Han Kang e Il libro bianco

Il 5 novembre 2025, presso il Teatro Dal Verme di Milano, la scrittrice Han Kang (한강) ha rilasciato una lunga intervista per presentare l’edizione italiana del libro dal titolo “Il libro bianco”, (2016) tradotto da Lia Iovenitti e edito da Adelphi Edizioni, nel quale memoria e poesia, dolore e rinascita si rivelano in un intreccio, tessuto dal fil rouge del colore bianco e del suo simbolismo: la purezza, la perdita, la resistenza dell’animo umano.

Han Kang, con la sua scrittura limpida e struggente, è oggi una delle voci più amate e riconosciute della letteratura coreana. Nata a Gwangju nel 1970, ha conquistato lettori di tutto il mondo grazie alla delicatezza con cui affronta i temi della memoria, del dolore e della rinascita. Nel 2016 si è imposta sulla scena internazionale con La vegetariana, opera che le è valsa il Man Booker International Prize. Otto anni dopo, nel 2024, ha ricevuto il Premio Nobel per la Letteratura, per “la sua scrittura di straordinaria sensibilità, capace di illuminare la fragilità e la dignità dell’essere umano”.

«Il libro bianco» rappresenta una delle opere più intime e meditate dell’autrice sudcoreana, già nota in Italia per «La vegetariana», «Atti umani», «L’ora di greco» e «Non dico addio». Nelle sue pagine, il bianco diventa una lente attraverso cui guardare il dolore, la perdita e la possibilità di rinascita. Non un colore, ma una condizione dell’anima: il bianco come respiro sospeso tra la vita e la memoria.

Il titolo originale, 《흰》(Heuin), significa letteralmente “bianco”, ma in coreano racchiude sfumature che vanno oltre la semplice percezione visiva. Han Kang distingue infatti tra 하얀 (Hayan), il bianco vivido e tangibile, e (heuin), un bianco interiore, silenzioso, che appartiene alla memoria e all’essenza delle cose. In questo senso, il “bianco” di Han Kang non è mai neutro: è il colore del lutto, ma anche quello della nascita; è assenza e possibilità, cancellazione e promessa.

La prosa dell’autrice si fa minimale, quasi trasparente, come se volesse imitare la leggerezza del bianco stesso. Frammenti brevi, quasi aforistici, si susseguono come fotografie interiori: gesti, oggetti, ricordi che emergono e svaniscono nel silenzio della pagina. Ogni parola è scelta con cura, come se scrivere fosse un atto di purificazione, un modo per dare forma a ciò che non può essere detto.

«Il libro bianco» trascende i confini della narrativa tradizionale, avvicinandosi alla poesia e alla meditazione filosofica. È un omaggio alla fragilità umana e alla forza invisibile che ci permette di continuare a vivere, anche dopo la perdita.

In un’epoca satura di rumore e di immagini, Il libro bianco invita al silenzio, all’ascolto e alla contemplazione. È un libro da leggere lentamente, come si osserva una distesa di neve: ogni pagina, un respiro.

I primi trenta minuti dell’incontro con Han Kang sono stati dedicati alla lettura di brani estratti dal libro, prima in coreano dalla Autrice, quindi in italiano da Daria Deflorian.

Una sala silenziosa ha trattenuto il respiro in un’attesa densa, vibrante, per poi sciogliersi in un lungo applauso, che ha introdotto l’intervista condotta da Marco Del Corona.

Dopo aver ricordato che «Il Libro bianco­» (2016) ha portato, insieme con «La vegetariana» e «Atti umani», alla attribuzione del premio Nobel per la letteratura del 2024 a Han Kang, la prima autrice dell'Asia orientale a ricevere il prestigioso premio, Del Corona ha evidenziato come il libro sembri non avere una vera e propria trama, quanto piuttosto due trame minime: la storia della sorella della autrice, nata e morta prima della sua nascita, e il viaggio della scrittrice a Varsavia. Ha quindi chiesto quale fosse il legame tra questi due elementi.

Han Kang ha spiegato di aver cominciato a scrivere il libro all'inizio del 2014, quando ha visitato Varsavia, ma di aver avuto in mente di scrivere un libro sul tema del bianco già prima di allora. Quando è arrivata a Varsavia, innanzitutto ha redatto una lista di cose bianche: la luna, il bianco delle onde, il sale, le ossa, il camicino per il neonato o anche gli abiti del lutto, che in Corea sono bianchi. Ciò che è bianco appare fondamentale, sembra racchiudere una radice; quindi, ha deciso di descrivere le diverse parole. Ha iniziato a scrivere del camicino e della coperta per i neonati, e a quel punto si è resa conto che stava scrivendo della sua sorella morta, della quale sua madre raccontava spesso, ed ha intuito che il libro non sarebbe stato semplicemente una «lista di cose bianche», ma sarebbe divenuto qualcos’altro. Al contempo, passeggiando per Varsavia ha osservato i palazzi, notando muri e pilastri che avevano un colore leggermente diverso dal resto delle costruzioni. Ha quindi letto libri sulla storia di Varsavia, venendo a conoscenza del fatto che la città era risorta dalla guerra, durante la quale era stata quasi completamente rasa al suolo. Le è parso che la ricostruzione della città distrutta rispecchiasse il processo della scrittura e che ugualmente, attraverso tale processo, fosse possibile ricreare la vita di sua sorella, prestandole le proprie sensazioni, emozioni, la propria sensibilità, anche corporale. Ha quindi diviso il romanzo in tre capitoli. In particolare, nel primo capitolo spiega come abbia concepito una similitudine tra la storia di Varsavia e quella di sua sorella e come abbia deciso di “prestare” a quest’ultima il suo corpo. Nel secondo capitolo, poi, racconta di “cose bianche” osservate con gli occhi di sua sorella. Essendo venuta al mondo perché la sorella era morta, sentiva di doverle dire addio e così, tornata a Seoul, ha completato il terzo capitolo.

Del Corona ha quindi ricordato come i libri di Kang siano colmi di una spiritualità che si fatica a definire e «Il libro bianco», in particolare, rassomigli ad una preghiera. Ha quindi chiesto all’autrice quale sia il suo rapporto con la religione istituzionale, la fede e la spiritualità.

Han Kang ha raccontato di essere cresciuta in una famiglia molto vicina al buddismo. Ogni anno, celebravano il giorno della nascita di Budda ed era un evento importante. Il buddismo non venera un dio. Si prega per la salute della famiglia, per la pace e, accendendo una luce bianca, per la pace dei morti. La preghiera è un’azione che ha valenza soprannaturale. Preghiamo per le persone che non sono più con noi e nella preghiera mettiamo tutto il nostro cuore e questo è un atto che accomuna l’intera umanità. «Il libro bianco», in cui ha voluto ridare vita alla sorella morta attraverso le sensazioni del suo corpo e le sue emozioni, assomiglia alla preghiera.

Del Corona ha evidenziato come i libri di Han Kang abbiano trame molto articolate e siano centrati o sul tema del corpo, come «La vegetariana» e «L'ora di greco», oppure sulla violenza della storia, come in «Atti umani» e «Non dico addio». Questo libro invece ha solo un corpo, che ha vissuto soltanto due ore, e la violenza è quella del destino, che l'ha fatto morire. Ha quindi chiesto quale fosse il legame tra quest'opera e gli altri romanzi.

Han Kang ha spiegato che «Atti umani» è stato pubblicato l’anno in cui è andata a Varsavia e mentre lo aveva scritto, aveva pensato molto all’anima. Aveva pensato di stare prestando il suo corpo, le sue sensazioni ed emozioni a persone morte. Forse proprio per questo, ha poi immaginato di poter prestare il proprio corpo a sua sorella. Inoltre, in «Atti umani» ha usato spesso le parole “non morire, ti prego” e quando ha scritto il capitolo de «Il libro bianco» sul camicino del neonato si è resa conto che erano le parole che sua madre aveva detto a sua sorella. In «Il libro bianco» si riprende anche il concetto della impossibilità della coesistenza che si ritrova nel romanzo più recente, «Non dico addio», quando i due personaggi si confrontano e non si capisce chi di loro sia solo anima e chi sia vivo.

Del Corona ha quindi chiesto quale sia il luogo che Han Kang chiama casa.

Han Kang ha risposto che probabilmente l’essere andata via dalla sua città natale a nove anni ha influenzato molto la sua vita. Quando si è trasferita da Gwangju, città dell’estremo sud della Corea, a Seoul, era gennaio ed aveva avvertito molto freddo. Il dialetto, l’atmosfera e le persone erano diversi e forse la sua vita ha avuto come una scissione in quel momento. Tant’è, ha debuttato a poco più di vent’anni, con un romanzo breve intitolato «L’inverno di Seoul».

Poi però ha continuato a vivere a Seoul e adesso, quando torna a Gwangju, non riconosce le strade, neanche il dialetto, essendo trascorsi oltre quarant’anni da quando si è trasferita. Adesso vive in un quartiere di Seoul chiamato Seochon, dove si sente molto bene, nella sua bellissima casa con il giardino.

Con riferimento allo stile, Del Corona ha notato come «Il libro bianco» abbia uno stile difficile da definire: poesia in prosa, saggio personale, romanzo. Ha quindi chiesto se la scrittrice pensa di adottare lo stesso stile per altri lavori futuri o se pensa più a romanzi di respiro più tradizionale.

Kang ha risposto che per ogni opera che scrive adatta una struttura diversa, cercando sempre di trovare la forma giusta per ciascun progetto. Vorrebbe in futuro provare ad usare strutture diverse ma che in un certo senso si assomiglino.

Con riferimento al contenuto, Del Corona ha ricordato come il contenuto de «Il libro bianco» sia in realtà universale, tuttavia ha chiesto se vi fosse qualche tratto della cultura coreana che i lettori italiani dovrebbero conoscere per poter approfondire la comprensione del suo lavoro.

Han Kang ha raccontato come, dopo aver pubblicato «Il libro bianco», abbia avuto molte esperienze umane che la hanno emozionata. Ha partecipato ad incontri di lettura sia in Corea che in altri Paesi, e ogni volta ha incontrato lettori molto speciali. Forse perché ha condiviso una storia molto personale, i lettori che si avvicinavano per farle firmare il libro le raccontavano storie molto intime. Ha quindi concluso che pensare ai nostri morti e provare una tristezza infinita è profondamente umano e sono emozioni che tutti condividiamo.

Quanto alla peculiarità della cultura coreana, Han Kang a evidenziato che forse un aspetto un po’ difficile da cogliere per i lettori non coreani è la parola coreana  (heuin). Come è scritto anche alla fine del libro, in coreano esistono due parole per descrivere il bianco, (heuin) e 하얀 (hayan). I coreani colgono subito la differenza: 하얀 (hayan) indica un colore bianchissimo, invece (heuin) contiene il significato della vita e della morte.

Si tratta di una distinzione molto sottile ma profondamente poetica, che è esattamente uno dei punti centrali della riflessione di Han Kang.  (heuin) è più astratto e spirituale: un bianco che si avvicina al concetto di vuoto, silenzio, purezza, quasi trascendente. È il bianco della pagina vuota, della neve che assorbe il suono, del lutto nella cultura coreana. 하얀 (hayan) invece è sensoriale, luminoso, visivo. È il bianco che si vede e si sente, come la pelle, il latte, i fiori di melo. Han Kang in 《흰》, «Il libro bianco», gioca proprio su questa ambivalenza. Come lei stessa ha spiegato in una precedente intervista, «하얀 (hayan) è un bianco visibile, vivo;  (heuin) è un bianco interiore, che esiste nel silenzio».

Han Kang ha poi affermato che prima di essere una scrittrice, lei è una lettrice ed è sempre stata affascinata dalla potenza della letteratura. La forza del linguaggio è incredibile. Nella età contemporanea si parla di Intelligenza artificiale e di realtà virtuale, ma a suo parere l’esperienza di entrare nell’anima e nelle emozioni degli altri è incomparabile.

«Noi possiamo entrare nella vita degli altri e vivere la vita degli altri senza indossare occhiali per la realtà virtuale. Basta aprire un libro.» ha detto.

Ha poi continuato dicendo che incontrare l’anima degli altri e condividere le voci nascoste è una capacità che non cambia secondo lo scorrere del tempo, è la bellezza della letteratura, una bellezza che non è destinata a svanire.

Infine, ha concluso: «Senza letteratura non potrei sopravvivere».

Per consentire un primo approccio a «Il libro bianco», riporto di seguito i brani più brevi tra quelli letti in occasione dell’incontro/intervista augurando a tutti voi una buona lettura.

Da «Il libro bianco» di Han Kang.

Tenda di merletto

Camminando su una strada ghiacciata, alza lo sguardo al primo piano di un edificio. Una tenda di merletto dai sobri ricami è appesa al vetro di una finestra.

Sarà perché dentro di noi palpita qualcosa di bianco e incontaminato che la purezza di certi oggetti ci commuove sempre? A volte, ha come la sensazione che le federe e le lenzuola bianche fresche di bucato e perfettamente asciutte le parlino.

Quando sfiora, la sua pelle nuda, quel tessuto di cotone bianco sembra voglia dirle: tu sei preziosa. Il tuo sonno è immacolato ed essere vivi non è una vergogna.

È una strana consolazione, quella che le trasmette la pelle nuda a contatto con le lenzuola, nel lieve fruscio tra veglia e sonno.

Nuvolette di fiato

Quando, nelle prime mattine di freddo, una nuvoletta bianca ci esce dalle labbra, è la prova che siamo vivi. La prova che il nostro corpo è caldo. L'aria fredda, risucchiata nel buio dei polmoni e riscaldata dalla temperatura corporea, si trasforma in vapore bianco. È il miracolo della nostra vita, che si diffonde nell'aria sotto forma di una emanazione biancastra perfettamente visibile.

Fazzoletto

Un pomeriggio di fine estate, passando sotto una palazzina in una zona residenziale fuori mano, vide questa scena: una signora ritirava il bucato in una veranda al secondo piano, quando alcuni panni le caddero per sbaglio. L'ultimo a planare giù, più lento di tutti, fu un fazzoletto. Sembrava un uccello con le ali ripiegate a metà o uno spirito esitante, in cerca di un luogo dove posarsi.