23-12-2023
 
 
VERSO IL RICONOSCIMENTO DELL’AUTONOMIA DIFFERENZIATA
di Alessandra Di Giovambattista

Il terzo comma dell’articolo 116 della Costituzione italiana prevede che particolari materie di legislazione concorrente (come ad esempio l’istruzione, la tutela dell’ambiente e dei beni culturali) possano essere attribuite alle Regioni a statuto ordinario, dietro loro richiesta e sulla base di un’intesa tra Stato e Regione stessa. La legge che attribuisce la c.d. autonomia differenziata, deve essere approvata a maggioranza assoluta dei componenti del Parlamento.
Il 28 febbraio 2018 il Governo Gentiloni ha sottoscritto tre accordi preliminari con altrettante regioni: Emilia Romagna, Lombardia e Veneto che hanno fatto formale richiesta di riconoscimento delle forme di autonomia differenziata. Gli accordi sottoscritti dispongono che i patti debbano avere una durata decennale, modificabile in qualsiasi momento, di comune accordo, qualora si verifichino condizioni che ne giustifichino la revisione. Le materie di trattativa sono la tutela dell’ambiente e dell’ecosistema, la tutela della salute, l’istruzione, la tutela del lavoro, i rapporti internazionali e con l’Unione europea, con la possibilità di estensione ad altre materie. In particolare l’accordo con la regione Lombardia prevedeva, a differenza delle altre due regioni, la possibilità di poter decidere anche in tema di coordinamento con la finanza pubblica e con il sistema tributario, nonché di occuparsi del governo del territorio.
Successivamente nell’estate del 2018, durante il primo Governo Conte, tutte le tre Regioni hanno manifestato l’intenzione di ampliare il novero delle materie da trasferire. Ad esse si sono poi aggiunte altre Regioni che pur non avendo sottoscritto alcuna forma di intesa preliminare hanno espresso la volontà di ottenere ulteriori forme di autonomia; in particolare sono pervenute al Governo le richieste da parte di Piemonte, Liguria, Toscana, Umbria, Marche e Campania.
A febbraio del 2019 il Ministro per gli affari regionali ha illustrato i contenuti delle intese tra Governo e Regioni Veneto, Emilia Romagna e Lombardia, aprendo così un ampio dibattito tra le parti in causa. Le problematiche oggetto di analisi ed approfondimento hanno riguardato, tra le altre, le modalità di coinvolgimento degli enti locali, il ruolo del Parlamento e la possibilità di poter presentare emendamenti al disegno di legge che contiene gli accordi e la determinazione dell’ampiezza delle materie da attribuire. Al fine di poter effettuare una stima del valore delle competenze trasferite, sono stati definiti dei costi standard (cioè l’individuazione di costi unitari per effettuare una prestazione) e dei livelli essenziali di prestazione (LEP, cioè livelli minimi di prestazione che si vuole vengano garantiti su tutto il territorio nazionale al fine di escludere difformità di prestazioni a livello locale) con la finalità di definire la problematica di natura finanziaria. La definizione dei LEP ha trovato un posto anche tra le riforme previste nel Piano nazionale di ripresa e resilenza (PNRR) con scadenza nel marzo 2026.
Nel 2020, durante il secondo Governo Conte, è stato previsto di far precedere la stipula delle intese dall’approvazione di una legge-quadro che definisse le modalità di attuazione della autonomia differenziata, posizione che è stata confermata anche dal Governo Draghi che durante il 2021 ha lavorato per istituire una apposita Commissione con compiti di studio, supporto e consulenza. Tale Commissione ha fornito spunti di riflessione per una prima definizione del testo di disegno di legge-quadro; tuttavia nel 2022, alla fine della XVIII legislatura, il disegno di legge non è stato presentato.
Con la XIX legislatura, nella riunione del 15 marzo del 2023 il Consiglio dei Ministri ha approvato un disegno di legge che determina i principi generali per l’attribuzione di particolari forme di autonomia a favore delle Regioni a statuto ordinario. Tale disegno di legge, che contiene disposizioni per l’attuazione dell’autonomia differenziata, è stato presentato al Senato dove ha iniziato l’iter di esame presso la Commissione affari costituzionali nel maggio del 2023. Nello specifico si dispone che il procedimento di approvazione delle intese deve partire dalla Regione interessata, sentiti gli Enti Locali, e l’iniziativa può riguardare una o più materie; il negoziato tra Governo e Regione servirà per definire uno schema di intesa preliminare. Lo schema dovrà poi essere corredato di relazione tecnica (che espliciti e quantifichi oneri e/o minore o maggior gettito) e dovrà acquisire entro 30 giorni il parere della Conferenza unificata Stato Regioni. Nell’ambito delle intese tra Stato e Regioni dovrà essere indicata anche la durata dell’accordo che non potrà, in ogni caso, eccedere i 10 anni; esso potrà essere revisionato su iniziativa di una delle due parti. Alla scadenza del termine di durata dell’intesa essa si intende rinnovata per un altro decennio, salva diversa volontà dello Stato o della Regione, e ciò deve essere espressamente dichiarato almeno un anno prima della scadenza. Nell’eventualità che si vogliano attribuire nuove funzioni in ambito di diritti civili e sociali, garantiti su tutto il territorio nazionale, sarà necessario determinare prioritariamente i livelli essenziali delle prestazioni (LEP), al fine di assicurare efficacia ed omogeneità su tutto il territorio nazionale dei servizi prestati, nonché i costi e i fabbisogni standard, con lo scopo di monitorare l’efficienza dell’attività gestionale per evitare sprechi e disservizi. Il finanziamento dei livelli di prestazione sulla base dei relativi costi e fabbisogni standard viene attuato nel rispetto degli equilibri e della parità di bilancio così come previsto dalla legge di contabilità e finanza pubblica; infatti qualora dai nuovi livelli di prestazione dovessero derivare maggiori oneri per l’erario, si procederà al trasferimento delle funzioni a livello regionale solo dopo che saranno state individuate nuove o maggiori risorse che consentiranno di garantire il pareggio di bilancio. Sia lo Stato sia la Regione potranno poi disporre verifiche atte a valutare il raggiungimento dei livelli essenziali delle prestazioni.
Il 3 maggio del 2023 la Commissione affari costituzionali del Senato ha iniziato l’esame del disegno di legge per l’attuazione dell’autonomia differenziata; il successivo 6 giugno è stato definito il testo sulla cui base sono stati presentati alcuni emendamenti. Il termine ultimo è stato il 3 agosto, data in cui gli emendamenti dei relatori sono stati presentati per recepire le condizioni presentate dalla Commissione bilancio e sono così iniziate le votazioni sugli ordini del giorno. Quando sarà dato il benestare dalle Commissioni parlamentari la legge approderà in Parlamento; tuttavia prima di tale passaggio è necessario che una Cabina di regia stabilisca i livelli di LEP che serviranno a suddividere le diverse prestazioni, riconducibili alle differenti materie di interesse regionale, individuandone costi e fabbisogni standard.
Compreso così l’iter e la sostanza politica dell’autonomia differenziata non rimane che interrogarsi su quanto sia positiva ed inderogabile questa scelta; da più parti infatti ci si è domandato se rappresenti davvero una gestione controllata e più efficiente della spesa pubblica o se invece non significhi rimarcare ancora di più le differenze e le disuguaglianze tra Regioni più ricche e quelle meno prospere. Riassumendo l’autonomia differenziata consente alle Regioni a statuto ordinario di poter disporre autonomamente su materie di competenza concorrente con lo Stato ed in tre materie di competenza esclusiva; per finanziare tali attività le Regioni tratterrebbero una parte del gettito fiscale incassato sul proprio territorio, ma destinato all’Erario. Quindi questa parte di gettito non verrebbe più suddiviso a livello nazionale in ragione dei parametri di popolazione e di necessità locali. Questo tipo di autonomia, prevista dall’articolo 116 della Costituzione non è  mai stata attuata proprio per la delicatezza della questione che pone in campo le grandi differenze che esistono sul territorio italiano, in particolare con riferimento alla spaccatura tra nord e sud del Paese. Autonomie di questo genere sono considerate pericolose in quanto potrebbero acuire ancora di più le già presenti situazioni di disuguaglianza all’interno del territorio nazionale.
Naturalmente si annoverano soggetti a favore e soggetti contro; chi è a favore dell’autonomia differenziata basa le proprie considerazioni essenzialmente sul principio che sottolinea la necessità che la spesa pubblica sia strettamente collegata con la collettività che sopporta l’imposizione, secondo il concetto per cui: più è stretto il rapporto tra chi paga i tributi e chi spende le risorse e maggiore sarà il controllo con la conseguenza che sarà migliorato il livello di economicità e saranno minimizzati gli sprechi. Questa teoria si basa sullo stretto legame tra i politici locali, che conoscono il territorio sul quale governano, ed i cittadini che in esso vivono e che possono verificare e controllare direttamente il loro operato, decidendo al momento dell’espressione del voto. Inoltre i servizi necessari su un territorio saranno calibrati secondo gli effettivi bisogni, escludendo quindi costi basati sul criterio storico della spesa che non verifica le effettive necessità ma stima gli oneri pubblici in ragione di quanto fatto nel passato. Però prima di escludere il criteri della spesa storia sarà necessario implementare e quantificare i LEP che vanno garantiti su tutto il territorio nazionale.
Coloro che sono contrari a questa forma di autonomia sottolineano la sottrazione di risorse che andrebbero invece ripartite sul territorio nazionale per evitare una differenziazione dei servizi e delle infrastrutture ed una disgregazione del tessuto socio-economico nazionale. Essi si appellano anche ai principi costituzionali e di scienza delle finanze che richiamano la solidarietà politico, economica e sociale tra i contribuenti, ciascuno in base alla propria capacità contributiva, che deriva dal reddito complessivo prodotto (principio che ha determinato, per esempio, la progressività dell’imposta sul reddito delle persone fisiche, IRPEF). Un’attenzione particolare poi deve essere posta sui servizi pubblici strategici del paese: i trasporti, l’energia, la sanità, l’istruzione; è necessario che essi vengano forniti con uguale intensità e qualità su tutto il territorio nazionale al fine di evitare che territori più svantaggiati soffrano ancora di più, amplificando le differenze negative rispetto al resto del territorio. Infatti in un sistema di autonomia le risorse delle zone più ricche rimarrebbero circoscritte nel territorio aumentando le differenze non solo a livello nazionale ma anche all’interno delle Regioni stesse.
L’analisi macroeconomica evidenzierebbe che anche le Regioni ad autonomia differenziata sarebbero penalizzate perché l’economia nazionale, che si basa per una buona parte anche sulle produzioni del Mezzogiorno, di fronte a diversità socio-economiche si presenterebbe come un sistema complessivo zoppo, destinato al collasso. Non mancano poi economisti che sottolineano l’attuale inesistenza di un modello che possa verificare le capacità di gestione di una Regione rispetto allo Stato: siamo sicuri che le Regioni sappiano fare meglio e di più rispetto al Governo nazionale o che la frammentazione territoriale dei servizi ne migliori l’efficienza e l’efficacia? Senza un sistema collaudato di misurazione degli obiettivi e dei risultati, nonché senza politiche di controllo di gestione, ogni ipotesi rimane vacua e priva di fondamento. Da anni si chiede un esame a consuntivo della gestione della cosa pubblica; un simile controllo aiuterebbe a governare gli scostamenti e a ragionare in merito a possibili azioni correttive che, a prescindere dalla tipologia di politiche territoriali o nazionali, contribuirebbe a verificare e a garantire l’utilizzo economico delle risorse che ognuno di noi, a legislazione vigente, versa sia all’Erario sia agli Enti Locali.
 
 
 
 
 

 

LA FINANZA DELLE REGIONI A STATUTO SPECIALE

di Alessandra Di Giovambattista

16-12-2023

Le attuali cinque Regioni a statuto speciale, cioè il Friuli-Venezia Giulia, la Sardegna, La Sicilia, il Trentino-Alto Adige/Sud Tirolo diviso nelle due province autonome di Trento e Bolzano, e la Valle d’Aosta, sono previste nella Costituzione italiana all’articolo 116, a differenza dello Statuto Albertino che non ne riconosceva alcuna, alle quali sono state conferite particolari forme di autonomia in ragione di peculiari situazioni storico-geografiche.

Le competenze politico-amministrative e l’ordinamento finanziario sono disciplinati dallo statuto speciale di ogni singola Regione, che ha natura di legge costituzionale, e che ha bisogno di norme di attuazione. La procedura di modifica degli statuti speciali è disciplinata dall’articolo 138 della Costituzione e segue un iter legislativo aggravato di discussione e di maggioranza ed è volto a garantire la più ampia partecipazione degli organi regionali coinvolti. Le norme di attuazione sono invece emanate dal Governo e seguono anche esse un iter peculiare che si basa sulla riserva in via esclusiva degli statuti speciali nelle varie materie di interesse. Per le modifiche delle norme statutarie concernenti la finanza di ciascuna Regione speciale, gli statuti contengono delle disposizioni specifiche in ragione del carattere pattizio delle relazioni di ciascuna Regione autonoma nei confronti dello Stato. In effetti la caratteristica principale della finanza di questi territori si ritrova nel fatto che lo Stato concorda con ciascuna Regione, attraverso degli accordi bilaterali, le misure e le modalità del contributo per ognuna di esse agli obiettivi della finanza pubblica, l’eventuale attribuzione di nuove funzioni, la variazione delle aliquote dei tributi erariali esistenti o di nuova emanazione e la partecipazione attraverso contributi aggiuntivi e speciali per far fronte a specifici problemi.

Più nello specifico le norme statutarie definiscono ambiti e limiti del potere impositivo, tributario, finanziario e contabile di ogni Regione autonoma, riconoscono la titolarità del demanio e del patrimonio regionali, elencano tributi erariali e determinano la quota di gettito devoluta alle casse della Regione, definiscono il potere legislativo ed amministrativo in ambito finanziario.

Con riferimento all’aspetto finanziario poniamo prima l’attenzione sulla parte delle spese, in particolare sul contributo che lo Stato centrale chiede alle autonomie speciali per il risanamento dei conti pubblici, misura che nasce in attuazione di accordi bilaterali con le singole autonomie. In primo luogo lo Stato può predisporre degli accantonamenti a valere sulle risorse destinate alle Regioni a statuto speciale a titolo di compartecipazione ai tributi erariali; in secondo luogo le Regioni possono decidere di assumere oneri per l’esecuzione di funzioni direttamente trasferitegli dallo Stato: è il caso ad esempio delle province autonome di Trento e Bolzano che hanno assunto interamente o pro quota i costi delle università o dei parchi presenti sui propri territori, oppure della regione Valle d’Aosta che ha assunto gli oneri per lo svolgimento dei servizi ferroviari locali che per motivi ecologici vengono forniti utilizzando esclusivamente l’alimentazione elettrica; infine lo Stato applica le regole contenute nel patto di stabilità interno dove viene richiesto il raggiungimento del pareggio di bilancio a tutte le autonomie regionali. Ognuno di questi accordi bilaterali ha individuato il contributo della singola Regione alla finanza pubblica per il raggiungimento di finalità collettive; a titolo di esempio la Regione Valle d’Aosta vi ha contribuito a decorrere dal 2022 con circa 82 milioni di euro, il Friuli-Venezia Giulia ha partecipato con circa 432 milioni di euro a partire dal 2022 e fino al 2026, la regione Siciliana con 800 milioni di euro circa a decorrere dal 2022, la regione Sardegna con 306 milioni di euro a decorrere dal 2022, mentre il Trentino-Alto Adige/Sud Tirolo e le singole province di Trento e Bolzano a decorrere dal 2022 partecipano con un importo di circa 713 milioni di euro annui. Negli ultimi accordi bilaterali bisogna però sottolineare che lo Stato si è riservato la facoltà di modificare unilateralmente il contributo richiesto alle Regioni, quindi senza richiesta preventiva di accordo, ma solo qualora la modifica sia limitata nel tempo, adottata per eccezionali esigenze di finanza pubblica e per un importo non superiore al 10% del valore del contributo stesso. Un esempio in tal senso può essere rinvenuto nella riduzione del concorso alla finanza pubblica da parte delle Regioni e Province autonome a partire dall’anno 2020 per compensare la perdita di entrate tributarie che hanno subito i citati territori autonomi a causa dell’emergenza sanitaria da Covid-19. Per tale situazione è stato istituito nel 2020, con apposito decreto legge, un fondo con una dotazione di 4.300 miliardi di euro suddiviso in 1.700 miliardi di euro per le Regioni a statuto ordinario ed i restanti 2.600 miliardi di euro a favore delle Regioni a statuto speciale e delle Province autonome di Trento e Bolzano. Altra misura di sostegno è stata varata nel 2021, sempre a causa del protrarsi dell’emergenza sanitaria, ed è basata sulla possibilità che tali territori possano utilizzare l’avanzo di amministrazione che è stato accantonato e vincolato negli anni. Ciò con l’obiettivo di ampliare la capacità di spendita delle Regioni autonome sia per le spese correnti, sia per quelle di investimento.

La disciplina della finanza delle Regioni a statuto speciale e delle Province autonome coinvolge anche e soprattutto, il sistema delle entrate. Oltre ai tributi propri che tali Regioni possono istituire nell’ambito di una cornice di tipologie indicata dallo Stato, la fetta più consistente del gettito per tali territori è rappresentata dalle quote di compartecipazione ai tributi erariali maturati e riscossi nei loro territori (cioè il riversamento alle Regioni, pro quota o per intero, del gettito che percepisce lo Stato), che rappresentano delle entrate indirette, e che si presentano di gran lunga più considerevoli nell’ammontare rispetto a quanto di spettanza alle Regioni a statuto ordinario. Questo forte divario spiega il fenomeno della richiesta di migrazione di alcuni Comuni verso i territori autonomi in una sorta di richiesta di annessione (si pensi al caso di Cortina d’Ampezzo e degli altri comuni limitrofi al confine con il Trentino-Alto Adige/Sud Tirolo). La compartecipazione regionale ai tributi erariali, è nata a seguito della soppressione di alcuni trasferimenti statali diretti e viene individuata per ciascuna Regione sulla base della media dei consumi finali delle famiglie rilevati dall’Istat a livello regionale. Essa si sostanzia nella destinazione alle Regioni di una parte delle risorse finanziarie che incassa l’Erario. Ogni statuto speciale elenca la tipologia di imposte erariali di cui una quota deve essere destinata alla Regione autonoma, le diverse aliquote differenziate in ragione della natura del tributo, della base imponibile e delle modalità di attribuzione. È evidente che tali compartecipazioni, anche se definite come “tributi propri” non rappresentano una forma di gettito autonoma in quanto la loro istituzione, regolamentazione, contenzioso, ecc. sono di fatto totalmente gestite dallo Stato.

Tuttavia nella Regione Siciliana, nel Friuli Venezia Giulia e nel Trentino-Alto Adige la riscossione avviene direttamente da parte degli uffici finanziari delle Regioni stesse, mentre la Sardegna ha chiesto di recente di attivare la modalità di riscossione diretta. Invece per la Valle d’Aosta i tributi sono riscossi dallo Stato che provvede poi a devolverglieli nella quota spettante. Conseguentemente al diritto di riscossione, le Regioni partecipano anche all’attività di accertamento dei tributi riscossi sul proprio territorio. È interessante notare le differenti percentuali di compartecipazione al gettito erariale da parte delle quattro Regioni a statuto speciale e delle due Province autonome. In particolare:

  • la Valle d’Aosta ha una compartecipazione del 100% (quindi per la totalità) del gettito IRPEF, IRES, IVA e Accisa sui carburanti; inoltre le sono devoluti anche il 90% delle imposte erariali sugli affari (registro, bollo, ipotecarie, concessioni) e dei proventi del lotto che vengono incassati sul proprio territorio;

  • le due province autonome di Trento e Bolzano hanno una compartecipazione del 90% del gettito per IRPEF, IRES e Accisa sui carburanti, mentre dell’80% degli incassi per IVA, le sono inoltre destinate anche le entrate derivanti dalla raccolta di tutti i giochi con vincita in denaro sia di natura tributaria, sia di natura non tributaria; per completezza si sottolinea che anche alla regione Trentino-Alto Adige vengono devolute alcune altre imposte quali: il 100% del gettito derivante dalle imposte ipotecarie, il 90% delle imposte sulle successioni e donazioni e dei proventi del lotto, infine il 10% dell’IVA;

  • il Friuli Venezia-Giulia ha una compartecipazione del 59% per quanto riguarda IRFEF e IRES del 45% a titolo di IVA, di accisa sull’energia elettrica e sui tabacchi, delle entrate derivanti dai giochi e delle tasse automobilistiche, mentre è del 30% circa la devoluzione dell’accisa sui carburanti;

  • la Regione Siciliana ha una compartecipazione del 71% per IRPEF, del 100% per IRES e per tutte le altre entrate tributarie, del 36% per IVA e nessuna compartecipazione per l’Accisa sui carburanti e per i proventi del lotto;

  • la Sardegna ha una compartecipazione del 70% per IRPEF ed IRES, del 90% a titolo di IVA, di imposte ipotecarie, bollo e registro, concessioni, energia elettrica e le accise, mentre viene devoluto il 50% delle imposte sulle successioni e donazioni.

Si tenga presente poi che sono a carico diretto dello Stato le spese per l’apparato della giustizia, delle forze dell’ordine, per le infrastrutture ferroviarie, autostradali e per la gestione i trafori, per l’erogazione dei servizi INPS e gli oneri per il finanziamento alle istituzioni politiche ed amministrative statali.

Da quanto esposto risulta che le Regioni a statuto speciale hanno prerogative di molto superiori alle Regioni a statuto ordinario le quali sono dotate di minore autonomia finanziaria, non possono introdurre tributi, non hanno potestà legislativa esclusiva, non possono negoziare bilateralmente con lo Stato le modifiche degli statuti e le loro posizioni tributarie, e l’organizzazione amministrativa è direttamente gestita dai Comuni. Queste forti differenze ci introducono al problema della richiesta da parte di tutte le Regioni italiane di maggiore autonomia - nella difesa da posizioni di regionalismo che vedrebbero comunque un accentramento da parte dello Stato - che implicherebbe maggiore responsabilità di governo da parte dei poteri regionali verso la collettività presente sul territorio, anche attraverso la costante verifica delle risorse in loro possesso ed il loro utilizzo per garantire dei servizi efficienti ed efficaci. Ecco perché è entrata in crisi la suddivisione tra Regioni ordinarie e a statuto speciale e si è richiesta la c.d. “autonomia differenziata”, in quanto le diversità che ne avevano giustificato la separazione sembrano essere anacronistiche perché le problematiche di natura sociale ed economica investono oramai, indistintamente, tutto il territorio nazionale.

 

LE REGIONI A STATUTO SPECIALE: QUESTIONI STORICHE
di Alessandra Di Giovambattista

13-12-2023

 


Le Regioni a statuto speciale presenti in Italia rappresentano una innovazione della Costituzione Repubblicana del 1948 rispetto allo Statuto Albertino che non le contemplava. Dette Regioni sono le realtà locali più importanti nella struttura territoriale dello Stato che si presenta come un unicum suddiviso in Regioni a statuto ordinario.
Le Regioni a statuto speciale godono tutte del medesimo livello di autonomia rispetto allo Stato centrale e l’articolo 116 della Costituzione ne prevede cinque: il Friuli-Venezia Giulia, la Sardegna, la Sicilia, il Trentino-Alto Adige/Sud Tirolo (per quanto riguarda il Trentino-Alto Adige occorre sottolineare che negli anni settanta si è deciso di frazionare il territorio regionale in due Province autonome, quella di Trento e quella di Bolzano), e la Valle d’Aosta. Esse dispongono di forme e condizioni particolari di autonomia, ognuna secondo le norme contenute nei rispettivi Statuti speciali che vengono adottati con legge costituzionale. In particolare le competenze legislative ed amministrative, nonché l’ordinamento e l’organizzazione finanziaria sono disciplinati dallo statuto speciale e dalle sue norme di attuazione.
Per approfondire si specifica che la legge costituzionale è un particolare atto normativo che ha un rango analogo a quello della Carta Costituzionale il cui procedimento di approvazione è definito dall’articolo 138 della Costituzione stessa con una procedura che viene definita aggravata in quanto prevede passaggi più complessi rispetto a quelli previsti per l’emanazione delle leggi ordinarie. Nello specifico la Costituzione dispone che le leggi costituzionali debbono essere adottate da ciascuna Camera (Senato e Camera dei Deputati) con due deliberazioni successive che intercorrono a distanza di almeno tre mesi e sono previste maggioranze assolute dei componenti.
Mentre le Regioni a statuto ordinario con semplice legge regionale provvedono a disciplinare determinati argomenti nel contesto dell’ordinamento generale delle Regioni (articolo 123 della Costituzione), gli statuti delle Regioni ad autonomia differenziata provvedono a definire in regime autonomo ed anche in deroga alle norme costituzionali – però solo in determinati casi specifici in quanto vanno comunque salvaguardati i principi fondamentali della Costituzione Italiana - sulle quali prevalgono per effetto del principio di specialità. In sostanza l’autonomia differenziata di queste porzioni di territorio italiano è rappresentata dal fatto che vengono riconosciuti dei margini di autonomia maggiori nei confronti dello Stato, rispetto alle altre Regioni ordinarie (a queste ultime, ad esempio viene preclusa la capacità normativa in materia di autonomia finanziaria dallo Stato che invece viene autorizzata per le Regioni a statuto speciale).
Ci si domanda tuttavia quando e perché fu opportuno istituire tali realtà geo-politiche che da alcuni sono considerate oggi anacronistiche e generatrici di disuguaglianze territoriali che si traducono di fatto in maggior ricchezza in questi territori autonomi rispetto alle regioni a statuto ordinario. La necessità è di natura storica ed è riconducibile al periodo della ricostruzione dopo la conclusione della seconda guerra mondiale; inizialmente i territori a cui si decise di riconoscere delle forme di autonomia governativa furono solo quattro; non era incluso il Friuli-Venezia Giulia che fu invece aggiunto con legge costituzionale nel 1963. Ognuno di questi territori aveva delle storie peculiari in cui si ritrovano le ragioni della scelta di forme di autogoverno.
In generale, il riconoscimento dell’autonomia speciale fu dovuto alla presenza di numerosi movimenti separatisti nei territori come la Valle d’Aosta , il Trentino-Alto Adige e il Friuli-Venezia Giulia dove la presenza di minoranze linguistiche, che parlano idiomi diversi da quello italiano, avrebbero potuto compromettere la coesione nazionale. Nello specifico in Valle d’Aosta si parla il francese, in Trentino-Alto Adige il tedesco ed il ladino, mentre in Friuli-Venezia Giulia lo sloveno. Il compromesso trovato dall’assemblea Costituente fu quindi l’istituzione dell’autonomia speciale che ha permesso allo Stato italiano di mantenere inalterati i confini geo-politici, ma concedendo più indipendenza a territori caratterizzati da elementi di peculiarità rispetto al altri.
L’autonomia concessa al Trentino-Alto Adige/sud Tirolo fu riconosciuta in quanto tale territorio già godeva di una lunga tradizione di autogoverno, in più occorreva dominare ed imbrigliare le forti spinte separatiste che volevano un ricongiungimento con la vicina Austria. Si decise quindi di tutelare la minoranza Altoatesina di lingua tedesca per garantirne l’evoluzione e la convivenza socio culturale ed economica con il gruppo linguistico italiano presente nel territorio del Trentino.
Invece in Sicilia il movimento separatista aveva dei precedenti storici ben radicati e dopo lo sbarco alleato del 1943 scoppiò la scintilla indipendentista già presente prima della prima guerra mondiale. In particolare lo slogan all’epoca era: “la Sicilia ai siciliani” e nel luglio del 1943 con un proclama ufficiale la Sicilia preannunciava la secessione dall’Italia e chiedeva controllo ed aiuto a livello internazionale. In quel periodo la volontà era di fare della Sicilia uno stato indipendente; da qui la necessità per il nuovo Stato italiano repubblicano di riconoscere l’autonomia alla più grande isola del Mediterraneo, ed infatti con il riconoscimento dello statuto speciale siciliano emanato il 15 maggio del 1946 decrebbe rapidamente l’interesse al secessionismo da parte della popolazione isolana.
Anche in Sardegna il movimento secessionista era forte; in particolare l’isola riuniva popolazioni diverse per lingua e cultura che l’Italia dei primi del novecento non era riuscita a far convivere. In particolare le masse popolari si opposero ai governi di Giolitti e furono recuperate le spinte indipendentiste che restituivano valore alla storia ed alla cultura isolana (con particolare riferimento alla civiltà nuragica e a quella giudicale). Lo stesso Antonio Gramsci che era vissuto diversi anni a Cagliari era convinto che bisognasse lottare per l’indipendenza nazionale della Sardegna. Questo movimento fu sostenuto fino al 1913, ma con lo scoppio delle due grandi guerre il problema della secessione passò in secondo piano; tuttavia con la conclusione della seconda guerra mondiale venne approvato lo Statuto speciale di autonomia della Sardegna, il 31 gennaio 1948 e promulgato il 26 febbraio del 1948, che ne assicurò un certo grado di indipendenza e di autogoverno.
In val d’Aosta, con lo scoppio dell’ultimo conflitto mondiale, si crearono forti movimenti anti nazifascisti e nella regione si organizzarono gruppi di partigiani che diedero vita alla resistenza valdostana. Ciò che caratterizzò la lotta di liberazione era il fatto che tali gruppi si basassero essenzialmente sulle forze autoctone cercando di evitare di chiedere aiuti a forze partigiane italiane e ciò perché l’obiettivo politico non si limitava all’eliminazione del nazifascismo, ma si estendeva al recupero delle forme di autonomia che avevano caratterizzato la storia della regione. In tale contesto si sviluppò la prospettiva del secessionismo e dell’annessione alla vicina Francia, cosa che l’Italia scongiurò prevedendo l’autonomia speciale della regione Valle d’Aosta.
Anche la storia separatista del Friuli-Venezia Giulia ha origini antiche; dopo la disfatta di Caporetto del 1917 i rappresentanti friulani presso il Parlamento di Vienna iniziarono una campagna politica per l’autonomia del Friuli orientale (con capoluogo Gorizia) appoggiata anche dal Partito cattolico popolare del Friuli. Nel 1918 tali territori ottennero la piena libertà di autodeterminazione grazie ad un proclama di Carlo I (ultimo imperatore d’Austria). Successivamente, durante il periodo fascista, il Friuli subì un processo di assimilazione culturale a scapito delle popolazioni di lingua slovena e tedesca; si innescarono anche movimenti che premevano sulla comunità friulana affinché si contrapponesse alla comunità slava. Dopo la seconda guerra mondiale, e precisamente nel 1945, nacque ad Udine l’Associazione per l’autonomia friulana che aveva come obiettivo quello di sostenere che il Friuli possedeva cultura e tradizioni nettamente distinte dalle limitrofe regioni del Veneto e della Giuliana e pertanto era naturale che avesse la più ampia autonomia politico-amministrativa ed economica nell’ambito dello Stato italiano. Nel 1947 si sviluppò anche il radicale Movimento popolare Friulano con l’intento di ottenere la più ampia autonomia dal potere politico-amministrativo italiano. Ma solo negli anni 60 si iniziò a discutere sulla creazione della Regione autonoma del Friuli-Venezia Giulia, una realtà territoriale di confine con un territorio comunista (ex Jugoslavia) che limitava lo sviluppo economico della Regione a causa della guerra fredda, e con un elevato tasso di emigrazione. In questa situazione nacquero e si consolidarono delle tendenze separatiste e anti-italiane che spinsero il governo al riconoscimento dell’autonomia speciale di questa regione.

IL VALORE DELLA CULTURA: UNO DEI MOTORI DELL’ECONOMIA ITALIANA
di Alessandra Di Giovambattista
09-12-2023
La cultura, concetto pieno di significato e riconducibile alle conoscenze, esperienze, storia, vissuto di una collettività, propulsore dello sviluppo umano, è fisicamente rappresentata e quindi resa fruibile e concreta, anche in ambito economico, dai beni culturali singoli (ogni opera d’arte) o collettivi (musei, biblioteche, pinacoteche, siti archeologici, e via dicendo) che hanno un altissimo valore, non solamente monetario. Tuttavia spesso riesce impossibile fare una stima delle opere d’arte; comunemente si usa la locuzione “non ha valore” per sottolineare l’unicità di ognuna di esse nel patrimonio dell’umanità. Ecco quindi di frequente la difficoltà di attribuire un valore ai beni che formano il patrimonio collettivo di una comunità.
Ma come viviamo oggi le nostre radici culturali? Secondo un’indagine dell’Istituto Superiore di statistica (ISTAT) gli italiani per una quota del 45,3% sono fruitori di spettacoli cinematografici, ma non tutti si recano al cinema; infatti aumenta il numero dei soggetti che vedono film via web o in TV e questa è una tendenza che si osserva da diverso tempo. Successivamente si registra una discreta propensione per la lettura, per una percentuale poco più del 41,4%, che implica però che più della metà dei soggetti, nel tempo libero, non legge neanche un libro l’anno. Seguono poi le visite presso i musei e le mostre e successivamente le visite a siti archeologici e monumenti. Il confronto con i popoli dell’Europa ci pone in netta minoranza circa le presenze a teatro, concerti e balletti classici: a fronte della nostra percentuale del 25,3% abbiamo una quota europea media del 42%, con valori pari al 32,7% in Spagna ed al 54,8% in Francia. Medesime differenze si registrano per le visite ai musei, siti archeologici e monumenti.
Ma per comprende meglio il valore della cultura possiamo essere aiutati dai contenuti di un’altra indagine individuata nel rapporto “Io sono cultura 2023”, relativo ai dati di settore registrati nel 2022, promosso dalla fondazione Symbola e da Unioncamere, in collaborazione con l’Istituto per il Credito sportivo ed il Ministero della Cultura, con il Centro studi Tagliacarne a Roma (fondazione della stessa Unioncamere) e la Fondazione Fitzcarraldo di Torino. Da tale indagine è emerso che cultura e bellezza sono aspetti ormai radicati nella società e nell’economia italiana; la forte relazione con la manifattura ha permesso di creare un robusto sodalizio produttivo: il made in Italy. Il settore culturale ha sofferto più degli altri negli anni della pandemia, ma sembra che stia rinascendo più solido anche perché ha sviluppato nuove forme di fruizione dei servizi; quindi si assiste ad una forte ripresa economica e sociale del comparto che sta creando ricchezza e posti di lavoro, confermando così il suo ruolo economico centrale.
Nell’ambito produttivo la cultura si coniuga bene con l’innovazione e la creatività che immesse nei processi produttivi manifatturieri rappresentano dei fattori che hanno contribuito al successo di molti prodotti italiani, anche ecosostenibili. In più la cultura potenzia il settore turistico e quello enogastronomico. Il rapporto viene redatto ogni anno e quantifica il peso della cultura e della creatività nell’economia nazionale. Il sistema produttivo culturale e creativo si compone di tutti gli operatori economici che producono beni e servizi di natura culturale ma anche tutto l’indotto che utilizza la cultura come fattore produttivo per accrescere il valore dei prodotti e quindi la competitività sul mercato. Nel settore riconosciamo le attività di conservazione e valorizzazione del patrimonio storico-artistico (biblioteche, emeroteche, archivi, musei) di arti visive e prestazioni artistiche (teatri, concerti, balletti) e tutto ciò che vi ruota intorno dai video giochi alla stampa, ai media radio televisivi, alla critica, all’architettura al design, alla moda.
Nel 2022 la filiera ha prodotto complessivamente un valore aggiunto pari a 95,5 miliardi di euro, in aumento del 6,8% rispetto all’anno 2021 e del 4,4% rispetto al 2019, recuperando anche i posti di lavoro che si erano persi durante il periodo della pandemia e facendo registrare un aumento del 3% rispetto ad una media nazionale dell’1,7%.
Molto interessante notare che contribuisce, in modo sostanzioso, all’incremento del valore aggiunto del settore della cultura e del suo indotto, anche il comparto dei videogiochi e dei software che rappresenta il mercato digitale delle prestazioni artistiche c.d. performing arts e delle arti visive con il quale si è creato un sodalizio con le attività di valorizzazione del patrimonio storico e artistico. A mero titolo di esempio si pensi alla realtà aumentata (AR) che permette di riprodurre attraverso appositi strumenti definiti di “realtà virtuale” - VR (virtual reality) situazioni, spettacoli ed eventi che avvenivano nell’antichità; un esempio è fornito a Roma dall’esperienza di realtà aumentata presso il Circo Massimo dove attraverso sofisticati software è possibile rivisitare il sito in tutte le sue fasi storiche e sentirsi immersi nelle varie realtà del passato.
In termini territoriali la ricerca ha evidenziato che le regioni maggiormente specializzate in beni e servizi culturali e creativi sono la Lombardia ed il Lazio; la prima genera, nel comparto, un valore aggiunto che da solo rappresenta il 27,6% dell’intera filiera, mentre la seconda, quale principale centro turistico – culturale, partecipa per il 15% all’intera produzione del settore. Ambedue le regioni mostrano, rispetto al resto d’Italia una maggiore specializzazione culturale e creativa che genera valore ed influisce positivamente sullo sviluppo del territorio, sia in termini di ricchezza sia in termini occupazionali. Subito dopo troviamo la regione Piemonte, il Friuli-Venezia Giulia, il Veneto e la Toscana. Tuttavia i migliori risultati in termini di aumento del valore aggiunto rispetto ai periodi precedenti (tra il 2019 ed il 2022) si riscontrano in Liguria, in Basilicata, in Lombardia ed in Campania. Per quanto attiene invece l’aumento di occupazione le migliori performances (per lo stesso triennio di osservazione) sono date dalla Liguria, dalla Campania e dalla Puglia; mentre le regioni Trentino-Alto Adige, Umbria e Sicilia, registrano un calo occupazionale.
È utile sottolineare che fanno parte del settore non solo le imprese private, ma anche le organizzazioni non-profit, cioè aziende che operano sul mercato senza avere come obiettivo un surplus economico (reddito positivo, cioè utile), ed i soggetti pubblici; anzi occorre evidenziare come a fronte delle molte innovazioni in atto rimanga necessario il contributo delle politiche pubbliche nazionali ed europee per cercare di superare le difficoltà finanziarie dovute ai recenti shock sanitari, inflazionistici e ai purtroppo ancora attuali conflitti in Europa e nel Medio oriente.
Dall’unione europea arrivano fondi per finanziare il programma nato per progettare futuri modi di vivere unendo arte, cultura, design, architettura, inclusione sociale, scienza e tecnologia, il c.d. New European Bauhaus (NEB). Con tale piano la comunità europea intende affrontare il problema della sostenibilità supportandolo con i concetti di estetica ed accessibilità, in una sorta di programma multidisciplinare orientato alla transizione ecologica indicata dal piano c.d. Next Generation EU; in due anni l’iniziativa ha creato una comunità attiva di soggetti in tutti gli Stati membri ed ha investito circa 106 milioni di euro per il 2023 ed il 2024. Se l’Italia riuscisse a produrre valore e lavoro nel settore culturale si favorirebbe un’economica più vicina alle necessità umane, più competitiva e più orientata al futuro, così come sostenuto anche nel manifesto di Assisi, e le ricadute si avrebbero in un aumento della domanda di “Italia” da parte dei consumatori provenienti dai diversi Paesi del mondo. In questo senso, un indicatore di gradimento e di attrattività per i visitatori del nostro Paese è la spesa sostenuta per consumi culturali che ha sfiorato i 35 miliardi di euro nel 2022, pari al 44,9% delle spesa turistica complessiva.
Il settore culturale si presenta quindi come un ambito strategico nei processi di trasformazione sostenibile dei modelli di sviluppo per i quali l’Italia si è impegnata a livello internazionale sottoscrivendo l’agenda ONU per il 2030 e a livello europeo con l’adesione al “Green deal” e al citato programma Next Generation EU. Gli impegni sottoscritti in Europa vengono calati nei singoli piani nazionali di ripresa e resilienza (c.d. PNRR) presentati dai differenti Paesi; si vede come la leva culturale stia progressivamente aumentando il peso nelle scelte economiche e in particolare nel comparto turistico nel rispetto della sostenibilità sul territorio e del territorio, della innovazione, del benessere individuale e collettivo e della integrazione e inclusione sociale. Il nostro Governo ha destinato al comparto risorse per circa 6,68 miliardi di euro identificando la missione “digitalizzazione, innovazione, competitività, cultura e turismo”; si comprende come le politiche pubbliche intendano incentivare un settore trainante per tutta l’economia nazionale, dove il marchio made in Italy gioca un ruolo fondamentale per la ripresa ed il rafforzamento del tessuto economico. In tal senso si pensi che il solo turismo rappresenta il 12% circa del PIL nazionale.
Gli obiettivi inclusi nel PNRR sono riconducibili alla sostenibilità ambientale ed alla tutela del patrimonio paesaggistico e culturale e le politiche di sviluppo coinvolgono anche le politiche occupazionali in quanto i settori del turismo e della cultura sono tra quelli che registrano una grande forza lavoro in ambito giovanile e femminile e quindi anche in tal senso riescono a cogliere gli obiettivi generazionali e di genere contenuti nel PNRR. Gli investimenti nel settore della cultura individuati nel piano di ripresa e resilienza riguarderanno tutti i siti culturali delle grandi aree metropolitane cercando anche di rigenerare aree abbandonate e periferiche, inoltre non trascureranno i piccoli borghi e le aree rurali, per creare una domanda di esperienze nuove e più legate alla terra ed alla tradizione popolare, così come terranno in debito conto il patrimonio turistico culturale delle isole minori che rimangono sempre troppo al margine delle politiche di sviluppo economico. Anche le misure contenute nella politica di coesione europea per il periodo 2021-2027 si mostrano particolarmente sensibili ai temi della cultura indicando come obiettivo specifico quello del rafforzamento del turismo sostenibile e a sfondo culturale al fine di raggiungere un più elevato livello di sviluppo economico, di inclusione e di innovazione sociale.
Il messaggio che occorre far passare è che siamo una popolazione fortunata, perché godiamo di infinita bellezza: artistica, territoriale, umana, ma non possiamo vivere di ricordi e di rendita, occorre ripensare modelli economico-culturali nuovi e ripensarci come fruitori, consumatori di cultura. Su tutto però sarà sempre indispensabile, anche con l’aiuto delle istituzioni scolastiche, continuare a nutrire l’amore e la passione per tutti gli ambiti culturali che hanno sempre caratterizzato le anime dei nostri grandi antenati italici.