuro al ragazzo in un mondo competitivo come quello americano, ma anche riscattare la condizione di immigrato, sia sua, sia, attraverso di lui, della intera famiglia.

Cho ha partecipato anche all’incontro svolto nell’ambito dello “Special Program in Focus: Korean Diasporic Cinema” insieme con i cineasti Steven Yeun (attore protagonista di “Minari”), Lee Isaac Chung (regista di “Minari”) e Justin Chon (“Twilight” saga).
Secondo Cho, la Corea sta subendo una trasformazione in termini di creazione di contenuti, con film e drammi coreani che ricevono sempre più attenzione. “Ci sono stati molti cambiamenti in molti settori e aree, ma la Corea in particolare sta attraversando un’era di trasformazione culturale”, ha affermato Cho, e “l’aumento dei contenuti coreani è molto significativo anche per i coreani della diaspora”.
Quello che maggiormente si nota, guardando i film proposti dal BIFF di quest’anno è che, come è stato detto in occasione dell’incontro sul cinema della diaspora, i registi coreani che non vivono in Corea sembrano essere “più coreani” di coloro che non hanno lasciato la Madrepatria. Forse per questo, è stato fatto notare, un film come “Minari”, nel quale si avverte lo stridore tra la cultura coreana di provenienza e quella americana di arrivo, ha ricevuto molti premi ma nessuno di questi è coreano.
Nel tempo, è stato detto, si è creato uno iato tra la comunità coreana in Nordamerica e il Paese di origine: se da un lato il cibo coreano in America ha un sapore diverso da quello che si trova in Corea perché si è “americanizzato”, dall’altro l’idea della cultura coreana che conservano i coreano-americani sembra essere ferma all’epoca della migrazione, mentre la realtà coreana sta rapidamente cambiando sotto tutti i punti di vista.

Il timore che avverte chi apprezza la cultura coreana e le sue esternazioni, dal cinema alla musica, all’arte, è che la società coreana si stia in realtà “americanizzando” e che, proprio come il cibo degli immigrati negli Stati Uniti, possa perdere il suo tipico sapore. È questo un dibattito aperto nella società coreana, che ha trovato spazio anche sulle pagine di blogger molto seguiti.
Quanto al Busan International Film Festival, si può dire che, in effetti, durante l’intero corso della manifestazione si è avvertita una scarsa attenzione per gli spettatori internazionali, essendo mancata la traduzione in numerosi ed importanti eventi. Addirittura, in alcuni casi la traduzione in inglese veniva effettuata senza microfono, ad uso esclusivo dell’ospite, lasciando alla platea internazionale la fruizione solo delle risposte. Un’organizzazione piuttosto singolare per un Festival che si pregia di qualificarsi come “Internazionale”. Tuttavia, è legittimo pensare che proprio questa scarsa attitudine alla comunicazione con gli stranieri sia ciò che ha preservato finora, in un mondo così fortemente globalizzato, le caratteristiche particolari di questa cultura e, in fin dei conti, questo è ciò che ci lascia sperare che la Corea riesca a preservare le sue specificità, senza trasformarle in folklore per appiattirsi sulle richieste, sempre più pressanti, del pubblico occidentale.
Pertanto, nonostante la frustrazione di non aver potuto proficuamente condividere larga parte degli eventi organizzati dal BIFF, ritengo sia andata bene così. Meglio dover imparare il coreano, per quanto difficile possa essere, per raggiungere una realtà che è unica, con tutte le contraddizioni che la caratterizzano nel modo di recepire il mondo contemporaneo e di interpretarlo, piuttosto che conquistare senza sforzo, attraverso la sua internazionalizzazione, un mondo che, fatalmente, per risultare facilmente fruibile finirebbe con il perdere le proprie peculiarità.