UN BREVE APPROFONDIMENTO ECONOMICO DEL PIANO MATTEI

di Alessandra Di Giovambattista

 

A ridosso delle crisi energetica e dei flussi migratori e con un’attenzione particolare al quadro geopolitico attuale, il Governo italiano ha varato il decreto legge n. 161 del 15 novembre 2023 contenente “Disposizioni urgenti per il “Piano Mattei” per lo sviluppo in Stati del Continente africano” convertito con modificazioni in legge n. 2 dell’11 gennaio 2024. L’ossatura del programma si fonda sulla condivisione degli obiettivi tra Stati, essendo di fatto un piano di partenariato, cioè un progetto basato su interventi volti, in prima analisi, a coadiuvare il continente africano a crescere e a prosperare utilizzando le sue stesse risorse. Il riferimento già nel titolo all’economista Enrico Mattei, sottolinea l’effettivo contenuto dell’atto che si basa sull’applicazione dei principi che ispirarono il pensiero socio economico del grande capitano d’azienda, fondatore nel 1953 dell’Ente Nazionale Idrocarburi (ENI), il quale mirava a rafforzare il partenariato tra l’Italia ed alcuni Paesi africani nel rispetto degli interessi reciproci.

Per entrare nella tematica partiamo da un’analisi statistico-quantitativa: le relazioni commerciali nel 2022 tra Italia ed Africa, secondo i dati dell’Istituto per il Commercio Estero (ICE), registrano un ammontare complessivo pari a circa 68 miliardi di euro. Le importazioni italiane dall’Africa generano scambi che ammontano a circa 47 miliardi di euro essenzialmente diretti per l’acquisto di materie prime collocando, in tal modo, il nostro Paese al secondo posto tra i Paesi del mondo per importazioni di prodotti africani, mentre per i prodotti esportati verso l’Africa - sostanzialmente macchinari per impieghi vari, materiale elettrico e prodotti farmaceutici - l’Italia si colloca all’undicesimo posto con un valore di scambi pari a circa 21,3 miliardi di euro. I maggiori Stati africani fornitori dell’Italia sono: Algeria, Libia, Egitto nella zona del Magreb, mentre Angola, Mozambico, Gabon, Ghana e Congo nella parte sud Sahariana. Analizzando però il potenziale che l’Africa presenta, si potrebbero incrementare gli scambi, che a ben vedere, presentano una certa staticità in quanto dal 2012 al 2022 l’export italiano è passato da 19 miliardi di euro agli indicati 21,3 miliardi (con un tasso di incremento del 12% circa in 10 anni), mentre nello stesso periodo di tempo l’import italiano è passato da 35,2 miliardi di euro ai citati 47 miliardi (con un tasso di incremento del 33,5% circa in dieci anni).

Con riferimento invece agli investimenti italiani si rammenta che nel 2015 l’Italia risultava il primo investitore assoluto verso l’Africa, mentre nel 2016 è stato il primo investitore europeo. Tali dati, però, soffrono del fatto che i costi italiani per beni e servizi pluriennali hanno rappresentato progetti in settori a forte investimento di capitali (c.d. capital intensive); il più importante di questi settori è stato quello energetico. Le statistiche, trainate dalle capacità di politica industriale dell’Ente Nazionale Idrocarburi (ENI), che si pone come primo operatore dell’Oil & Gas in Africa, risentono molto degli investimenti dell’ente in territorio africano: dell’ammontare complessivo degli investimenti del 2015, pari a circa 7,4 miliardi, oltre 6 miliardi sono stati investiti da ENI nel progetto di sviluppo del gas naturale nel giacimento del Zohr in Egitto. Invece i dati degli ultimi anni, in particolare quelli relativi al 2021, confermati anche dalla Banca d’Italia e dall’Istat, registrano una contrazione degli investimenti italiani in Africa per circa 1 miliardo di euro; ciò è però la risultante di un complesso di cause che hanno riguardato un po’ tutte le nazioni: la pandemia da Covid-19, i conflitti in diverse aree del mondo, il rialzo dei tassi di interesse.

È anche per questo che il recente decreto-legge, che dovrebbe incentivare gli investimenti ed il partenariato con diversi Paesi africani, è visto con favore perché potrebbe rappresentare la chiave per creare quel substrato economico e sociale che incentivi le piccole medie imprese italiane ad investire nei territori dell’Africa. Ormai la concorrenza nel continente africano è forte e proviene da diversi Paesi: Cina, Stati Uniti d’America, Turchia, Israele, Brasile e gli investitori italiani lamentano, da una parte, la quasi inesistente presenza delle grandi banche italiane e dall’altra la diffidenza dovuta alla forte instabilità sociopolitica della maggior parte dei Paesi africani. Un atteggiamento di partenariato con i Paesi dell’Africa potrebbe aprire un varco affinché le aziende italiane possano presentarsi sul mercato africano ricche di conoscenze ed esperienze tecnico-produttive (c.d. know how) per aggiungere valore e trasformare merci e servizi da vendere prima di tutto nel continente stesso e per incentivare il libero mercato interno, peraltro già individuato nell’area di libero commercio africana (African Continental Free Trade Area - AfCFTA).

A ben vedere e seguendo una logica di sviluppo equilibrato, il modello della piccola media impresa italiana ben si sposa con il percorso iniziale di una classe imprenditoriale africana; le conoscenze e la gestione delle intere filiere produttive, l’utilizzo di macchinari, le tecnologie e le esperienze strategiche che le piccole medie imprese italiane possiedono rispetto alle grandi multinazionali, potrebbero di fatto segnare la differenza. In particolare potrebbero aiutare a far decollare un’imprenditoria locale che potrebbe riscattarsi dagli interessi delle nazioni predatrici ed incentivare la crescita ed il benessere economico delle popolazioni indigene, il tutto nel rispetto dei territori, delle tradizioni e delle culture. E in quest’ottica il decreto legge può forse essere letto come un atto che potrebbe offrire un possibile scenario di recupero della presenza italiana in questi territori che, secondo il pensiero di Enrico Mattei, deve essere collaborativa e rispettosa dei reciproci interessi.

Nella strategia aziendale di Mattei era molto forte l’approccio anticolonialistico: il Paese africano produttore di materie prime era coinvolto nelle fasi di produzione e sviluppo industriale, ben al di là della semplice figura di uno Stato con un territorio che veniva sostanzialmente sfruttato dai Paesi colonizzatori. Dal punto di vista storico si ricorda che Enrico Mattei fu un importante alleato della rivoluzione algerina, soprattutto per la fiducia che manifestò nel futuro stato indipendente dell’Algeria, optando per lo sfruttamento del petrolio algerino a condizioni molto più eque rispetto a quelle che venivano praticate dalle grandi compagnie petrolifere mondiali che si ritagliavano la fetta maggiore dei profitti. Ovviamente per i potenti Stati soggiogare economicamente un Paese ricco di risorse, in virtù di pseudo diritti alla libertà e alla democrazia e di un non ben giustificato diritto al colonialismo, significa gestirne il governo, lo sviluppo e la crescita culturale e sociale, con l’obiettivo di renderlo sempre più debole e riconoscente nei confronti di un discutibile benessere garantito dallo stato colonizzatore e dalle sue imprese.

Di fatto il piano Mattei di sviluppo dell’Africa si avvantaggiò, inizialmente, del disinteresse da parte delle multinazionali energetiche le quali non credendo nello sviluppo economico del continente africano, guardavano più verso il medio oriente. Enrico Mattei ebbe l’intuizione di creare un sistema africano di raffinazione degli idrocarburi basato su compagnie miste partecipate da Eni e dai Governi locali; la nuova idea si basava sulla necessità che l’uso della materia prima “petrolio” beneficiasse non solo, e in prima battuta, i Paesi produttori, migliorandone la qualità della vita, ma anche i Paesi consumatori. In tal modo si creava anche un nuovo approccio nei rapporti tra occidente industrializzato e Stati poveri: Mattei pensò alla c.d. formula 75/25 che esprimeva le quote di distribuzione degli utili; la percentuale più alta andava ai Paesi produttori, mentre la quota più bassa era di pertinenza dell’Eni. La nuova formula prevedeva a fianco del pagamento dei diritti di sfruttamento del petrolio (le c.d. royalties che pagavano anche gli altri competitors) anche il coinvolgimento del Paese produttore, per la quota del 50%, negli investimenti per la produzione e lo sviluppo delle proprie risorse. Il risultato era quello, da una parte, di considerare in modo paritario lo Stato produttore e quello utilizzatore della materia prima, in un approccio fondamentalmente anticolonialistico, e dall’altra di non subire perdite in termini di rendimento del capitale investito rispetto alla formula storicamente adottata dalle multinazionali. Questa modalità di suddivisione degli utili, confliggendo con quella consolidata dalle “sette sorelle” (espressione creata da Mattei stesso per indicare l’allora Consorzio per l’Iran) del 50/50, cioè la divisione egualitaria tra Paesi produttori e società utilizzatrici del petrolio, creò molto risentimento tra le multinazionali - quindi Stati Uniti e Gran Bretagna - ed ENI, cioè l’Italia, nella persona di Mattei. Per Enrico Mattei questo voleva significare anche un inizio di ricostruzione di un’Italia sull’idea di indipendenza dalle potenze atlantiche; ma questo purtroppo si scontrava con forti interessi esterni ed interni all’Italia stessa, una nazione che ha sempre avuto al suo interno forti contrasti localistici ed un atteggiamento di prostrazione di fronte al potere estero.

Fu così che, nel 1957, la formula Mattei del 75/25 prese vita nel medio oriente attraverso la costituzione della società partecipata tra Agip e il Governo Iraniano (société Irano-Italienne des pétroles) distribuita per il 51% agli italiani e per il 49% all’Iran - sodalizio che provocò un grande scontro con le grandi compagnie petrolifere. Ma prima ancora nel 1954 fu creata nella zona del nord Africa la società tra ENI e l’Egitto (Compagnie Orientale des pétroles d’Egypte) il cui 51% era detenuto indirettamente dall’Italia ed il restante 49% da enti pubblici egiziani. Da sottolineare che la partenership italo-egiziana vedeva l’impiego di mano d’opera locale nel settore impiegatizio, amministrativo ed operaio, mentre le posizioni dei quadri tecnici erano lasciate agli italiani. Ovviamente non sempre le cose andavano per il verso giusto, come nel caso in cui, nel 1960, la quantità di greggio esportato dall’Egitto in Italia e destinato alle raffinerie dell’Eni si ridusse ad 1/5 rispetto alle esportazioni del 1959. Tuttavia la collaborazione con l’Egitto continuò e si estese dal settore petrolifero a quello petrolchimico, industriale, della progettazione di infrastrutture e dei lavori pubblici sul suolo egiziano. Questo progetto prevedeva investimenti italiani per circa 30 miliardi delle vecchie lire da restituire ad un tasso di interesse del 4,5% annuo da pagare in valuta o in greggio; fu così che gli impianti di raffinerie di Gela arrivarono a lavorazioni di greggio per una quantità pari a circa 1,8 milioni di tonnellate.

Ma non solo, effetti benefici si ebbero anche in termini di prezzi, che furono mantenuti bassi rispetto ai prezzi praticati dalle grandi compagnie petrolifere anglo-americane; nel 1960 il prezzo della benzina in Italia era il più basso in Europa. Enrico Mattei si prodigò in un’opera di modernizzazione dell’Italia realizzando le stazioni di servizio per la distribuzione del carburante, con annessi bar, impeccabili servizi igienici e diversi motel Agip. I lavoratori dei distributori controllavano olio e gli altri liquidi utili per la miglior resa dei motori. Un mercato degli idrocarburi che aveva dato lavoro, prestigio e ricchezza in un’Italia che provava a rialzarsi dopo la grande sconfitta della seconda guerra mondiale.

Poi purtroppo l’architettura di politica industriale e sociale creata da Mattei crollò con la sua prematura scomparsa, nell’ottobre del 1962, in un incidente aereo le cui cause rimasero oscure per decenni…. Ma questa è un’altra storia!